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Palestina vs Algeria

di Luciano
Beolchi

Algeria e Palestina sono paesi molto diversi. Uno è un paese immenso abitato da un popolo che ha tanti problemi, ma fiero e orgoglioso di aver riconquistato libertà e indipendenza dopo 132 anni di occupazione da parte di una delle nazioni più potenti del mondo e che negli ultimi otto anni di quel lunghissimo conflitto aveva messo stabilmente sul terreno un esercito formidabile di mezzo milione di uomini. L’altro è un paese minuscolo, dove da 75 anni vivono due popoli, uno che ha diritto di chiamarsi stato, l’altro che ha diritto di chiamarsi niente. Gli occidentali non si spiegano perché di tutti i paesi arabi l’Algeria è il più fedele e leale amico dei Palestinesi.

Sono entrambi paesi arabi con una lunghissima storia alle spalle.

L’Algeria è riconosciuta come nazione da almeno 1.000 anni anche se i francesi sostenevano di averla inventata loro, l’Algeria, che prima era solo un pezzo di deserto. Quando si erano presentati davanti ad Algeri, nel 1830, con 670 navi e un corpo di spedizione di trentamila uomini, prevedevano che una campagna decisa sarebbe bastata a sottomettere quegli arabi poco combattivi alla Francia imperial-democratica; e nei successivi 132 anni evitarono accuratamente di chiamare gli algerini con il loro nome. Li chiamavano spregiativamente arabi, bicot, o anche scarafaggi o culi neri. Chi scrive quest’articolo ha avuto un percorso di vita abbastanza lungo che gli ha consentito di intrattenersi svariate volte con i pied noirs, sia quelli che erano rientrati in Francia nel 1962, dopo l’indipendenza dell’Algérie Algérienne, sia quelli che si erano sparpagliati per vari parsi dell’Africa. In entrambi i casi conservavano un amaro ricordo dell’Algeria e ne parlavano spesso con nostalgia, ma non c’era racconto che non contemplasse un parente, un familiare, un vicino o lo stesso narratore che un giorno non fosse uscito sul balcone sempre al primo o secondo piano (i piani superiori non erano contemplati) e di lì aveva cominciato a sparare sulla folla inerme degli arabi facendone fuori –parole testuali – cinque o sei rimasti stesi morti per strada. Naturalmente non è pensabile che tutte queste storie fossero veritiere, ma in ogni caso costituivano il marchio di fabbrica – secondo il narratore – degli avvenimenti di Algeria giacché fino al 1999 la Francia pudibonda non riconobbe che in Algeria c’era stata una guerra, che aveva fatto un milione di morti e che solo negli ultimi otto anni aveva visto combatterla più di due milioni di soldati francesi per la maggior parte soldati di leva con un servizio militare prolungato a due anni, ferme obbligatorie e richiami. E allora, per cinquant’anni, quella guerra è stata chiamata così: avvenimenti di Algeria. Quella di Palestina non ha neanche un nome.

Insomma, quella storia raccontata con orgoglio delle sparatorie dal balcone e della strage conseguente era l’orgoglio nostalgico dei coloni, che anche lì, come in Palestina, si chiamavano coloni e avevano occupato manu militari le terre migliori, quei famosi quattrocentomila ettari dove producevano un ottimo vino. Mi è capitato anche, certo non nelle stesse circostanze, di condividere il desco con l’austero Presidente algerino Bouteflika e alcuni dei Comandanti dell’epoca della guerra. Potevano avere, quando li ho conosciuti una settantina d’anni. Bouteflika, che era più anziano, aveva combattuto nell’Esercito della frontiera ed era entrato in Algeria solo nell’estate 1962, insieme a Boumédiène, lui pure colonnello, il grado massimo dell’Armée de Liberation National (ALN). Gli altri, uomini e donne, avevano fatto parte dei reggimenti che avevano combattuto nelle sei Wilaya o regioni dell’interno. La settima Wilaya era per convenzione la stessa Francia metropolitana dove vivevano quattrocentomila algerini e dove la guerra aveva provocato migliaia di morti tra gli algerini e i francesi. Ma indubbiamente la parte più difficile toccò agli algerini in Algeria.

Nel 1959-1960 al tempo delle sistematiche offensive dell’Operazione Challe, una Wilaya dopo l’altra, l’ALN era ridotta a poche migliaia di combattenti di fronte a un dispositivo militare francese impressionante, con aerei, elicotteri, napalm, gas, artiglieria e due muri fortificati giganteschi (altra analogia con la Palestina) che bloccavano le frontiere con la Tunisia e il Marocco. In pratica non passava uno spillo: né soldati, né rifornimenti. A presidiare quei muri c’erano i corpi d’élite, paracadutisti e legionari.

Per sfuggire ai rastrellamenti e ai bombardamenti francesi i comandanti avevano dovuto dividere le Katibe in piccoli gruppi, riducendo di molto la capacità bellica delle loro formazioni. Privi di cibo e spesso di acqua, con non più di 3-4 pallottole a testa i combattenti non mangiavano più di paio di fichi al giorno per ciascuno e per sopravvivere seguivano a distanza, ovviamente senza farsi scoprire, le truppe francesi e rimediavano qualcosa nella spazzatura che quelli si lasciavano dietro.

I generali francesi, consapevoli della situazione, giuravano di aver ormai annientato il nemico e, per sentirsi ancora più sicuri, nel 1958 avevano rimesso al potere il generale De Gaulle che nel suo primo viaggio in Algeria dopo l’insperata resurrezione, aveva rassicurato i coloni con un famoso Je vous ai compris, vi ho capito.

Di quattro milioni di contadini algerini, due milioni erano stato deportati, anche a centinaia di chilometri dalla casa e dalla terra che lavoravano. Gli altri due milioni erano stati rinchiusi in villaggi fortificati sorvegliati dall’esercito, dalle milizie volontarie e collaborazioniste, oltre 260.000 uomini che si erano messi al servizio dei francesi.

La tortura, sistematica, costante e di massa, divenne la cifra della guerra di Algeria come emblema mastodontico della negazione di legalità, peraltro confermata da migliaia di testimonianze degli stessi militari francesi, spesso rilasciate ai giornali dei cattolici che insieme al partito comunista furono gli unici ad accorgersi che forse la democrazia francese e il diritto soffrivano di qualche problema.

Oltre la metà dei soldati del contingente francese ammetteva di avere partecipato o eseguito trattamenti di tortura, anche se al posto di quel termini si preferiva dire interrogatorio musclé o sévère o serré, quest’ultimo considerato il termine più professionale per la tortura di scuola francese che comprendeva, come da innumerevoli circolari e documenti: la gégène o uso dell’elettricità; il waterboarding; l’appeso; l’appeso per i piedi; il siero della verità; il pagliericcio col filo spinato; la privazione di acqua; la privazione di sonno; pisciarsi addosso; cagarsi addosso; brutalità; pepe nella vagina; pepe nel culo; bruciature; strangolamenti. E poi a discrezione stupri, saccheggi, rapine, assassini, incendi, distruzioni, torture, sadismo, imbecillità di un esercito composto di professionisti e di richiamati di leva.  Si trattò, senza esagerare, di centinaia di migliaia di vittime. 106.000 vittime di tortura dichiarate dal solo centro di interrogatori della regione di Costantina, che è una delle regioni algerine e non la più abitata.

Quella che è storicamente ricordata come la battaglia di Algeri – dal febbraio all’ottobre 1957 – fu l’assedio sistematico e indiscriminato nei confronti dei 70.000 abitanti della Casbah dove i combattenti del Fronte di Liberazione Nazionale non erano più di duecento, ma ad essere arrestate e torturate sistematicamente per ammissione del colonnello poi generale Aussaresses (1918-2013) responsabile della sezione informazioni della 10a divisione paracadutisti del generale Massu, furono oltre 24.000 persone. Nemmeno lui, orgogliosamente reo confesso, fu mai condannato per quanto oltre tremila degli arrestati non abbiano mai fatto ritorno a casa. Molti cadaveri li ributtò sulla spiaggia il Mediterraneo, dove vivi o morti, erano stati buttati dagli aerei, tecnica successivamente esportata in Argentina e Uruguay dagli stessi ufficiali e sottoufficiali che l’avevano adoperata in Algeria. Per ovviare all’inconveniente della riemersione dei cadaveri in una fase successiva s’immergevano i piedi dei prigionieri in blocchi di cemento. La tortura fu denunciata come pratica corrente fin dai primi giorni della guerra1 e fu ammessa e riconosciuta da più alti gradi dell’esercito, generali Salan e Massu in testa, come legittimo atto di guerra. Esistono su questo soggetto migliaia di fotografie di un’efferatezza tale da fare impallidire lo scandalo di Abu Ghraib. L’argomento più frequentemente portato a giustificazione delle torture era che ottenere informazioni in tempi rapidi poteva servire a salvare vite umane, ma l’argomento non regge se solo si riflette che la tortura veniva espletata sullo stesso soggetto anche a distanza di settimane, quando evidentemente la miccia della bomba che avrebbe dovuto esplodere era estinta tempo. Nel caso della battaglia di Algeri poi non ci furono attentati per tutta la sua durata, il che fa cadere il tanto sbandierato criterio di “necessità e urgenza”.

Era semplicemente una delle armi di guerra che servivano a seminare il terrore nella popolazione. E se si ammette che era un legittimo atto di guerra, vuol dire ammettere che in effetti c’era una guerra, come lo stato francese finì per ammettere solo nel 1999 e in quel caso le 222 condanne a morte eseguite sui prigionieri di guerra – con la ghigliottina o la fucilazione -non sono giustificabili da alcun diritto di guerra e diventano esse stesse crimine di guerra per i giudici che le hanno comminate, per gli ufficiali che le hanno eseguite e per François Mitterrand che ne aveva controfirmato oltre cinquanta nella sua funzione di ministro della giustizia2.

Mentre esistono circolari, protocolli, ordini e journaux de marche che spiegano, prescrivono e rendicontano l’uso della tortura, non furono emanati, a differenza che in Israele, provvedimenti legislativi che giustificassero e legittimassero la tortura in nome della sicurezza dello stato, mentre esistono in entrambi i casi regole di ingaggio che giustificano le esecuzioni sommarie, in particolare dei “fuggitivi”, senza nessun’altra specificazione: che siano in custodia o meno, che abbiano ricevuto avviso di non muoversi, che siano armati o meno, che rappresentino o meno un pericolo per le forze di sicurezza. Il semplice fatto che qualcuno si metta a correre giustifica l’esecuzione sul posto3.

Dove entrambi gli stati, Francia e Israele, offrono invece materia legislativa ampia è nello stabilire il principio di responsabilità collettiva che giustifica distruzione di case e abitanti, arresti e rappresaglie di massa quando un qualsiasi atto ostile – compreso l’abbattimento di un palo telegrafico, o l’interruzione temporanea di una strada – venga commesso nei pressi di una località abitata, a prescindere che i residenti ne siano al corrente o meno, vi abbiano partecipato o meno.

Lo spostamento forzato o deportazione delle popolazioni era pratica corrente in Algeria come lo è stato in Palestina. In Algeria oltre due milioni di persone furono deportate in campi che per delicatezza linguistica non furono chiamati campi di concentramento ma “campi di raggruppamento” che erano solo una delle molteplici tipologie dei luoghi di detenzione istituiti per la popolazione civile. In entrambi i casi furono isolate delle zone vietate alla presenza di qualsiasi civile e qualsiasi persona che si trovasse in quelle zone veniva abbattuta a discrezione. Nelle suddette zone, che in Algeria riguardavano intere regioni, tutte le abitazioni, ricoveri, stalle venivano rase al suolo per scoraggiare qualsiasi ipotesi di ritorno.

Si noti che la gran parte della fattispecie giuridiche fin qui citate rientrano tra i crimini di guerra, ma

un solo militare francese fu condannato per fatti legati alla tortura e fu il colonnello poi generale Jacques Paris de Bollardière che scontò 60 giorni di fortezza per aver detto nel 1957 che la tortura praticata in Algeria era una vergogna e un’onta per l’esercito francese.

Impunità e omertà regnarono sovrane ai tempi della guerra d’Algeria e regnano sovrane nella guerra di Palestina. Impunità per i coloni che non sparano dai balconi ma vanno cercando i palestinesi casa per casa4; impunità per i militari che prendono di mira civili disarmati, giornalisti, ospedali, scuole e qualsiasi luogo protetto dalle leggi internazionali.

L’altra legge vigente è l’omertà. Nessun nome è mai uscito dai ben custoditi archivi francesi (militari, ministeriali, della presidenza della repubblica, del Senato etc. etc.) e questo vale anche per gli stessi pur pregevoli articoli che denunciano i crimini e l’impunità, come quello a firma di Gideon Levy su Haaretz a ridosso del 7 ottobre. Nessuno scalfisce il velo di omertà, a meno che non siano gli stessi responsabili a farsi vanto della loro impresa come fecero Jean-Marie Le Pen torturatore spietato e orgoglioso olterchè fondatore del Front National o il già citato Gen. Paul Aussaresses, maestro di tutti i torturatori d’Algeria, richiamato precipitosamente in Francia quando gli scappò la mano e il matematico Maurice Audin morì sotto tortura ad Algeri. Matematico, comunista e francese “de souche français”, come si diceva allora per distinguerli dai francesi “de souche NA (Nord-africain)” che potevano anche avere la cittadinanza e persino la nazionalità francese, ma restavano francesi di serie B: arabi insomma.

Aussaresses aveva pensato di cavarsela anche dopo il malaugurato incidente e per premunirsi aveva fatto riempire di pugnalate il cadavere pensando di farlo ritrovare per strada, come ha fatto Al Sisi con il povero Giulio Regeni: ucciso dagli arabi. Ma qualcosa andò storto anche perché Audin era troppo noto per non essere notato da decine di persone (soldati, ufficiali, civili, vittime) nel suo passaggio nella famigerata prigione di El Biar ad Algeri.

Qualche considerazione finale. Dopo aver riconosciuto che la tratta degli schiavi era un crimine contro l’umanità e che anche la colonizzazione lo era e che la Francia si era macchiata di crimini di guerra in Algeria, in Camerun, in Rwanda, il Presidente Macron vorrebbe avviare una commissione per la pacificazione la verità e la giustizia. Perché niente di ciò che riguarda le pace ci è estraneo possiamo far finta di prenderlo sul serio a patto che le autorità francesi si pronuncino preliminarmente sulle questioni generali; se la tortura può essere legittima; che cos’è la tortura (visto che il generale Salan diceva di non saperlo); se è legittimo uccidere un fuggitivo; che cosa intendono per interrogatorio musclé, serré, sévère; se ritengono che ogni interrogatorio debba essere registrato da telecamere e ogni agente mostri in evidenza un numero identificativo; se sono disposti a togliere le decorazioni a Aussaresses, a tutti i rei confessi di tortura e ai generali felloni.

La seconda considerazione è che figure pubbliche e private responsabili di un fardello così pesante non possano proporsi come giudici, stabilire chi ha diritto di parola e chi no e soprattutto arrogarsi quello di concedere diritto di parola solo a chi, a loro insindacabile giudizio, concorda preliminarmente con loro su chi sono i buoni e chi i cattivi.

Il percorso degli algerini verso la libertà e l’indipendenza è stato lungo e doloroso: 132 anni di violenze, di discriminazioni, di soprusi, di furti, di umiliazioni e di un vero e proprio apartheid. Come disse De Gaulle al suo primo ministro Michel Debrè alla vigilia degli accordi di Evian: “E’ miracoloso che siamo arrivati a questi accordi. Perché vedete, dopo 130 anni “loro” hanno cessato di essere dominati, ingannati, spogliati, umiliati5.

I pied noirs francesi respinsero con disprezzo e violenza ogni ipotesi politica di compromesso persino quelle che ripugnavano agli algerini più che a loro, ma che gli algerini sarebbero stati disposti a discutere: l’assimilazione, l’integrazione, l’autonomia, l’autodeterminazione. Finché non restò che l’alternativa: o noi o loro. E il risultato è che se ne dovettero tornare a casa e ancora oggi, dopo una guerra durata 132 anni, hanno il coraggio di dire che, se i politici non fossero stati così pusillanimi, se si fosse insistito con la guerra, l’Algeria sarebbe ancora francese. Forse bisognerebbe riflettere che gli algerini combattenti saranno anche stati quattro gatti che campavano con due fichi al giorno. Però avevano una fede incrollabile e con loro c’era tutto il mondo dei poveri e degli oppressi.

Nota bibliografica

Henri Alleg, La question, Minuit Double, 2008

Paul Aussaresses, Algérie 1955-1957. Mon témoignage sur la torture. Editions Perrin, 2001.

Commandant Azzedine. On nous appelait fellagha. Stock, 1976

Raphaëlle Branche, La torture et l’armée pendant la guerre en Algérie 1954-1962, Gallimard, 2016.

Yves Courrière, La guerre d’Algérie, 4 Voll., Fayard, 1968-1971.

Renaud de Rochebrune, Benjamin Stora. La guerre d’Algérie vue par les Algériens, 2 voll, Editions Denoël, 2011.

Mohammed Harbi, Benjamin Stora. La guerre d’Algérie, Robert Laffont, 2004.

Gideon Levy. E’ successo l’impensabile e Israele non ha capito perché. Articolo pubblicato su Haaretz, ripreso da Internazionale 13/19 ottobre 2023, p. 44.

Gilles Manceron, Mémoire et guerre d’Algérie, in La revue des droits de l’homme, n° 2, 2012.

Gilles Manceron D’une rive à l’autre, la guerre d’Algérie de la mémoire a l’histoire, avec Hassan Remaoun, Syros, 1996.

Benjamin Stora, La guerra d’Algeria, Il Mulino 2009.

  1. Dal cattolico François Mauriac, ad esempio, per non citare il solito Sartre.[]
  2. Si è detto che se non lo avesse fatto lui quelle firme le avrebbe messe qualcun altro, ma esiste anche l’istituto delle dimissioni per chi avesse coscienza meno elastica del “Mazarino”.[]
  3. Raphaëlle Branche, La torture et l’armée pendant la guerre en Algérie 1954-1962, Gallimard 2016, p. 105.[]
  4. Dall’inizio di quest’anno la caccia all’arabo messa in atto dai coloni ha contato 170 vittime. Nessun arresto.[]
  5. Gilles Manceron, Mémoire et guerre d’Algérie, in La revue des droits de l’homme, n° 2, 2012, p. 8.[]
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