di Tommaso Chiti – Il 3 ottobre del 2013 a largo delle coste di Lampedusa si è verificato il più tremendo dei naufragi accertati nel Mar Mediterraneo nella storia recente, con oltre 350 vittime – fra le quali anche donne e bambini – causate in larga parte dall’incapacità o dall’imperizia delle autorità costiere nella gestione della ricerca e del soccorso.
Per questo, già dall’inizio di questa settimana centinaia di studenti da tutta Europa hanno risposto all’appello del Comitato 3 ottobre e si sono radunati sull’isola per commemorare quelle vittime, insieme con i superstiti del terribile naufragio. Questo progetto, supportato fra gli altri da UNHCR, OIM, Medici senza frontiere, Save the children, Amnesty International, mette al centro i diritti dei rifugiati, la legittimità del soccorso in mare e la lotta alle discriminazioni, avanzando una proposta precisa alle istituzioni dell’UE come quella della “Giornata Europea della Memoria e dell’Accoglienza”, che si può sottoscrivere come petizione anche online.
Proprio in seguito al naufragio del 3 ottobre che il governo italiano lanciò la prima operazione su larga scala di pattugliamento, ricerca e soccorso delle imbarcazioni alla deriva, Mare Nostrum. La missione contava su 5 mezzi navali – fra pattugliatori, fregate ed una nave anfibia – oltre a quattro elicotteri e due droni, che nell’arco di un anno permisero il salvataggio di quasi 150 mila persone in mare.
Prima di allora non erano stati rari i casi di soccorso arrangiato all’occorrenza da parte di pescherecci o navi commerciali operative nel Mediterraneo meridionale. In seguito, invece la necessità di rimodulazione delle spese (9mln/€ annui) e di compartecipazione di altri membri dell’UE hanno portato alla missione Triton gestita dall’agenzia FRONTEX, dotata di appena tre navi e due aeromobili (con un budget di 2,9mln/€), con il chiaro intento di militarizzazione dell’area ed esternalizzare delle frontiere più a sud, lungo le coste africane. Perciò al 2014 risalgono anche le prime operazioni di salvataggio delle ONG, immediatamente tacciate di essere un pull-factor ossia un motivo di attrazione degli sbarchi, proprio a detta dell’agenzia europea.
Così nel 2015 si intensificano le iniziative di controllo militare con il varo di EUNAVFOR MED Sophia – dotata però di appena 4 unità navali supportate da elicotteri militari – ridimensionata rispetto alle precedenti e meno incisiva anche sul piano dei salvataggi, inferiori ai 45 mila nei primi tre anni di operatività, tanto che per MSF il 2016 è stato l’anno peggiore in termini di vittime da naufragio, con una stima di oltre 5 mila persone, che hanno perso la propria vita nel tentativo di attraversamento del Mediterraneo. In effetti la missione resta prevalentemente focalizzata sul contrasto ai traffici illeciti e nelle due proroghe fino ad oggi ha subito numerosi ridimensionamenti, raggiungendo l’assurdità con il summit del marzo 2019, a causa della rimozione totale delle unità navali dall’impiego operativo.
In parallelo si è proceduto ad una politica di criminalizzazione della solidarietà civile e quindi dell’operato delle ONG, tacciate dal Ministro dell’Interno Minniti e da alcuni giudici siciliani di essere in combutta con i trafficanti di persone. L’approccio ha poi aperto la strada alla propaganda sovranista del successore agli Interni, Salvini, che ha emanato due decreti securitari, per il sequestro e l’inasprimento delle pene verso le organizzazioni umanitarie.
Riprova della combinazione letale fra esternalizzazione delle frontiere e la stretta alle missioni delle ONG è contenuta nella freddezza dei numeri. Secondo Amnesty International, dal 3 Ottobre 2013 ad oggi 18.252 migranti e rifugiati sono morti o sono dispersi nel Mediterraneo. Nel 2018 un profugo su 20 moriva durante la traversata, mentre oggi si è arrivati ad uno su 6. Altrettanto letale e disumana è poi la complicità con la cosiddetta “guardia costiera libica”, ovvero le milizie tripolitane al fianco del governatore Serraj, in aperta guerra tribale, che hanno recuperato e deportato nuovamente nei lager libici circa 2700 naufraghi con l’aiuto delle autorità europee nel 2019. Il concetto di esternalizzazione ha infatti portato stati costieri europei e in particolare l’Italia a stringere accordi diplomatici per la detenzione di migranti in appositi centri, del tutto simili a campi di concentramento privi di qualunque presidio a tutela dei diritti umani e fortemente esposti alle ricadute del conflitto, come accaduto nel luglio scorso con il bombardamento del centro di Tajoura e l’uccisione di oltre quaranta internati.
Appena una settimana fa l’accordo de La Valletta fra Malta, Italia, Francia, Germania ha dato l’impressione di una rinnovata speranza di condivisione e di reazione sistemica alla questione immigrazione, dopo la lunga stagione delle reciproche chiusure di porti e frontiere, della rimonta degli egoismi sovranisti al governo in molti paesi, con relativa mistificazione “dell’emergenza immigrazione” in chiave nazionalista.
Sebbene dal 14 settembre SOS Mediterranee abbia registrato la progressiva collaborazione del governo italiano nelle operazioni di sbarco, come nel caso dei naufraghi raccolti dalla Ocean Viking, dopo quindici mesi di ‘porti chiusi’, sembrano ancora molti i punti critici che rischiano di far naufragare l’accordo. Il patto si riferisce infatti soltanto alla redistribuzione ‘volontaria’ dei naufraghi salvati da navi umanitarie o militari, che rappresentano però soltanto il 6-8% dei migranti verso le coste italiane. La stessa rotazione volontaria dei porti e il conseguente ricollocamento rendono l’intesa di nuovo suscettibile in base ai diversi orientamenti governativi.
Il primo vero scoglio dell’accordo sarà però il vertice dei ministri dell’Interno UE del prossimo 8 ottobre. Senza la riforma del regolamento di Dublino infatti, una mini-alleanza di volenterosi non sembra una soluzione convincente, peraltro senza Grecia e Spagna, che rappresentano ancora le principali mete di approdo.
A sei anni da quel terribile naufragio sono sicuramente mutate in modo ondivago le misure approntate dalle autorità o dalle organizzazioni umanitarie – adesso più coordinate fra loro nel tentativo di condivisione dei protocolli di salvataggio e di avvicendamento nelle operazioni – ma si sono altrettanto aggravate le cause che spingono molti migranti a tentare la fortuna attraverso il Mediterraneo. Se i capitoli sulla cooperazione internazionale europea con i paesi di provenienza hanno visto un notevole ridimensionamento, a fronte di aumenti delle spese militari, a crescere è stato soprattutto il traffico internazionale di armi, prevalentemente verso paesi cruciali lungo le rotte migranti.
Secondo la Rete per il Disarmo, nel 2018 il governo italiano ha esportato armi per un fatturato di oltre 5,2 miliardi di euro, verso paesi in conflitto o fortemente destabilizzati, come: Pakistan (207 milioni), Turchia (162 milioni), Arabia Saudita (108 milioni), Emirati Arabi Uniti (80 milioni), Egitto (31 milioni), oltre al Qatar e al Kuwait; mentre per le licenze singole (che non seguono programmi intergovernativi) si parla di 36.8 miliardi (dal 2015 al 2018) specialmente verso Africa e Medio Oriente.
Per questo diventa ancora più necessario legare il tema dell’immigrazione al tema della guerra, dell’export di armi e alle politiche economiche di controllo coloniale, che subiscono molti Paesi del Terzo Mondo.
Un altro fattore strutturale al centro del dibattito pubblico mondiale, ma spesso con la tipica autoreferenzialità occidentale, è quello dei cambiamenti climatici, che nei paesi africani si traduce nell’erosione delle risorse anche idriche e nell’impoverimento della biodiversità del territorio, concause dell’avanzamento della desertificazione.
Come ha ricordato in una recente intervista la capitana della SeaWatch3, Carola Rackete, esponente del movimento Extintion Rebellion, dalle 80 milioni di persone malnutrite nel 2015 si è arrivati a 124 milioni nel 2017, con un trend sempre crescente, specialmente nei paesi dove lo sfruttamento massivo delle risorse primarie causa depauperamento del territorio e forte segmentazione socio-economica, per la mancanza di redistribuzione equa di questi beni.
Al di là della retorica ottimistica sugli sviluppi diplomatici fra soci dell’UE, l’azione dei governi e della Commissione sembra ancora annaspare di fronte al mare magnum di criticità di fondo dei flussi migratori, che dovrebbero essere affrontati in maniera integrata e lungimirante, per onorare davvero la memoria di chi con la propria vita ha lanciato il monito di una crisi umanitaria apparentemente inarrestabile.
Fonti:
https://www.rosalux.de/mediathek/media/element/1161/
https://www.operationsophia.eu/
https://sosmediterranee.it/verso-una-maggiore-umanita-nel-mediterraneo-centrale/