editoriali

L’Italia differenziata, a modello UE

di Roberto
Musacchio

Se si vuole avere un’idea di come sarà l’Italia con l’autonomia differenziata si può guardare alla UE. Dopo trent’anni di cosiddetta integrazione nella UE ci sono al comando un mercato, regole assurde di bilancio, oggi l’atlantismo, mentre tutti i dislivelli salariali, sociali, nei diritti, sono rimasti ed anzi si sono allargati, sia tra i Paesi che al loro interno. L’integrazione e l’armonizzazione fondati su mercato, sussidiarietà e minimi sociali (quando ci sono) non hanno prodotto nessuno degli effetti che si realizzarono negli Stati nazionali grazie alla politica ed al protagonismo sociale. Che infatti nella dimensione UE praticamente non esistono.

D’altronde sono proprio la politica e il protagonismo sociale che da trent’anni si vogliono eliminare.

Le nomenclature liberiste che hanno cooptato buona parte delle ex sinistre (il centrosinistra italiano è un modello) hanno lavorato per questo.

Ora le destre possono completare l’opera e raccogliere i frutti, in Italia e in Europa. Bellicismo e nazionalismo sostituiscono il collante sociale, rafforzano il comando nelle crisi ricorrenti.

L’Italia della autonomia differenziata, governata dalla destra, che va verso il presidenzialismo, è un modello per una UE delle Nazioni, bellica e presidenzialista.

Il ‘900 nella sua parte progressiva è cancellato e “liberali” e destre si ritrovano dove si erano lasciati, in un capitalismo senza democrazia e valori sociali. L’uguaglianza viene bandita e una sedicente libertà usata per la guerra e le divisioni sociali.

Il processo viene da lontano. In termini legislativi con la “riforma” del titolo V della Costituzione, significativamente imposto dal centrosinistra. Accompagnato da una “riforma” elettorale delle regioni che ha sostanzialmente un’impronta presidenzialista ed una riduzione della rappresentanza che non ha pari in Europa per assemblee legislative. Non a caso il modello voluto da Tatarella. L’incrocio tra spezzettamento e presidenzialismo è dunque già presente.

Ma bisogna guardare anche ai fenomeni strutturali.

Dopo l’inflazione “usata” come clava contro l’ascesa salariale degli anni 60/70, è la volta del debito. Che esplode quando con la separazione tra Tesoro e Banca d’Italia l’Italia è tra i primi Paesi ad allocarlo a mercato. Da quel momento la corsa tra salari, profitti e rendite, si inverte, con i primi a decrescere e i secondi a straripare. Oltre che i salari (e le pensioni) a essere pressato da questo rovesciamento della lotta di classe è tutto il welfare. Blocchi di assunzioni e massicce privatizzazioni investono tutto il pubblico, che nei settori di welfare in Italia è già assai deficitario. Oggi gli occupati in servizi pubblici in Italia sono ampiamente sotto la media europea (la metà dei Paesi nordici) e con l’età media invece ampiamente più alta.

L’Italia è la punta di diamante di un processo che usa la cosiddetta “crisi fiscale dello Stato” per imporre una svolta radicale in senso neoliberale. Reagan, Thatcher sono gli epigoni teorici. Ma in Italia, dove lo Stato è debole e pieno di distorsioni e ciò è stato compensato dal protagonismo sociale e politico, l’attacco è ancora più a fondo perché comprende in primis anche questo elemento.

Nel dibattito teorico ci sono i “territori competitivi” di cui scrive il sociologo giapponese Ohmae (La fine dello Stato nazione, 1996) che sostituiscono gli Stati e la coesione sociale storicamente realizzata.

In Italia si celebrano il Nordest, i vari patti per aree e esplode la Lega. Ma con la crisi del sistema politico queste dinamiche divengono egemoni e trasversali. Fino a che, con le crisi ripetute, è la destra “storica” a riconnetterle profondamente con il nuovo nazionalismo presidenzialista. Buono per l’Italia e per l’Europa che sul differenzialismo, come detto all’inizio, si è costruita dalle origini della UE, come forma particolare di resilienza capitalistica. E che oggi si attrezza così alla guerra.

 

di Roberto Musacchio

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1 Commento. Nuovo commento

  • renata puleo
    08/02/2023 17:28

    Manca, nell’analisi proposta, una parola sul progressivo disfacimento della scuola pubblica che l’ AD prevede nella sua agenda, anche con i cosiddetti patti territoriali (apertura a tutto il peggio della privatizzazione), con la svendita dei saperi disinteressati per il privilegio delle competenze aziendali

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