Le guerre hanno obbiettivi dichiarati, spesso ammantati da grandi e nobili principi universali, e altri reali e concreti, altrettanto spesso piuttosto inconfessabili. A volte gli obbiettivi cambiano nel corso della guerra stessa, tenendo conto dei rapporti di forza, dei successi e degli insuccessi ottenuti e anche del tendenziale prevalere all’interno dello schieramento pro-guerra dei settori più fanatici e oltranzisti.
Per quanto riguarda l’Occidente, intendendo in questa categoria l’Amministrazione USA e in generale l’establishment politico-militare-intellettuale degli Stati Uniti, la Commissione europea e i singoli governi, il regime ucraino e tutto l’insieme del fronte che sostiene la prosecuzione della guerra fino alla “vittoria”, non è sempre stato definito con precisione quale fosse il contenuto di questa “vittoria”.
Si va da un obbiettivo minimalista, il ritorno alla situazione ante febbraio 2022, prima della decisione russa di avviare un’invasione militare di larga scala dell’Ucraina, fino ad obbiettivi molto più vasti. Sul piano strettamente militare, Zelenski ripete di voler recuperare tutto il territorio riconosciuto dell’Ucraina ex-sovietica, inclusa la Crimea. L’annunciata controffensiva di primavera, poi diventata estiva e che alla fine potrebbe trasformarsi in autunnale, dovrebbe dimostrare che l’esercito di Kiev, grazie all’ingente arsenale messogli a disposizione dall’Occidente, è in grado di recuperare significativamente terreno togliendolo all’esercito russo che ora, assestandosi in una posizione difensiva, ha però maggiori possibilità di tenere il proprio fronte.
Ma l’aspetto militare non è l’unico a definire la natura e gli obbiettivi del conflitto. Lo stesso Biden in alcuni interventi, poi corretti dal suo stesso entourage, aveva lasciato trapelare l’intento di ottenere la destituzione di Putin o quello che viene definito come “regime change”. Un cambiamento più radicale a Mosca in grado di insediare un potere più accomodante, se non piattamente subalterno agli interessi del campo occidentale.
La stessa decisione della Corte penale internazionale di emettere un mandato di cattura nei confronti del Presidente russo rappresenta un intervento nel conflitto teso a rendere più difficili le condizioni per una qualche forma di trattativa. Il principio del diritto, che presuppone l’esistenza di un giudice indipendente al di sopra delle parti e ovviamente l’applicabilità delle norme a tutti nella stessa misura, risulta evidentemente impraticabile, dato che una serie di Stati, in primo luogo gli Stati Uniti, si rifiutano di riconoscere l’autorità della Corte. Quest’ultima si è piegata a diventare strumento della propaganda di guerra, facendo arretrare la stessa legittimazione della sua attività e ruolo.
Quindi l’obbiettivo può essere una Russia senza Putin o un cambio di regime? Per ora si tratta di obbiettivi il cui raggiungimento risulta incerto o lontano nel tempo, per quanto la scarsa trasparenza del potere di Mosca non possa far escludere terremoti improvvisi e imprevedibili. La stessa rivolta di Prigozhin e della Wagner ha dimostrato l’esistenza di tensioni tra centri di potere alternativi. Per ora è difficile valutare, nonostante i diffusi vaticini diffusi dai media anti-russi, se il rapido esaurimento dell’avventura wagneriana abbia realmente indebolito Putin e aperto la strada ad un’alternativa di cui per ora non si vedono i contorni. Né chiarire se questa fantomatica alternativa possa essere maggiormente disponibile ad un accomodamento sul conflitto in Ucraina o, al contrario, pronta ad usare gli strumenti militari con molta meno prudenza di quando in alcuni frangenti abbia dimostrato lo stesso Putin.
Disintegrare la Russia?
All’interno dei diversi poteri che costituiscono l’Occidente sta emergendo con sempre maggiore forza un altro obbiettivo da raggiungere attraverso il prolungamento del conflitto ed è la disintegrazione della Federazione Russa. Al suo posto dovrebbe nascere un indefinito numero di Stati e staterelli. Non si tratta a dire il vero di un progetto del tutto nuovo, ma oggi non è più attribuibile solo a frange marginali e lunatiche.
Abbiamo segnalato qui su Transform! Italia la scorsa settimana l’editoriale di Jean-Dominique Giuliani, presidente della Fondazione Robert Schuman, nata agli inizi degli anni ’90 da esponenti del mondo democristiano e conservatore francese di orientamento europeista. La Fondazione fa parte del sistema dei centri di ricerca collegati al Partito popolare europeo.
Giuliani sostiene che l’Europa e l’Occidente non devono avere paura o preoccupazione per la possibile disintegrazione della Federazione Russa. Questo processo sembra ormai avviato per effetto della “fallita aggressione” all’Ucraina. La fine della Federazione Russa sarebbe il completamento di un processo di “decolonizzazione” iniziato nel 1991 con la fine dell’Unione Sovietica.
La Russia sarebbe mossa da secoli da un desiderio “bulimico” di ampliare il proprio territorio. Oggi ci sono 100 diverse nazionalità e 21 regioni autonome all’interno della Federazione. Tutte queste possono diventare Stati indipendenti: dal Tatarstan alla Tuva, dalla Kalmykia dalla Buriazia, dal Dagestan alla Khakassia. Quest’ultima, ad esempio, si trova in Siberia quasi ai confini con la Mongolia e conta 600.000 abitanti. Ha buoni giacimenti di ferro, carbone e tungsteno, inoltre agricoltura e allevamento sono “in forte sviluppo”, spiega Wikipedia. E’ anche, al momento, guidata da un comunista, Valentin Konovalov, eletto nel 2018 dopo aver sconfitto il presidente uscente della repubblica autonoma. Ma le sue possibilità di rielezione, nelle votazioni previste i primi di settembre, non sembrano buone.
Ed è con un certo interesse che lo stesso Giuliani sottolinea che in molte di queste repubbliche autonome si trova un ricco sottosuolo, una fiorente agricoltura e in qualche caso un certo passato industriale. Solo la scomparsa della Russia come oggi la conosciamo potrà consentire di costruire una “genuina architettura di sicurezza sul continente”.
Nemmeno le 6.000 testate nucleari di cui dispone la Russia devono preoccupare perché, come nel 1991, una qualche soluzione si troverà. Anche se, presupponendo che i dirigenti dei nuovi Stati accettino la visione della Russia come naturalmente espansionista e imperialista proposta da Giuliani, potrebbero anche ritenere conveniente mantenere le testate nucleari presenti sul loro territorio.
La posizioni del presidente della Fondazione Robert Schumann è isolata nel dibattito all’interno dell’establishment? Non proprio, negli Stati Uniti non mancano coloro pronti a suonare la stessa musica. È il caso di Janusz Bugajski, senior fellow della Jamestown Foundation di Washington, nata negli anni ’80 con l’obbiettivo principale di sostenere i dissidenti dell’Urss e del blocco socialista grazie anche al sostegno dell’allora direttore della CIA William J. Casey.
Di origine polacca, Bugajski contribuisce a diffondere nel mondo intellettuale americano legato al potere le tesi russofobe presenti in diversi paesi dell’Europa centro-orientale. In un articolo del gennaio scorso pubblicato sull’edizione europea del sito web Politico, ha spiegato che il collasso della Federazione russa è “imminente”. Si tratterebbe già di uno “stato fallito” come risulterebbe confermato dalla contrazione dell’economia seguente alle sanzioni internazionali e dalle sconfitte militari in Ucraina. Due dati di fatto contestati da altri osservatori per i quali l’economia russa sta reggendo molto meglio del previsto alle sanzioni impostele e anche per quanto riguarda la situazione militare vi è chi, come John Mearsheimer, ritiene che alla fine il conflitto non potrà che terminare con una “vittoria”, quantomeno relativa, dei russi sugli ucraini.
Mosca è un “centro imperiale rapace” e molti leader occidentali continuano a non vedere i “benefici” che deriverebbero da una disintegrazione della Russia, ha scritto Bugajski. Quello che ne resterà sarà fortemente indebolito perché continuerà ad essere sottoposto alle sanzioni occidentali e perderà la sua base di risorse della Siberia. Paesi come l’Ucraina, la Georgia e la Moldavia potranno integrarsi nella Nato e nell’Unione Europea e potranno nascere nuovi stati filo-occidentali.
Anche i paesi dell’Asia centrale saranno più liberi di rivolgersi all’Occidente, mentre la Cina risulterà indebolita perché non potrà più collaborare con Mosca. Non sono una preoccupazione nemmeno le testate nucleari perché le élite post-russe come quelle post-sovietiche non commetteranno un suicidio lanciandole contro l’Occidente. Sarebbe un errore, spiega Bugajski, credere che anche la sostituzione di Putin o l’accesso dei liberali al potere al Cremlino possano migliorare la situazione. La Russia, per questo esperto, è un male in sé. Può essere solo combattuta in vari modi e non è pensabile che diventi un partner politico con cui l’Occidente possa in qualche modo interagire o convivere pacificamente.
Oltre a pubblicare un libro specificamente dedicato ad esporre le sue tesi, l’analista ha partecipato nell’agosto dell’anno scorso al “Forum delle nazioni libere della Postrussia” alla presenza di (presunti) rappresentanti di oltre venti nazioni e regioni che “probabilmente” rivendicherebbero l’indipendenza dalla Russia. Anche qui la lista è lunga e un po’ bizzarra: Buriati, Bashkiri, Tatari, Ceceni, Siberiani, Novgorodiani, Estremorientali.
A tutti costoro, Bugajski ha prefigurato quello che lui stesso definisce uno “scenario jugoslavo” con una guerra aperta tra il centro e diverse repubbliche autonome. Più in concreto, prevede l’analista, “Mosca potrebbe cercare di emulare la Serbia negli anni ’90 mobilitando i russi etnici per ritagliare regioni etnicamente omogenee nelle repubbliche ribelli mentre uccide e terrorizza le popolazioni non russe”. Non che questo lo preoccupi particolarmente. Tutto ciò servirà semplicemente ad “accelerare la rottura dello stato” russo. Il consiglio rivolto alla NATO, che in questo riproduce il preventivato “scenario yugoslavo” è di “riconoscere la sovranità delle repubbliche delle regioni che vogliono secedere, sviluppare legami con gli stati emergenti e di coordinarsi strettamente con tutti gli stati confinanti, dalla Finlandia al Giappone, che saranno direttamente toccati dalla crisi interna russa”.
La mappa della “Postrussia”
Il Forum delle nazioni libere della Postrussia è sorto nel maggio del 2022 a Varsavia ed è registrato legalmente in Polonia. Ne fanno parte 22 organizzazioni separatiste il cui obbiettivo è la dissoluzione della Russia. Si tratta di formazioni probabilmente sconosciute alle popolazioni che dichiarano di rappresentare. Ha comunque prodotto una mappa dalla quale emerge l’idea per cui questi gruppi si battono. Non si tratta nemmeno di considerare una Russia privata dalle regioni autonome quanto invece di avviare un processo di balcanizzazione dalla quale sparirebbe qualsiasi idea di sopravvivenza di un paese chiamato Russia.
L’interesse di questo Forum, più che nella credibilità dei suoi componenti, che risulta molto modesta, consiste nei legami e nel sostegno che ad esso danno alcuni governi europei, in particolare quello polacco. Il gruppo del Partito Legge e Giustizia al potere a Varsavia ha organizzato nel gennaio di quest’anno a Bruxelles un incontro al quale hanno partecipato circa quaranta esponenti delle nuove realtà in cui dovrebbe dividersi la “Postrussia”.
In proposito Giovanni Savino ha scritto che “accanto a rappresentanti di movimenti e istanze presenti da tempo, come gli indipendentisti ceceni, sono apparsi i delegati di territori dove non vi sono nazionalità non-russe, come la Kazakia (nome con cui, secondo gli organizzatori, dovrà essere chiamata la regione di Rostov e del bacino del Don in futuro), la repubblica di Pskov e Konigsberg, luoghi in cui non vi sono, almeno al momento, rivendicazioni indipendentiste né di autonomia da Mosca”.
Particolarmente attiva sulla questione (ed “inflessibile”, come la giudica Savino) è l’europarlamentare polacca del PiS, Anna Fotyga, già ministra degli esteri di Varsavia, per la quale la “Russia non è cambiata nel corso dei secoli, sia essa zarista, sovietica o sotto Putin: è sempre guidata dagli stessi istinti imperiali e porta avanti lo stesso schema di conquista, colonizzazione e genocidio”. Si tratta, sia detto chiaramente, di una lettura sostanzialmente razzista della “natura” e degli “istinti” di una nazione, a partire dalla quale non se ne può che promuovere la distruzione. Può essere interessante rilevare che in fondo una logica analoga ha portato diverse grandi potenze europee, nel corso dei secoli, a mettere in atto e teorizzare lo smantellamento dello stato polacco.
Alle riunioni del Forum ha preso parte in diverse occasioni anche Ilya Ponomarev, l’unico deputato della Duma ad aver votato contro l’annessione della Crimea. Riferisce Savino che l’ex deputato, “in una conversazione a margine dei lavori dell’incontro del Forum dei popoli liberi, ha definito una “cazzata”, perché a sua detta la maggioranza delle regioni resterebbero con Mosca, e di essere presente a Bruxelles per pubblicizzare il suo Congresso dei deputati del popolo (S’ezd narodnykh deputatov).”
Nel fronte dei “disgregatori” della Russia occorre includere la posizione del governo ucraino, espressa con molta chiarezza in un’intervista del 6 febbraio scorso al Kyiv Independent, dal segretario del Consiglio nazionale di sicurezza e difesa Oleksyi Danilov. Originario del Donbas, proviene dal partito di Yulia Timoschenko. Non è stato eletto nelle ultime elezioni politiche ma è stato ripescato da Zelenski per un ruolo di notevole rilevanza. In qualità di segretario del Consiglio per la sicurezza e la difesa nazionale ne è il capo effettivo anche se la presidenza formalmente spetta al Presidente della Repubblica. I poteri di questo Consiglio si sono notevolmente accresciuti al di là dei suoi confini legali in particolare nella caccia a quella che lo stesso Danilov definisce come la “quinta colonna”. Tutti coloro che possono essere etichettati come filo-russi o anche semplicemente tiepidi nel sostenere la guerra, sono caduti e possono cadere sotto l’azione repressiva del Consiglio e della polizia politica, l’SBU.
Benché l’opposizione sia stata messa fuorilegge, la stampa allineata al Governo e anche la Chiesa dissidente smantellata con la forza, Danilov evidenzia che “sfortunatamente, alcuni legislatori che appartenevano alla Piattaforma di opposizione filo-Russa (ndr si tratta del principale partito di opposizione ora smantellato) sono ancora in funzione” e ora “si vorrebbero posizionare come mediatori nelle trattative con Putin” ma, promette Danilov, nel “prossimo futuro” verranno prese altre iniziative contro i politici da lui ritenuti “amici della Russia”.
L’intervista a Danilov è correttamente intitolata dal Kyiv Indipendent riportando la frase dell’intervistato che dichiara: “L’interesse nazionale ucraino è la disintegrazione della Russia”. Per l’esponente del regime di Kiev “lasciare i russi con armi e missili nucleari non è nel nostro interesse nazionale e non è nell’interesse di qualsiasi paese confinante della Russia” e quindi “adesso è il tempo di smantellare completamente il sistema sovietico”. Chiarendo ancora meglio l’obbiettivo di Kiev, sottolinea che “la disintegrazione della Russia è una questione di sicurezza nazionale”.
Quando il Parlamento di Kiev ha votato nell’ottobre dell’anno scorso per riconoscere la Cecenia (che i separatisti hanno denominato “repubblica cecena di Ichkeria”) come stato occupato dalla Russia, una decisione poi tenuta in sospeso da Zelenski, lo stesso Danilov ha twittato: “la libera Ichkeria ha avviato il processo di decolonizzazione della Federazione Russa e di distruzione del sub-impero”. Quindi “distruzione” e “disgregazione” sono la parole chiave che indicano la prospettiva di medio-lungo periodo del governo ucraino nel conflitto con la Russia. Qualcosa che va oltre la stessa definizione della “vittoria” militare come riconquista dei territori occupati dall’esercito russo.
Negli Stati Uniti, in tutto il complesso di centri di ricerca che discutono e in parte definiscono gli obbiettivi della politica estera di Washington, l’obbiettivo della disgregazione della Russia non è, almeno per ora, pienamente condiviso. Alexey Gusev spiega sul sito del Carnegie Endowment for International Peace che la Russia non si disintegrerà lungo i confini regionali che spesso per ragioni storiche non seguono i confini etnici. Gusev riconosce però che “si parla sempre più spesso” di questa ipotetica “decolonizzazione” della Russia. Anche un’altra esperta, Marlene Laruelle, intervenendo su Foreign Affairs, ritiene improbabile una frammentazione della Russia, ricordando ad esempio che vi sono regioni, come la Buriazia che sono autonome ma nella quale la quasi totalità della popolazione è di etnia russa.
Laruelle segnala che le tesi favorevoli alla disintegrazione della Russia hanno una crescente diffusione anche negli Stati Uniti persino in organizzazioni governative come la Commissione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, alla quale partecipano numerosi parlamentari, che ha dichiarato la “decolonizzazione” della Russia (termine che cerca di nobilitare lo “scenario yugoslavo” di cui parla Bugajtski) come “un imperativo morale e strategico”. Formulazioni che rimandano secondo l’autrice a quel Blocco anti-bolscevico delle nazioni sponsorizzato dalla CIA negli anni ’50.
Marlene Laruelle non condivide questa prospettiva che in Occidente non è oggetto solo di “speculazioni” ma anche di vera e propria “agitazione politica”. Una disintegrazione non risolverebbe il “problema russo”, piuttosto per i paesi confinanti e per il resto del mondo sarebbe meglio che la Russia “reinventasse” il proprio federalismo anziché “esplodere”.
Liana Fix, esperta dell’autorevole Council for Foreign Relations, invita gli europei a mettere nel conto la concreta possibilità che una Russia del dopo Putin sia “caratterizzata da un nazionalismo radicale di destra e/o dal caos dopo la liberalizzazione”. Unione Europea e Nato sono invitate a preparare piani concreti per fronteggiare il vuoto di potere e il caos in Russia. Valutate tutte le possibili implicazioni di una caduta di Putin (sulla cui effettiva concretizzazione spesso gli analisti occidentali confondono previsioni e speranze) Liana Fix chiarisce che “l’interesse centrale dell’Occidente è di avere la Russia fuori dall’Ucraina non il cambiamento di regime a Mosca”.
I “disgregatori” preparano la guerra senza fine
Come si vede esiste un significativo dibattito sulle finalità della guerra che vede un articolarsi, spesso non sempre limpido, di posizioni diverse. Soprattutto negli Stati Uniti dove questo genere di confronto pubblico è normalmente più esplicito e meno ammantato di retorica, almeno nelle elaborazioni dei centri di ricerca e di riflessione (diverso ovviamente se si considerano i grandi media che orientano l’opinione pubblica).
Un settore radicale, sia in Europea che negli Stati Uniti attribuisce alla guerra l’obbiettivo di favorire la “disgregazione” della Russia. Un tema che è oggetto di dibattito crescente e nel quale le posizioni più oltranziste sono tenute dalla Polonia e dall’Ucraina ma che contagia anche settori della destra conservatrice tradizionale. Non è ancora una posizione dominante, ma non si può escludere che lo diventi.
In Europa, attorno alla prospettiva del ridimensionamento drastico della Russia o della sua disintegrazione, possono ritrovarsi non solo i settori ultra-nazionalisti dell’Europa centro-orientale (sulla base di argomentazioni esplicitamente razziste che attribuiscono ai popoli e alle nazioni qualità o difetti eterni e immutabili sulla base delle quali attivare una distruttiva contrapposizione tra bene e male), ma anche interessi economici di espansione del capitalismo europeo verso nuovi territori da inglobare nel proprio sistema produttivo come è avvenuto con la caduta del blocco socialista.
Una possibile conseguenza del prevalere di questa posizione e di questo coacervo di interessi può essere la trasformazione del conflitto in Ucraina in una “guerra eterna” tra l’Europa (privata della parte russa) e la Russia stessa, che può avere come fine solo la distruzione di una delle due parti. Solo questo sarebbe definibile come “la vittoria” perseguita dall’Occidente.
Franco Ferrari
2 Commenti. Nuovo commento
È un progetto delirante, chi l’ha concepito dovrebbe essere rinchiuso in manicomio! Comunque il pericolo che ciò accada è reale, le premesse ci sono tutte. Però il risultato non sarebbe così prevedibile come enunciato da questi apprendisti stregoni, anzi potrebbe essere catastrofico per tutta l’umanità.
Chi semina vento raccoglie tempesta, recita un antico proverbio.
Janusz Bugajski e tutti i suoi tirapiedi farebbero meglio ad occuparsi dei problemi interni degli USA, dove a causa delle disuguaglianze sociali, delle armi che circolano liberamente non mancano tensioni, violenze tra le diverse etnie e classi sociali che sono il brodo di cottura per far esplodere il pentolone di una possibile guerra civile.
l’aggressore e l’aggredito. La Nato e’ l’aggressore, gli aggrediti oltre ai russi anche i popoli e le nazioni del continente europeo obbligate a supportare la guerra