Se fosse un acronimo sarebbe M.E.G.A. Make Europe great again è lo slogan che la cancelliera tedesca ha scelto per il semestre in cui guiderà l’Europa.
Scatterà il primo luglio e sarà l’ultimo per lei da leader tedesca.
Infatti la scelta di non candidarsi per un quinto mandato alle prossime elezioni nazionali appare ormai definitiva. Rafforzata anche dal fatto che la sua leadership in patria è tornata forte per la buona gestione della tempesta covid. Ragionevolmente non lascerà dunque da perdente e con un Paese in mano alla destra populista.
Magari invece si dedicherà a dare seguito al suo slogan sull’Europa occupando chissà quale ruolo.
Vedremo. Intanto c’è il motto trumpiano, che più che una imitazione sembra una sfida all’inventore dell’America first.
Nello sconquasso della pandemia e nel pandemonio che essa ha determinato Merkel sembra aver imboccato la strada per cui si punta sull’Europa per la competizione globale e non per il suo mercato interno. Naturalmente il “confronto” tra le varie pulsioni delle borghesie finanziarie e mercatistiche che monopolizzano lo scenario da un trentennio è aperto ed aspro.
E Merkel ha più gestito l’eredità del dopo ’89 che inventato un nuovo Mondo.
Ma ora la pandemia dice che occorre inventare.
Si sente, eccome, che per la prima volta da oltre un secolo in una grande crisi è assente un protagonista storico e cioè il movimento operaio.
Eppure questa è l’occasione perché torni in campo. Naturalmente per farlo ci vuole teoria e prassi. Ora entrambe sono troppo deboli. Ma se si riuscisse a riappropriarsi della categoria della crisi sottraendola al capitalismo globalizzato che l’ha monopolizzata tutto potrebbe cambiare.
D’altronde le rivolte in USA, che si accompagnano al riemergere della parola socialismo nel novero di ciò che è dicibile per le grandi masse, ci dicono che non esiste la fine della Storia.
L’Europa appare attardata e gravata. Eppure le rivolte contro l’austerity ci sono state. E così i movimenti altereuropeisti. Ma la sinistra storica è rimasta o troppo sotto il muro o troppo coinvolta nella costruzione dell’Europa reale per dare sponda e profondità.
Eppure oggi la partita può riaprirsi nello shock pandemico.
Esso ha mostrato cosa c’era di grande in Europa e cioè il suo welfare pubblico che è l’unica cosa che ha retto limitando la catastrofe.
Se un pezzo di quel pubblico non avesse resistito allo smantellamento sistemico e sistematico del trentennio l’epidemia ci avrebbe spazzato via insieme a quel privato che si è dimostrato una zavorra.
Ma come non vedere che questo vale anche per l’economia e l’occupazione? Per la seconda volta in 10 anni prima una crisi finanziaria e ora la pandemia smantellano economia e lavoro che sono stati affidati ideologicamente a mercato, privato e aziende. Cancellando quel ciclo virtuoso, che era fatto di pubblico, welfare e lavoro, che aveva costruito il modello sociale europeo.
È su quel modello che andava costruita l’Unione Europea e non sulla sua negazione.
Non era neanche difficile visti i principi comuni, a partire dalle Costituzioni, che lo sostenevano. Non c’era una lingua comune ma c’era un modello sociale e costituzionale su cui edificare.
La boria del dopo ’89 ha portato a fare l’opposto.
Ma se si vuole rifare grande l’Europa, e non in competizione sullo stesso terreno di Trump, a quel modello occorre tornare a guardare.
Che poi era un compromesso sociale dichiarato e praticato e non la negazione del movimento operaio e un gioco tra borghesie come quello che c’è oggi.
Thomas Piketty ha appena pubblicato un libro dal titolo Capitale ideologia in cui dichiara di cercare un nuovo socialismo.
La ricerca va sul profondo perché comprende il tema dalla proprietà, questione irrisolta dal socialismo reale e dalle socialdemocrazie, degenerate per altro in social liberismo. Questione enorme nell’epoca della mercificazione totale.
Io proverei a lanciare una sfida per giocare in proprio rispetto alle borghesie, agli europeisti liberali e ai populisti nazionalisti.
La sfida di una proprietà sociale europea. Di grandi settori di welfare europei e pubblici. Ma anche di aziende giuridicamente europee a partecipazione pubblica europea e a democrazia economica europea. D’altronde la necessità di regole fiscali europee, di piani industriali europei, di democrazia sindacale ed economica europee è evidentissima. Già oggi ci sono embrioni in questa direzione come i CAE, Comitati Aziendali Europei di rappresentanza dei lavoratori di aziende con più sedi in Europa.
Riallacciarsi alla storia che fece grande l’Europa e il suo movimento operaio per costruirne una direttamente europea è l’occasione. Da non perdere.