Difficile in questo momento, nel quale abbiamo davanti agli occhi le drammatiche immagini del bombardamento di Gaza e apprendiamo il conteggio in continua crescita delle vittime civili palestinesi dopo quelle israeliane del 7 ottobre, prevedere il futuro prossimo e ancor più quello di medio e lungo periodo delle forze che oggi sono in campo nel conflitto.
Di Netanyahu, primo ministro e leader del Likud, anche all’interno di Israele si parla di come di un politico senza futuro, ma i conti saranno rinviati alla fine della guerra che, a dire degli stessi militari israeliani, potrà essere lunga. “Bibi” ha dimostrato una notevole capacità di restare a galla in questi anni e soprattutto il baricentro delle forze politiche in Israele si è talmente spostato verso l’estrema destra, che si fatica ad intravedere una figura in grado di aprire una nuova fase nel conflitto in corso in terra di Palestina.
Per quanto riguarda Hamas, l’obbiettivo dichiarato dal governo israeliano, e avallato da Stati Uniti e Parlamento europeo, è quello della sua distruzione. Obbiettivo complesso, dato che si tratta di un’organizzazione che ha radici nella popolazione palestinese e che ha dimostrato nel corso della sua esistenza di saper reggere anche a sfide esistenziali.
Dopo il 7 ottobre si è accentuata la spinta, nel discorso ufficiale dei grandi media e degli establishment politici occidentali, a liquidare Hamas come organizzazione terroristica, antisemita e fondamentalista, minaccia non solo per tutti gli ebrei del mondo ma per l’intero Occidente. Inevitabile in questo percorso retorico l’equiparazione al nazismo e a Hitler. Un meccanismo, già messo in atto in altre guerre, per impedire qualsiasi discorso razionale e per bloccare un dibattito pubblico che ragioni sui contesti, le cause e le possibili soluzioni politiche di un conflitto. Questa è tendenzialmente la necessità retorica di ogni guerra che, basandosi sull’uccisione del nemico, necessita contestualmente della sua disumanizzazione e insieme di convincere che è questione di vita e di morte: o la “loro” o la “nostra”. Per questo si spiegava che Putin era ormai pronto a scatenare le sue “orde barbariche” per farle arrivare sino al Portogallo e Hamas diventa una minaccia incombente per tutti gli “occidentali” (naturalmente bianchi).
Non è questa la sede per ricostruire in dettaglio la storia, la politica e l’ideologia di Hamas, operazione che pure andrebbe fatta per uscire dal dilemma tra demonizzazione senza contesto e utilizzo del contesto come giustificazione di tutto. Da un lato si cancella la storia e la sua complessità che non favorisce lo spirito di crociata, dall’altro si applica un cattivo storicismo che si sottrae all’esame degli obbiettivi, dei mezzi e delle finalità di un’organizzazione politica, in nome della sacrosanta solidarietà al popolo palestinese.
Nasce dalla “Fratellanza Musulmana”
Pe rispondere all’interrogativo “che cos’è Hamas” richiede quindi un’analisi complessiva della sua storia, ormai piuttosto lunga, dato che il “Movimento di Resistenza Islamico” è stato fondato nel 1987, a partire da un movimento, la “Fratellanza Musulmana” che, a sua volta, è nato in Egitto nel 1928. Nel mondo islamico e soprattutto islamista (distinguendo la convinzione religiosa dai movimenti che utilizzano la religione come giustificazione ideologica della propria azione politica) esistono correnti e organizzazioni che non sono tutte rinchiudibili in superficiali etichette. L’equiparazione tra Hamas, al Qaeda e Isis è evidentemente una forzatura propagandistica che non corrisponde alla realtà.
La branca palestinese della Fratellanza Musulmana ha svolto per diversi anni soprattutto attività di assistenza sociale e di tipo religioso ma ha dovuto operare in un contesto nel quale era egemone il nazionalismo laico e progressista di al Fatah, con una forte presenza di organizzazioni marxiste quali il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina di Habbash, il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina di Hawatmeh, nonché del Partito Comunista Palestinese (ora Partito del Popolo).
Di fronte allo scoppio della “Prima Intifada”, anche per la pressione delle nuove leve giovanili avvicinatisi al movimento, la leadership islamista decise di entrare direttamente nel conflitto in corso con l’occupante israeliano, dando vita al “Movimento di Resistenza Islamico”, da cui deriva la sigla Hamas. Poco tempo dopo la sua formazione venne pubblicata la famosa “carta fondamentale”, che ancora oggi viene richiamata in genere strumentalmente e a fini di propaganda, nella quale il rifiuto di riconoscere l’esistenza di Israele veniva sostenuto con argomentazioni religiose e con la ripresa di tematiche importate dall’antisemitismo europeo. Inoltre il movimento di proponeva di istituire un “Stato islamico” su tutto il territorio palestinese del 1948.
L’importanza del testo, dai contenuti indubbiamente reazionari, è stata ridimensionata da molti analisti e storici dato che non fu un’elaborazione collettiva degli organismi del movimento, ma la stesura di uno o di pochi personaggi storici della Fratellanza Musulmana. Il che però non elimina il fatto che questa impostazione ideologica circolava e si era sedimentata in quegli ambiti.
Si può pera segnalare come il contenuto della carta di Hamas del 1987 sia speculare a quello fondativo del Likud che dieci anni prima aveva vinto le elezioni e conquistato il governo mettendo fine ad una lunga egemonia laburista. Nella carta del 1977 della destra israeliana si afferma che “il diritto del popolo ebraico alla terra di Israele è eterno e non disputabile”, specificando che “Giudea e Samaria” ovvero i territori palestinesi occupati nel 1967, non possono essere “messi nelle mani di qualsiasi amministrazione straniera”.
La costituzione di uno “Stato palestinese” (indicato fra virgolette per indicare che si tratta di un’entità immaginaria e da rifiutare) metterebbe in pericolo la stessa esistenza di Israele. Per ovvie (quanto discutibili) ragioni, questo documento politico non ha la stessa risonanza mediatica del corrispondente testo di Hamas.
Il primo atto armato del “Movimento di Resistenza Islamico” furono il sequestro e l’uccisione di due soldati israeliani. Se per tutto un periodo i governi israeliani avevano lasciato crescere e svilupparsi il movimento islamista, visto come strumento utile a dividere il mondo palestinese e a indebolire l’OLP, questa azione portò ad una estesa repressione e incarcerazione di centinaia di dirigenti e militanti di Hamas, tra cui il leader e fondatore “sceicco” Yassin (che verrà prima liberato in uno scambio di prigionieri e poi assassinato dai killer israeliani). Questa repressione però, anziché portare all’eliminazione di Hamas, ne fece crescere la popolarità tra i palestinesi, come avverrà anche in successive occasioni.
Dopo il massacro di al-Aqsa dell’ottobre 1990, quando una folla di palestinesi che protestava per le provocazioni degli ebrei estremisti venne attaccata dalla polizia israeliana lasciando 17 morti sul selciato, Hamas dichiarò che ogni soldato israeliano era un obbiettivo militare e proclamò “la jihad contro il nemico sionista ovunque, su tutti i fronti e con ogni mezzo”.
Nel dicembre 1992, i militanti di Hamas uccisero un ufficiale delle guardie di frontiera israeliane. Israele rispose deportando 415 dirigenti e militanti di Hamas nel sud del Libano, che in quel momento era sotto la sua occupazione militare. Contemporaneamente ingabbiava Gaza in un coprifuoco di due settimane, applicando la logica della responsabilità collettiva di ogni paelstinese, uomo, donna o bambino per le azioni delle forze politiche e militari ostili. Questa vicenda mostrava nuovamente quello che è un comportamento tipico di Israele, che vediamo all’opera anche in questi giorni, di reagire ad azioni militari in modo del tutto spropositato. Questa idea dell’uso della forza in teoria dovrebbe garantire la sicurezza di Israele anche se, ripercorrendo la storia di Hamas, e in particolare le vicende di queste ultime settimane, tutto porta a ritenere il contrario.
Il massacro di Hebron e il passaggio al terrorismo
Il primo utilizzo dell’auto-bomba con relativo suicidio del militante che la conduce avviene nell’aprile 1993, all’interno della West Bank (quindi in territorio occupato) e con obbiettivo dei bus utilizzati da soldati israeliani. Un salto di qualità (in negativo) e il ricorso al terrorismo indiscriminato contro i civili si registra dopo il febbraio del 1994. In quel mese il colono ebreo Baruch Goldstein (vicino all’organizzazione suprematista Kach, i cui eredi sono oggi al governo in Israele) uccide 29 palestinesi che pregano in una moschea di Hebron. Altri 19 palestinesi vengono uccisi nelle successive proteste. Il primo ministro israeliano, che in quel momento è Rabin, condanna la strage della moschea, ma non interviene contro le squadracce dei coloni insediati nella città palestinese, tra i più razzisti e violenti di tutti i territori occupati.
Fino a quel momento, Hamas riteneva obiettivi militari legittimi i militari israeliani. A quel punto cambia strategia militare e decide di mettere nel mirino delle proprie azioni anche i civili israeliani, dichiarando che avrebbe cessato le proprie azioni se anche gli israeliani avessero smesso di uccidere civili palestinesi. Uno dei principali dirigenti di Hamas, Musa Abu Marzouk, ha dichiarato: “noi eravamo contrari a colpire i civili (…) ma dopo il massacro di Hebron avevamo stabilito che era tempo di uccidere civili israeliani”. Anche Hamas, basandosi sul Corano anziché sull’Antico Testamento, assumeva come accettabile il principio dell’ “occhio per occhio, dente per dente”. I primi attacchi suicidi rivendicati da Hamas avvennero nell’aprile del 1992, due mesi dopo il massacro di Hebron.
Al di là della giustificazione assunta da Hamas per ricorrere al terrorismo (inteso come uso della violenza indiscriminata contro civili) queste azioni sono anche interpretate come un tentativo di mettere i bastoni tra le ruote delle trattative che portano agli accordi di Oslo, per effetto dei quali si forma l’Autorità nazionale palestinese.
Il meccanismo delle azioni-controazioni tra Hamas e Israele continua e le motivazioni che muovono governo ed esercito israeliano da un lato e movimento islamico dall’altra non sono sempre trasparenti. Nel dicembre 1995, Hamas si impegna con l’Autorità palestinese a cessare le operazioni militari che, per altro, erano ormai ferme da diversi mesi. A quel punto, ai primi di gennaio del 1996, i servizi segreti israeliani riescono ad uccidere il leader delle Brigate al-Qassam, braccio militare di Hamas, attraverso un ordigno inserito in un telefonino che gli aveva passato lo zio, informatore israeliano. A seguito di quell’assassinio, molto tempestivo, Hamas riprendeva la campagna di attentati.
Una pratica questa che non era affatto popolare tra i palestinesi, sia per motivazioni politiche che per ragioni di carattere religioso. Ciò nonostante, agli inizi del nuovo millennio si intrecciano una serie di eventi che accrescono il peso politico di Hamas. Scoppia la “seconda Intifada”, anche in questo caso alimentata da un’azione di parte israeliana, la “passeggiata” di Sharon, leader del Likud, sul Monte del Tempio, una voluta provocazione contro i palestinesi e il loro sentimento nazionale e religioso.
La seconda Intifada è più violenta della prima. Nel giro di pochi anni resteranno uccisi oltre 5.000 palestinesi e 1.100 israeliani. L’azione delle truppe di occupazione è ancora più brutale di quanto non fosse stata nei confronti della prima (quando Rabin aveva dato l’ordine di spezzare gambe e braccia dei ragazzi palestinesi che protestavano lanciando sassi ai soldati israeliani). Un anno di repressione brutale e indiscriminata fu sufficiente per far crescere i consensi nei confronti di Hamas. Secondo un sondaggio, a quel punto, il sostegno palestinese all’uso della violenza contro gli occupanti era salito all’86%.
La provocazione di Sharon e gli eventi successivi mettevano in luce la profonda crisi di credibilità degli accordi di Oslo. L’idea di avviare una fase transitoria che rimandava ad un momento successivo la definizione di un assetto istituzionale tale da portare alla costituzione di uno Stato palestinese a fianco di Israele, non ha funzionato per diversi motivi. I Paesi occidentali ed in particolare gli Stati Uniti si occupano di Palestina solo quando la narrazione retorica sui due Stati serve ad impedire l’allargamento del conflitto in atto, ma di fatto sostengono tutte le politiche israeliane che impediscono la realizzazione di quell’obbiettivo (annessione di Gerusalemme est, continuo insediamento di coloni nei territori occupati nel 1967, uso indiscriminato e brutale della violenza in nome del “diritto alla difesa”).
La maggioranza dei partiti israeliani è favorevole all’annessione di tutta la Palestina storica (quella definita nel Mandato britannico antecedente alla formazione di Israele), come abbiamo visto dalla carta fondamentale del Likud, dividendosi però sul tema: “che farsene dei palestinesi”. Mantenerli rinchiusi in un certo numero di enclave (veri e propri ghetti) senza riconoscimento di alcun diritto ma lasciando il compito della repressione all’Autorità Nazionale Palestinese, senza autorità e sempre meno nazionale? Organizzare una pulizia etnica di colossali dimensioni, cacciandoli verso la Giordania e l’Egitto? Ricorrere, come ha proposto un Ministro israeliano, all’uso della bomba atomica? Si può dire che tutte queste possibili soluzioni sono state avanzate non da piccoli gruppi estremisti ma da partiti di governo di Israele.
Le azioni repressive israeliane e la crisi sempre più evidente degli accordi di Oslo, sono stati i due principali elementi propulsori della crescita di Hamas. E’ assolutamente giustificato condannare il ricorso di Hamas al terrorismo indiscriminato contro i civili e anche criticare l’opposizione agli accordi di Oslo, ma va anche detto che quando il Movimento ha cercato di uscire dalla logica della contrapposizione militare, la risposta israeliana è sempre stata di affidarsi all’uso della violenza. Nel gennaio 2004, il leader di Hamas, “sceicco” Yassin lancia la proposta di una “hudna”, una tregua della durata di almeno dieci anni con Israele, ricorrendo ad una formula presente nelle interpretazioni religiose del Corano. La risposta israeliana sarà l’assassinio mirato di Yassin nel marzo successivo.
La risposta negativa (o il silenzio accompagnato però da esplicite azioni militari) alle proposte avanzate da Hamas nel corso degli anni da parte israeliana è sempre stata collegata al fatto che Hamas non ha mai formalmente riconosciuto, in via di principio, l’esistenza di Israele. Questa è considerata una pregiudiziale per trattare con un’organizzazione palestinese. Richiesta in sé anche legittima se non fosse avanzata da forze governative che negano in via di principio, a loro volta, il diritto alla costituzione di uno Stato palestinese e invece considerano irrinunciabile l’occupazione israeliana di tutta la Palestina storica (le cosiddette “Giudea e Samaria”). Inoltre la strada della trattativa perseguita da Arafat e proseguita da Abu Mazen, si è via via rivelata un vicolo cieco che, anziché portare alla sua logica conclusione, l’esistenza di due Stati in pace tra loro, ha consentito a Israele di renderne sempre più difficile la creazione.
Quale strategia ha contrapposto Hamas alla strada della trattativa tra israeliani e palestinesi, che ha avuto un momento chiave negli accordi di Oslo, e che almeno a parole costituisce ancora il percorso proposto da Abu Mazen, anche se con sempre meno credibilità, e con quali risultati, cercheremo di vederlo la prossima settimana.
Franco Ferrari