La presentazione della legge di bilancio è stata accompagnata da dichiarazioni ripetute sia da parte della Presidente del Consiglio che del responsabile del dicastero dell’economia e delle finanze, tendenti ad abbassare notevolmente le asticelle alzate nella campagna elettorale di un anno fa. Era del resto troppo evidente la distanza tra la condizione reale del nostro paese e la propaganda della destra di governo. Basti pensare che solo pochi giorni dopo la seduta del 11 ottobre – quando Camera e Senato hanno approvato due risoluzioni di indirizzo sulla Nadef 2023 nonché quella che ha autorizzato lo scostamento di bilancio in vista della proroga per il 2024 della riduzione del cuneo fiscale – le previsioni di crescita contenute nel testo governativo sono state messe in dubbio dalle stime ben più basse fatte dal Fondo monetario internazionale. Per quanto il ministro dell’economia Giorgetti avesse scritto nella premessa alla Nadef di essersi mantenuto su valutazioni prudenti, esse paiono già eccessive. Il Fmi prevede infatti per il prossimo anno una crescita dello 0,7% in luogo dell’1,2 % stimato dal governo.
Il centro studi della Confindustria (Csc) fornisce un quadro ancora più tetro. Il Rapporto di previsione presentato lo scorso 28 ottobre – con il significativo titolo L’economia italiana torna alla bassa crescita? – esordisce nel seguente modo: “L’andamento del PIL italiano nel 2023 si profila in forte rallentamento rispetto al 2022, quando era cresciuto del +3,7%: nello scenario base, che non include gli effetti delle misure contenute del Ddl Bilancio, il Csc prevede un incremento annuo del +0,7%, già interamente acquisito. La crescita nel 2024 è prevista al +0,5%. (stima di marzo 1,2%).” La differenza, proprio perché comunque si ragiona su numeri bassi, è tutt’altro che trascurabile. Quanto agli effetti potenziali dei provvedimenti contenuti nella legge di Bilancio e nell’avvio della cosiddetta riforma fiscale, quindi la differenza nell’incremento del Pil fra bilancio tendenziale e programmatico, non supera lo 0,2% in più.
Naturalmente nessuno dimentica che le guerre in corso non favoriscono lo stato di salute dell’economia a livello mondiale. L’aumento vertiginoso delle spese a fini bellici e l’incremento dei profitti delle imprese produttrici di armamenti e munizioni non invertono la tendenza generale. Uno dei più autorevoli economisti mondiali, Stephen Roach, per trent’anni in posizioni apicali nella Morgan Stanley, ha recentemente osservato che “due guerre calde (Israele e Ucraina) più una guerra fredda (Usa-Cina), in congiunzione con l’impatto di una stretta monetaria che sarà sicuramente prolungata, possono essere sufficienti per fare cadere il mondo in recessione nel 2024”. Infatti, mentre la Germania è in recessione tecnica – sulla base dei dati giunti alla fine del primo trimestre 2023, senza che le cose siano andate meglio nei mesi successivi -, l’Italia l’ha sfiorata appena per decimale. D’altro canto il sistema produttivo italiano è fortemente integrato in quello tedesco e la Germania è il primo mercato per il Made in Italy. Quindi se Berlino piange, Roma non può certo ridere. Né possiamo aspettarci meraviglie dal Pnrr per una lunga serie di ragioni, quali i ritardi nella definizione dei progetti, il fatto che molti di essi sono stati pensati in altri periodi e recuperati per l’occasione, la scarsezza personale impiegato ai vari livelli della pubblica amministrazione che li dovrebbe attuare, le croniche arretratezze dello Stato italiano, la frattura fra Nord e Sud del paese e l’elenco potrebbe continuare. Tutte questioni che, mettendo assieme la manovra di bilancio e il progetto di autonomia differenziata verrebbero ulteriormente peggiorate.
Previsioni fosche, quindi, entro le quali il nostro paese assomma le sue croniche difficoltà a quelle derivanti dalla congiuntura internazionale. Quanto alla stretta monetaria non c’è elemento che faccia credere a una inversione di rotta, almeno per quanto riguarda la Bce. L’ultima riunione del board della Banca europea non ha portato ulteriori aumenti dei tassi, dopo i dieci precedenti rialzi consecutivi, ma non ha dato alcuna speranza che il picco degli aumenti sia già stato raggiunto. Quindi i tassi potrebbero crescere ancora, o comunque mantenersi sugli attuali valori per parecchio tempo. Il mitico livello del 2% dell’inflazione (da profitti) è ancora molto lontano. L’inflazione scende di qualcosa, ma troppo lentamente e soprattutto non risolve il problema di riempire il carrello della spesa, dal momento che dal 2008 al 2022 i salari reali italiani, secondo i dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro, sono diminuiti del 10%.
Ma proprio questi elementi non solo non giustificano una manovra di bilancio da molti considerata inutile o quantomeno fiacca (Giorgetti l’ha chiamata prudente, un evidente eufemismo) – giudizi a mio avviso assai discutibili per i motivi che seguono – ma aggravano il giudizio su di essa. Proprio in questo quadro economico così depresso una manovra di bilancio che voglia avere l’ambizione di essere definita tale, dovrebbe, non dico capovolgere la situazione, ma almeno introdurre qualche elemento di inversione di tendenza che invece non si vede. Il che dovrebbe interessare anche a chi è soprattutto preoccupato della crescita del nostro debito pubblico, dal momento che – e il fallimento a questo scopo delle politiche anche recenti di austerity dovrebbero averlo insegnato, se qualcuno lo volesse apprendere – solo investimenti in settori innovativi, capaci di creare occupazione e di alzare il Pil (lo so strumento è rozzo, ma purtroppo i calcoli si basano su questo) possono fare scendere realmente il livello del debito. In realtà con questa legge di Bilancio, il governo ha ribadito un pilastro del pensiero neoliberista, quello della neutralità della finanza pubblica che non deve interporsi al libero dispiegarsi delle logiche del mercato, limitandosi a dare un’ulteriore stretta alla spesa pubblica, anche attraverso i famosi tagli lineari alle possibilità di spesa dei vari ministeri, ribadita con enfasi decisionista dal ministro Giorgetti. Quindi se da un lato si nota una stanca continuità, dall’altro emerge una linea ancora peggiorativa, che non può essere sottovalutata.
Se ne possono fare alcuni esempi, pur rinunciando qui e per ora ad un esame punto per punto del disegno di legge governativo.
La tanto declamata riduzione del cuneo fiscale riduce i costi per le imprese ma non risolve il problema dei salari, poichè il modesto incremento nominale che ne deriva è mangiato dall’inflazione. In più il taglio del cuneo fiscale è temporaneo, vale solo per il 2024. Si tratta peraltro della conferma di quanto veniva dato in precedenza. In sostanza saremmo tornati ad una sorta di “clausole di salvaguardia” di berlusconiana memoria – che, in quel caso, se non disattivate, facevano aumentare l’Iva – per cui i lavoratori potrebbero vedersi di colpo alleggerita la busta paga nel 2025 se non verrà trovato l’opportuno finanziamento per la riduzione del cuneo, che peraltro si limita a confermare i valori dell’anno passato. Eppure Bankitalia aveva già bacchettato il governo nelle audizioni sulla Nadef affermando che “A fronte di nuovi oneri di natura permanente (come quelli connessi con la riduzione del numero delle aliquote dell’Irpef) o di difficile rimozione (come, presumibilmente quelli risultanti dal taglio dei contributi sociali) è sempre opportuno individuare coperture certe, di entità adeguata e con natura altrettanto permanente”. Ma così non è per l’assenza di un progetto di politica economica, essendo prioritaria la ricerca di qualche contentino dotato di un ritorno elettorale. Che però non si spinge fino agli strati più poveri, come si è visto nel vergognoso scaricabarile sul salario minimo legale, negato con la copertura dei cosiddetti esperti del Cnel, risuscitato a nuova vita nel momento in cui si tratta di negare una evidente necessità del mondo del lavoro dipendente e precario.
Per la sanità ci sono tre miliardi, ma di questi grande parte andrà alle strutture private, sperando di accorciare attraverso convenzioni con queste le insopportabili liste di attesa nel sistema pubblico. Invece di nuove assunzioni – di cui vi è assolutamente bisogno – si agisce sulla detassazione degli straordinari. Ovvero il personale diminuisce e chi resta è incentivato a lavorare con orari sempre più pesanti, a discapito della qualità delle prestazioni che, in campo sanitario, si trasformano immediatamente in un attacco al fondamentale diritto salute sancito solennemente in Costituzione, quanto disatteso nella pratica. Ne abbiamo un’ulteriore dimostrazione nell’incredibile decisione di raddoppiare l’Iva sui pannolini e sui prodotti per l’igiene intima femminile, difesa a spada tratta dalla Presidente del Consiglio, neppure sfiorata dalla evidente contraddizione con la retorica governativa sulla tutela della maternità e della famiglia. In sostanza viene compiuto un ulteriore passo in avanti verso lo smantellamento del Servizio sanitario nazionale. La pandemia non ha insegnato nulla.
Anzi la linea delle privatizzazioni in vari settori, oltre a quello sanitario, dovrebbe essere nelle intenzioni del governo – piuttosto peregrine, quanto a possibilità di attuazione – una delle fonti su cui si poggia il capitolo delle entrate, dato che qualunque idea di incrementare i proventi dalla tassazione dei forti redditi e delle proprietà è esclusa in partenza e dalle logiche immesse nella delega fiscale che si muovono in direzione esattamente opposta, ovvero quella di erodere ulteriormente il carattere progressivo cui dovrebbe essere ispirato il nostro sistema fiscale come da Costituzione. Mentre le banche possono scegliere se pagare la tassa sugli extra-profitti oppure non farlo destinando quota equivalente all’aumento dei loro patrimoni, ovvero delle riserve indisponibili. Non è difficile intuire quale è stata e sarà la scelta. D’altro canto la lotta all’evasione e all’elusione fiscale è una litania sempre di moda, abusata fino a renderla una frustra promessa che non viene mai realizzata.
Arriviamo quindi al tema della previdenza cui la legge di Bilancio dedica diversi articoli. Ne emerge un quadro peggiore di quello della stessa legge Fornero. Se le dichiarazioni critiche di quest’ultima possono essere strumentalmente considerate una semplice difesa del suo operato ai tempi del governo Monti, nessuno, dotato di un minimo di senso critico, può dire altrettanto rispetto a quelle piovute da altre parti, alcune anche in ambito mainstream. Qui incontriamo elementi di incostituzionalità piuttosto evidenti. Anche se la relazione tecnica che accompagna il testo di legge li giustifica “per non pregiudicare la sostenibilità delle finanze pubbliche”. E’ il caso delle norme con valenza retroattiva, di modifica alle aliquote di rendimento per una parte di lavoratori pubblici per i contributi già versati tra il 1981 e il 1994, adottate per i lavoratori pubblici iscritti alla Cpdel (enti locali), Cps (sanitari, medici e infermieri, Cpi (insegnanti) e Cpug (ufficiali giudiziari). I lavoratori interessati sono circa 700mila, gli ultimi dei quali andranno in pensione solo nel 2043. Praticamente un irresponsabile invito a un’uscita anticipata dal lavoro, soprattutto in settori chiave e di grande necessità come quello dei medici.
E’ anche il caso – in barba alle retoriche sull’attenzione del governo sul futuro dei giovani – di quello che accade ai Millenials, i quali, in base alle nuove norme, non potranno lasciare il lavoro con la pensione contributiva anticipata a 64 anni, perché non raggiungeranno la soglia di pensione pari a tre volte l’assegno sociale (cioè 1509 euro). Recenti studi, compiuti in sede Inps e non solo, indicano che coloro che hanno iniziato a lavorare dopo il 1996, quindi in pieno regime contributivo, si sono trovati in una condizione contrassegnata da salari bassi (sono ben note le stime dell’Ocse sulla perdita negli ultimi trent’anni del 2,9% del valore reale delle retribuzioni nel nostro paese), da lavori precari, da part-time forzati, per cui il 53% di loro avrà una pensione assai povera, pari a circa 800 euro, quindi sotto la soglia di povertà. La flessibilità nell’uscita dal lavoro è quindi negata in radice dalla mancanza di una pensione adeguata.
Per affrontare questa situazione socialmente inaccettabile bisogna da subito agire su molti fronti. In primo luogo su quello dell’innalzamento dei salari. Come sappiamo questo deriva soprattutto da un rilancio della contrattazione sindacale. La quale, a sua volta, sarebbe rafforzata – il contrario di quanto ci hanno detto i sindacati per tanti anni, prima della recente e positiva svolta operata dalla Cgil e della Uil in materia – dall’introduzione di un salario minimo orario. Prendiamo pure la proposta che tra le due in campo prevede una cifra minore: 9 euro all’ora. Secondo quanto contenuto nel Rapporto annuale dell’Inps del 2022, se solo si introducesse per legge un salario minimo di questa entità, si avrebbe una crescita del rateo pensionistico per i giovani del 10%.
Ma certamente questo incremento non basterebbe per assicurare una vita dignitosa – sempre come prevede la Costituzione – per cui il tema di una pensione di garanzia adeguata non può essere scavalcato. Si tratta perciò, come giustamente afferma Pasquale Tridico ex presidente dell’Inps, pur rimanendo all’interno di un sistema contributivo – che pure potrebbe e dovrebbe essere messo radicalmente in discussione -, di decidere un minimale pensionistico a fronte di un certo montante contributivo, indipendentemente dagli anni lavorati, e di rendere gratuito il riscatto della laurea, favorendo così il diritto allo studio oltre a quello alla pensione.
Misure come queste avrebbero inoltre il pregio – almeno potenzialmente – di riaprire il dibattito sul funzionamento dell’intero sistema pensionistico, alla luce anche delle trasformazioni del mondo del lavoro e del tendenziale incremento della disoccupazione involontaria dovuta alla introduzione di sempre più sofisticate strumentazioni di intelligenza artificiale. Se le pensioni sono salario differito, riprendendo le trame anche di una discussione in ambito politico e sindacale, vecchia di alcuni decenni – ma la storia, come si sa, non ha un percorso lineare -; se il salario, proprio grazie alle innovazioni tecnologiche, appare, anche se solo in linea teorica, sempre meno legato alla durata del tempo di lavoro, da cui le richieste di riduzione dell’orario su scala giornaliera e dei giorni lavorativi su scala settimanale fatte proprie recentemente da alcuni sindacati in Europa e non solo; se la richiesta di un vero reddito di cittadinanza, non caricato da obblighi di accettare qualunque tipo di offerta lavorativa, si fonda sul fatto che il lavoro umano nei secoli, materiale e intellettuale, immagazzinato nel sapere delle macchine, permette alle nuove generazioni di potere usufruire di tale reddito, non si vede perché non si possa pensare ad un sistema pensionistico nel quale il contributo del lavoratore è sostituito e sostenuto dalla fiscalità generale. Naturalmente questo comporterebbe la rimessa in discussione dell’intera società, dei modi di produzione della ricchezza e della sua distribuzione. Comprendo bene che qui siamo ai confini, o forse li sto superando, dell’utopia, ma, come diceva un celebre matematico e statistico italiano (Bruno de Finetti) “Occorre pensare in termini di utopia, perché ritenere di potere affrontare efficacemente i problemi in maniera diversa è ridicola utopia”.
Alfonso Gianni