Il populismo di sinistra, di cui si sono fatti promotori dal punto di vista teorico Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, è probabilmente il principale tentativo di ridefinire una strategia politica per le forze che in Europa sono collocate sotto la definizione di “sinistra radicale”, alla luce della cesura storica prodotto dal crollo del socialismo reale.
I soggetti politici che si sono direttamente richiamati a questa ipotesi sono Podemos e La France Insoumise. Anche se l’etichetta di populismo viene attribuita ad altri partiti di più lunga storia e di diversa tradizione come Syriza, il Sinn Fein, il Labour di Corbyn, il Partito del Lavoro Belga (PTB), la Linke tedesca, ecc. In questi casi, a differenza, dei primi due sopra richiamati, non vi è nessun richiamo esplicito alle tesi di Laclau e Mouffe. Il PTB, ad esempio, rifiuta esplicitamente l’etichetta di partito populista.
Esiste pertanto anche il problema di capire che cosa si intenda per “populismo di sinistra”. D’altra parte la stessa etichetta di “populismo” viene largamente utilizzata nel dibattito accademico, a volte, senza fare troppe distinzioni tra partiti di sinistra radicale e forze di estrema destra. Spesso nell’uso giornalistico e della polemica politica la definizione di “populista” viene caricata di per sé di una valenza negativa. Ad esso vengono ricondotti i difetti di demagogia, esaltazione dell’incompetenza contro il sapere degli esperti, fino a considerarlo una forma di totalitarismo, in quando rivendicazione della democrazia diretta contro quella rappresentativa (riecheggiando qui, mi pare, le vecchie tesi di Jacob Talmon contro una supposta “democrazia totalitaria”).
In questo acceso, e spesso deformato, dibattito, interviene l’ottimo libro di Francesco Campolongo e Loris Caruso che ha per oggetto l’esperienza di Podemos (“Podemos e il populismo di sinistra. Dalla protesta al governo”, Meltemi, 20,00 euro, 263 pagine). Ben strutturato e non troppo oberato dal gergo con cui gli accademici tendono spesso a parlare tra loro, oltre a ricostruire i vari aspetti dell’esperienza del partito spagnolo fondato da Pablo Iglesias, provano a dare una spiegazione non contingente ma strutturale della crescita e relativo successo delle formazioni populiste. Non sarà, la mia, una vera e propria recensione, quanto l’esposizione di alcune considerazioni personali sorte dalla lettura del libro.
La rappresentanza politica di un movimento sociale
Nella ricostruzione delle origini di Podemos, che vede l’iniziativa, teoricamente elaborata, di un gruppo di professori e ricercatori universitari, si chiarisce che il rapporto tra la forza politica e il movimento di massa a cui essa si richiamava, ovvero quello dei cosiddetti Indignados, è un rapporto mediato. Podemos non è un movimento della società civile che si organizza ed istituzionalizza in partito, ma è un’iniziativa (di un piccolo e coeso gruppo di ufficiali, avrebbe detto Gramsci) che colgono il limite del movimento. Per raggiungere i suoi obbiettivi di trasformazione sociale in senso antiliberista, il movimento non era sufficiente. Il ragionamento di fondo era la necessità di una rappresentanza politica che ne portasse le istanze nelle sedi istituzionali.
Partendo da questo primo salto, dal sociale al politico, si doveva cercare di cogliere una “finestra di opportunità”, prodotta dalla profonda crisi di consenso del sistema politico bipolare che si era andato strutturando dopo la caduta del franchismo. Si coglieva il processo tendenziale di “scongelamento” delle vecchie fedeltà politiche ed elettorali, derivato dagli effetti della crisi economica. Podemos si proponeva un obbiettivo ambizioso, che non si limitava a costruire una formazione politica di opposizione, ma puntava alla conquista del governo del paese.
Per raggiungerlo provava a rompere con alcuni dei limiti che si registravano nella sinistra radicale già insediata nelle istituzioni e rappresentata da Izquierda Unida. La convinzione a cui erano giunti i promotori di Podemos era che solo una proposta politica nuova potesse intercettare il malcontento espresso dal movimento degli Indignados. Nel formulare questa proposta veniva utilizzata la familiarità acquisita con il tradizionale mezzo di comunicazione di massa, ovvero la televisione, piuttosto che l’uso dei nuovi strumenti digitali. Ed anche la popolarità ottenuta attraverso gli interventi di Pablo Iglesias in quanto partecipante dei talk-show politici.
La frattura tra popolo ed élite
Podemos si proponeva di ridefinire il campo politico e non solo di ritagliarsi uno spazio in un settore già predeterminato dal sistema politico e mediatico esistente. Podemos cercava di sottrarsi non solo all’identificazione con la “sinistra radicale”, ma in una certa misura anche con la “sinistra” tout court. La tesi populista veniva espressa provando a definire un nuovo cleavage (ovvero una nuova frattura politica): quella fra il popolo e l’élite, individuata come “casta”, tra il basso e l’alto della società. Questo era ritenuto necessario anche perché, nel senso comune, la “sinistra” si identificava con le politiche socio-economiche del PSOE, partito che aveva accompagnato e non contrastato la svolta liberista e si era fatto poi a sua volta interprete delle politiche di austerità.
Il “popolo” non è mai mancato come soggetto della visione politica delle forze di ispirazione marxista o comunista, ma sempre visto come espressione della “frattura” fondamentale tra capitale e lavoro, fondato su un sistema di alleanza tra la classe operaia, soprattutto quella concentrata nella grande industria, e altri soggetti sociali (contadini, ceti medi, borghesia nazionale, a seconda dei momenti e delle strategie). Viene notato dagli autori che, invece, il conflitto diretto tra lavoratori e imprese, è poco presente nella comunicazione di Podemos.
L’impatto immediato di Podemos, in termini di spostamenti di consenso, è stato molto forte, al punto da risultare il primo partito nei sondaggi, con dimensioni mai raggiunte dalla sinistra di tradizione comunista nella storia spagnola. Ci si può chiedere fino a che punto questo indubbio successo sia il frutto del contesto (radicale crisi di credibilità del PSOE, e in misura minore, del Partito Popolare) piuttosto che della strategia utilizzata. Ma è difficile che il contesto da solo produca risultati senza una proposta politica che ne sappia cogliere le occasioni. Il suo successo ha scatenato anche le reazioni del sistema di fronte all’intruso. Non solo le manovre disinformative prodotte da settori di apparato statale con i media compiacenti, ma anche la spinta a favore di Ciudadanos. Una formazione liberista che ha cercato di utilizzare elementi della retorica populista e anti-casta per condurli in direzione politica opposta a quella di Podemos. Il che lascia però supporre che discorsi populisti “trasversali” sono in fondo facilmente recuperabili dai sostenitori dello status quo. Per fare un esempio lo stesso Renzi, nella fase di ascesa, ha cavalcato la retorica populista con l’epica della rottamazione e anche con la campagna sul taglio delle “3.000 poltrone” ottenuto con la soppressione delle Provincie.
Il successo elettorale di Podemos, assestatosi in una prima fase attorno al 20%, è stato caratterizzato da due elementi, che emergono dalla ricerca di Campolongo e Caruso. Sul lato positivo il successo nell’elettorato giovanile, soprattutto quello caratterizzato da alti livelli di istruzione e contemporaneamente da aspettative (o realtà) di lavoro precario. Sul lato negativo l’insufficiente penetrazione tra l’elettorato popolare che ha continuato a dare fiducia al PSOE (il che distingue sociologicamente i socialisti spagnoli dal PD italiano).
Il populismo come strumento per la conquista del consenso
C’è un altro punto che a me pare importante nell’analisi dei due autori, ed è questo. Se si analizza il programma elettorale di Podemos, diventa difficile caratterizzare questa forza come “populista di sinistra”. Mentre questa impronta continua ad emergere nella struttura comunicativa della campagna elettorale. Non è presente, nella ricerca di Campolongo e Caruso, ma sarebbe interessante, il confronto dei contenuti programmatici di Podemos con quelli di Izquierda Unida, per capire fino a che punto la strategia perseguita dalla formazione di Iglesias si distingua dalle altre forze di sinistra radicale che non si ispirano alle tesi del populismo di sinistra. Analogamente sarebbe interessante sviluppare la comparazione tra partiti che si ispirano alle tesi populiste con altri che le respingono (ad esempio il già citato PT Belga) per capire quanto effettivamente incida questo approccio con l’insieme della proposta politica ed anche sul suo successo elettorale.
Altrettanto utile sarebbe indagare l’effettiva capacità delle forze politiche della sinistra che si ispira alle tesi della coppia Laclau-Mouffe, di incidere dal governo sulle scelte politiche e sui rapporti di forza nella società tra classi dominanti e classi subalterne. Il libro di cui trattiamo si ferma alla soglia dell’arrivo di Podemos a responsabilità di governo.
Dall’esame dell’esperienza di Podemos sorgono due ipotesi. La prima è che il “populismo di sinistra” funzioni soprattutto nella fase di costruzione del consenso elettorale e nella rottura della nicchia autoreferenziale (una “tecnologia comunicativa”la definiscono gli autori), ma si fermi alla soglia della capacità di indicare come produrre un effettivo mutamento sociale, una volta conquistato questo consenso. Il che non vuol dire sottovalutare questo risultato, pur sapendo che il rischio di un effetto effimero e presto riassorbito con il ripristino del sistema politico pre-esistente, è una concreta possibilità. Nel caso del Movimento 5 Stelle, reso ancora più instabile dall’ideologia del superamento delle ideologie e della fine della divisione tra destra e sinistra, l’accelerazione del percorso di normalizzazione lo stiamo vedendo all’opera proprio in questi giorni.
Per una forza “popolare” e anche un po’ “populista”
Gli stessi autori nelle conclusioni arrivano a considerare inadeguata l’etichetta di “populismo” applicata a Podemos, preferendo definirlo come una forza di “socialdemocrazia radicale”. Forse è insita nella stessa strategia populista quella di porsi di fronte al problema della costruzione del consenso, piuttosto che come una proposta di utilizzo del governo per modificare le relazioni di potere tra le classi. D’altra parte la stessa fondazione post-marxista del pensiero di Laclau e Mouffe, per i quali le “classi” rappresentano una forma di narrazione “essenzialista” della realtà pone un limite insuperabile. Il “popolo” una volta costituito volontaristicamente dalla narrazione dell’attore politico populista, rischia di non sapere più quali siano i propri interessi e come perseguirli.
La seconda ipotesi è che alla fine il “populismo di sinistra” tenti di ricostruire, in forme adeguate al momento storico, uno strumento politico antiliberista (e/o anticapitalista) di massa che appartiene alla storia del movimento operaio. Non è senza significato, credo, che nel libro di Laclau, “La ragione populista”, che è un po’ il testo fondante della corrente teorico-politica a cui si è ispirato Podemos, tra i casi concreti di tentativi populisti, l’unico citato che può essere definito senza dubbio come di sinistra, sia il partito nuovo togliattiano. Altrimenti si ricorre o a esperienze storiche ottocentesche (Boulanger in Francia, il populismo americano) o difficilmente collocabili a sinistra come Ataturk e Peron. Si trattava, in forme e modi oggi non più riproponibili, di una forza politica “popolare” e non “populista”, per usare una distinzione che introducono gli stessi Campolongo e Caruso.
Dalle conclusioni dei due autori si possono trarre alcune indicazioni che trovo in larga parte condivisibili (anche se non è facile la loro traduzione pratica, allo stato delle forze, almeno Italia). Effettuata la distinzione tra “populista” e “popolare”, con il rischio però di confondere i piani tra lo strumento concettuale di analisi e la proposta normativa, si definisce come “popolare”: “una politica che abbia come obbiettivo principale la redistribuzione del potere e delle risorse a vantaggio dei settori sociali popolari”. Si aggiunge poi che “non è escluso che una forza “popolare” possa ricorrere a retoriche pigliatutti populista per ottenere consenso, soprattutto quando e dove l’opinione pubblica sia da molto tempo sottoposta al continuo e omogeneo messaggio populista e antipolitico dei media mainstream”.
Suggerimento utile ma che personalmente arricchirei collegandolo alla comprensione del mutamento di fondo della struttura dei “settori sociali popolari” ed in particolare al superamento di quella che era la struttura tolemaica del “popolo” nella tradizione marxista, organizzato attorno alla classe operaia industriale. Una “tecnologia comunicativa” populista non andrebbe vista solo come una sorte di “trucco” per rompere il muro comunicativo esistente tra sinistra e popolo, ma come la forma politica necessaria per aggregare e rappresentare politicamente un “popolo” che è stato modificato dal liberismo nella sua composizione materiale oltre che nei suoi livelli di coscienza.
Per questo credo sia indispensabile tenere insieme forma comunicativa (o narrazione come piace dire oggi), strategia politica (conquista di posizioni di comando nelle relazioni di potere istituzionalizzate, per non dire “conquista del potere”), alternativa programmatica e di visione di società (senza la quale una volta arrivato al governo si resta inevitabilmente subalterni). Senza tenere insieme i tre livelli la vedo abbastanza difficile.