Le teorie della violenza strutturale spaziano dall’analisi dell’attività militare che trova la sua massima espressione nell’escalation nucleare fino alle condizioni di incancrenita sperequazione economica. Fino alle certezze scientifiche della mancanza di salvaguardia del pianeta per i cambiamenti climatici dovuti a errori e trasgressioni di carattere antropico e alla vergogna parossistica delle conseguenze delle migrazioni forzate; alla constatazione crudele della violenza di genere e dei più fragili dell’umanità anche con gli omicidi di lavoratori e operai per mancanza di tutele, ossia ‘fascismo aziendale’.
Dal conflitto educativo e pedagogico all’aggressività bellica e all’apocalisse nucleare.
Le possibili fasi di un conflitto, a livello violento, armato o educativo e quindi pedagogico, si possono riassumere in vari modi.
Il riconoscimento del grande conflitto atavico e irrisolto.
Un conflitto è tale anche se non elaborato? E qual è il costo del riconoscimento di un conflitto, nel quale magari sembri molto difficile trovare una soluzione? Come l’attuale e sproporzionata guerra mediorientale tra Israele e Palestina.
Il primo passo pone di fronte alla difficoltà di riconoscere il conflitto e di assumerlo come alta e etica responsabilità umana.
L’anestetizzazione dei conflitti è la logica più seguita data la difficoltà di gestirli, ma eludere in questo modo il corso della realtà non aiuta. I conflitti non risolti interferiscono nella vita e nell’azione educativa riproponendosi sotto altre forme non necessariamente migliori. Prendere atto del conflitto è invece un’operazione di consapevolezza che restituisce dignità ai soggetti fautori della guerra e del conflitto stesso.
Neve Shalom Wahat al-Salam, la comunità israelo-palestinese fondata su dialogo e convivenza… per “ricomporre l’infranto”
Come ad esempio nella Scuola di Pace di Neve Shalom con l’educazione di figl3 di vittime sia israeliane sia palestinesi per trascendere la conflittualità, l’odio atavico, la violenza sproporzionata e generare armonia e condivisione.
La risposta improntata alla violenza, nelle varie forme in cui si manifesta, che trova la sua massima espressione nell’attività militare e il suo tragico epilogo nell’ecatombe nucleare, come la guerra che è la massima espressione dell’aggressività militaresca, rappresenta sempre una mancata elaborazione di questa fase.
L’odio di regime con manifestazioni di intolleranza, razzismo, xenofobia e di negazione dell’altro, con guerra genocida.
Una fase in cui la necessità di problematizzare la propria azione diventa un antidoto efficace e senza reali alternative alle manifestazioni di intolleranza, razzismo, xenofobia e di negazione dell’altro.
La comunicazione per trascendere la violenza e la distruzione più oscura.
Comunicare nel conflitto è segno della forza di chi sa gestire le tensioni tenendo ferma la necessità di non demonizzare, di riconoscere nell’altro/altra potenzialità non distruttive e nonviolente. La comunicazione nel conflitto armato tiene ferma la necessità di risolverla insieme, di non umiliare e di non essere umiliati ed è fondata sulla capacità empatica e sull’ascolto attivo della vittima e non dal suo annientamento. Le ricerche sulla comunicazione compiute a partire dal dopoguerra – fra cui quelle della Scuola di Palo Alto sono fra le più avanzate – hanno portato alla luce tutte le difficoltà del comunicare correttamente, le dinamiche dei giochi al limite del patogeno, le nevrosi che spesso nascondono le difficoltà di ascoltare e capirsi, anche a livelli molto elevati di potere e di comando.
La volontà di repressione del regime di estrema potenza militaresca e bellicista imposta dall’odio viscerale.
Molte di queste ricerche sono state sviluppate anche in ambito educativo, rivelando un mondo sorprendentemente ambiguo sotto il profilo della comunicazione, dominato, più che da istanze di chiarezza, da volontà di controllo e dimostrazioni di potenza anche militarista e bellicista. Comunicare implica la sospensione del giudizio, che è proprio il contrario del giudicare e del muovere guerra. Implica entrare in relazione e cercare di incanalare l’eventuale scontro, anche armato, su un terreno dove possa essere chiarito da entrambe le parti.
La soluzione. La creatività ci può salvare dall’Armageddon nucleare?
Principio vincente di questa fase è la creatività – Cfr Resistenza e nonviolenza creativa, Mimesis Edizioni di Laura Tussi, Fabrizio Cracolici con contributi scritti di Alex Zanotelli, Giorgio Cremaschi, Paolo Ferrero, Vittorio Agnoletto, Moni Ovadia, Maurizio Acerbo ossia l’invenzione che spezza il meccanismo di negazione reciproca – per esempio, tra israeliani e palestinesi – per trovare nuove vie che implichino una ridefinizione del rapporto in grado di suscitare il consenso reciproco. La creatività non è rinuncia né debolezza, ma intelligenza e capacità di uscire dalla ripetizione per vedere il problema sotto altre e nuove dimensioni. Le soluzioni che garantiscono una soddisfazione reciproca possono offrire una maggior durata nel tempo. Non sempre questo avviene e spesso la soluzione apparentemente raggiunta è semplicemente l’imposizione molto violenta, guerresca, di odio e distruzione di una delle parti.
Le teorie del conflitto. Il suprematismo, il sovranismo, il razzismo, la xenofobia: fascismo.
Secondo Galtung il concetto di pace connota una “pace negativa”, ossia l’interpretazione di pace come assenza di guerra. Questa impostazione si limita ad auspicare la semplice repressione di comportamenti violenti ritenuti insiti nella natura biologica e sociale dell’uomo, ma non viene considerata la possibilità che gli istinti aggressivi possano venire canalizzati e trasformati in energia creativa e rinnovatrice.
Pace è utopia?
Bansk vede la pace come ricerca di armonia, ordine, giustizia e risoluzione del conflitto. Il concetto di pace quale raggiungimento di armonia è utopico perché sono inevitabili i conflitti armati e collettivi e individuali nella società. Come le molteplici guerre in atto in tutto il mondo a partire dalla guerra tra Russia e Ucraina e Nato e Usa e Europa, che mina la sicurezza mondiale con il rischio dell’escalation nucleare. Dunque il conflitto differisce dall’ordine che invece determina la stabilità tramite cui il sistema sociale e politico mantiene la difesa delle leggi.
L’educazione alla pace come rigenerazione e creatività nelle relazioni umane e sociali e comunitarie.
L’educazione alla pace considera la società come una rete di relazioni carica di energia conflittuale che può rigenerarsi in energia creatrice. Il conflitto va inteso come comportamento incompatibile tra le parti con interessi diversi, o anche come patologia sociale, inevitabile nelle relazioni umane e sociali e comunitarie, oppure può essere interpretato come dinamica di rivalutazione delle diversità sociali.
Il conflitto macrosociale violentista assoluto: la guerra e il genocidio.
Il conflitto tra soggetti, e non a livello macrosociale e violentista come la guerra, è fattore importante per lo sviluppo in quanto stimolo al cambiamento individuale e sociale, perché l’interrelazione tra diversi strati della società e le differenti culture è sempre più frequente, per cui subentra l’esigenza del rispetto della diversità che confligge con il modello occidentale per cui tutti i fenomeni sono soggettivi e le realtà sociali sono riconducibili a spiegazioni logiche e razionali.
Le frustrazioni sociali della conflittualità violentista fino al genocidio.
Dewey ci fa capire come studiando i diversi campi del sapere si può dare risoluzione ai problemi, come lo scontro tra civiltà, tra ciò che è ordine generale di leggi e l’esperienza personale. Ogni individuo può esporre realtà diverse, pur vivendo nello stesso mondo. Queste interpretazioni differenti del mondo causano frustrazioni. Risulta inadeguato il modello cartesiano per l’interpretazione dei fenomeni sociali, in quanto il conflitto viene considerato una stortura della realtà che va condotta all’equilibrio, mentre diversamente deve essere considerato l’ambiente ecosistematico, ossia il sistema sociale, quale ordine di interconnessioni incrociate.
L’aggressività ostacolo alle potenzialità creatrici e di sopravvivenza dell’individuo e della comunità e popolazione.
Bateson sostiene che non si possono studiare azioni fra le parti perché non osservabili empiricamente. Il vincolo sociale o impegno o obbligo è legato al concetto di sistema, relazione e autonomia, per cui la mancanza di vincoli può produrre aggressività fine a se stessa e può essere di ostacolo alla potenzialità creatrice e di sopravvivenza dell’individuo e della comunità o popolazione, ma ha funzione stimolatrice di regole nuove. Morin sostiene che il concetto di vincolo comunitario porta a considerare una socialità in cui il conflitto, logicamente non armato, aiuta a guidare il singolo tra i sistemi viventi.
Laura Tussi
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Bibliografia essenziale:
- Laura Tussi e Fabrizio Cracolici, Resistenza e nonviolenza creativa, Mimesis Edizioni.
- Laura Tussi e Fabrizio Cracolici, Memoria e futuro, Mimesis Edizioni. Con scritti e partecipazione di Vittorio Agnoletto, Moni Ovadia, Alex Zanotelli, Giorgio Cremaschi, Maurizio Acerbo, Paolo Ferrero e altr*