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L’insostenibile sostenibilità dello sviluppo

Dall’inserto di Liberazione  “l’insostenibile” del gennaio 2004 ri-impaginiamo una intervista che ci sembra particolarmente interessante. In calce inseriamo l’immagine dell’edizione originale con la sua grafica. –

Una riflessione con Giorgio Nebbia, Carla Ravaioli e Serge Latouche sulle parole che possono definire un nuovo ambientalismo. Oltre le categorie ambigue e contraddittorie che hanno contraddistinto gli ultimi vent’anni

A CURA DI ROBERTO MUSACCHIO

Le discussioni terminologiche non sempre sono bizantinismi, anzi spesso indicano l’esigenza di riflettere attraverso l’approfondimento linguistico su concetti, fasi storiche, obiettivi.

Proponendo una discussione sullo sviluppo sostenibile vogliamo partecipare ad un dibattito che è già aperto nel movimento e tra gli intellettuali.

Non c’è dubbio che l’espressione “sviluppo sostenibile” ha segnato un’epoca in cui è sembrato che si proponesse in modo indubbio la centralità della questione ambientale, come questione “moderna” capace di rimettere in discussione tutti i precedenti modelli in nome dell’esigenza di guardare avanti alle nuove contraddizioni.

Chi scrive, nel proporre questa riflessione con Giorgio Nebbia, Carla Ravaioli e Serge Latouche a nome del collettivo dell’Insostenibile, in cui pure ci sono idee diverse, ritiene che il termine fosse già dall’avvio semanticamente e geneticamente ambiguo, coniugando termini potenzialmente contrastanti (“sviluppo” e “sostenibile”), venendo assunto via via da consessi già segnati dalle forze ademocratiche della globalizzazione.

Che dunque abbia funzionato un po’ da “rivoluzione passiva” rispetto alla radicalità della critica ambientalista portata avanti sin dall’origine da molti intellettuali e molti movimenti che infatti hanno mantenuto, rispetto alla dizione sviluppo sostenibile, una posizione critica.

E ritiene che proprio la globalizzazione abbia riscomposto le vecchie forze non più tra “vecchie” e “nuove”, tra “sviluppiste” e “ambientaliste”, ma tra quelle che hanno tentato e tentano di convivere con la globalizzazione per “umanizzarla” e quelle che hanno dato vita ai movimenti critici. Ancora, sviluppo sostenibile è stato anche nei fatti l’idea di consegnare a mercato e impresa una funzione di regolamentazione ambientale. Sempre chi scrive ri tiene dunque necessario una nuova ricerca terminologica perché la fase nuova non si può affrontare, come molti continuano a pensare, riproponendosi prima della vittoria delle destre di Bush e Berlusconi rimuovendo le ragioni di una sconfitta.

Anche il nome del nostro inserto l’Insostenibile allude alla voglia di un nuovo antagonismo.

Cosa pensi della definizione “sviluppo sostenibile’ della sua genesi e della sua storia concreta?

NEBBIA: Per quanto ne so il primo uso del termine “sviluppo sostenibile”, nel senso che viene dato oggi alla parola, è stato fatto da un certo prof. D. Pirages nel 1972 in una conferenza in California. Il boom del termine si ebbe però con il “Rapporto Brundtland” del 1988 in cui il concetto è espresso, lo ripeto con le parole dell’originale inglese, come: “Development that meets the needs of the present without compromizing the ability of future generations to meet their own needs”. In italiano la frase è diventata “sviluppo sostenibile”, con un aggettivo poco usato nella nostra lingua, mentre è diffuso il contrario, “dolore insostenibile”, “situazione insostenibile”, per indicare qualcosa che non può durare a lungo.

 La definizione “ufficiale” introduce due concetti: “sviluppo” (development), e “bisogni” (needs). ‘bisogni richiesti per uno sviluppo umano sono di natura immateriale o materiale. Sono bisogni immateriali quelli di libertà, di uguaglianza, di diritto al lavoro e alla mobilità e al professare o non professare una religione, di diritto di parola, di dignità, di salute, di conoscenza, di amore, di bellezza. Se vo gliamo, i bisogni riassunti nel motto rivoluzionario: libertà, uguaglianza, fraternità.

Sono materiali tutti gli altri bisogni: di acqua, cibo, abitazione, energia, carta, libri, mezzi di comunicazione e trasporto (dal computer alla bicicletta alla Maserati), e tantissimi altri. Ritti i bisogni materiali possono essere soddisfatti soltanto con beni fisici tratti dalla natura: prodotti agricoli e forestali, minerali, pietre, sabbia, combustibili estratti dal sottosuolo, acqua tratta dai fiumi o dalle falde sotterranee; beni rielaborati poi dell’ingegno e dall’attività umana in oggetti. Il cemento e il calcestruzzo, il ferro, l’alluminio, il silicio, le scarpe, la conserva di pomodoro, il pane, la carta stampata, il computer, l’elettricità che soddisfa il bisogno di luce e di comunicazione, eccetera.

Tutti gli oggetti necessari per soddisfare i bisogni materiali comportano inevitabilmente, per una legge fisica ineluttabile e ineludibile – l’unica che nessun governo o potere umano può truccare o modificare – la sottrazione di beni da serbatoi naturali (piccoli o grandi ma non infiniti) e l’immissione di scorie, più o meno nocive, in quantità più o meno grandi ma mai zero, entro serbatoi naturali che possono anche essere grandi (l’aria, gli oceani, eccetera) ma la cui capacità ricettiva non è infinita. Ciò significa che tali serbatoi, dopo aver ricevuto le scorie dei processi di ottenimento degli oggetti richiesti per soddisfare i bisogni umani presenti, possiedono caratteristiche che li rendono meno utilizzabili per il soddisfacimento di altri bisogni umani, presenti o futuri.

In conclusione, il soddisfacimento dei bisogni dell’attuale generazione lascia delle condizioni che consentono di soddisfare non “ugualmente”, ma di meno, i bisogni delle generazioni future. In altre parole lo sviluppo che soddisfa i bisogni materiali della presente generazione compromette la possibilità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni, ed è quindi insostenibile. (Scrissi qualche paginetta sullo stesso argomento, nel libretto “Lo sviluppo sostenibile” nel 1991). In inglese c’è un’espressione popolare che dice: “You can’teat a pie and have it”: non puoi mangiarti una fetta delle risorse (limitate, proprio come la torta) della natura e averne ancora e lasciarne la stessa porzione ad altri.

Né ci si illuda che il soddisfacimento dei bisogni immateriali, spirituali, degli umani posso essere sostenibile, durevole. Perché anche i bisogni immateriali possono essere soddisfatti soltanto con oggetti fisici; non si può avere dignità se si vive in baracche in promiscuità; non si può avere salute se il cibo è insufficiente e l’acqua contaminata; non si può avere libertà di movimento senza il ferro della bicicletta, la benzina per gli autoveicoli, il cuoio per le scarpe; non si può avere bellezza o amore se non si ha una spazio fisico per la propria intimità e tempo libero dal soddisfacimento di altri bisogni fisici.

RAVAIOLI: La formula “sviluppo sostenibile”, ripetuta all’infinito da tutti e in tutti i contesti, andrebbe cancellata dall’uso corrente e dal senso comune. In realtà oggi non significa nulla. Peggio, è una contraddizione in termini. E ciò si deve alla vicenda semantica subita negli anni dalla parola “sviluppo”. La quale in origine indicava progressivo aumento non solo di benessere materiale, ma di libertà politiche, diritti civili, servizi sociali, istruzione, parità trai sessi, speranza di vita, rispetto della natura: un’evoluzione socialmente valida e insieme ecologicamente “sostenibile”. E’ stata la politica economica mondiale, da un cinquantennio strenuamente impegnata per l’aumento del Pil, dato come soluzione di tutti i problemi, a modificare via via il significato di “sviluppo”, fino a identificarlo di fatto con “crescita illimitata diproduzione e consumo”. Con qualcosa cioè che clamorosamente confligge con i limiti fisici del pianeta, che è l’esatto contrario di “sostenibilità” ecologica. Che infatti ha drammaticamente aggravato il dissesto dell’ambiente, mentre non meno drammaticamente ha mancato ogni obiettivo sociale: la distanza tra ricchi e poveri continua ad aumentare. Insisto: smettiamola di parlare di “sviluppo sostenibile”.

LATOUCHE: Lo “sviluppo” è nato come pretesa del Nord di portare una soluzione ai problemi dei paesi del Sud. Ipaesi del Nord hanno iniziato ad essere interpellati solo a partiredagli anni ’90, quando sono stati presi dalla crisi ecologica e dalle difficoltà della mondializzazione neo-liberale. Si è allora ritoccato il dogma della crescita economica designandola con la detestabile terminologia di “sviluppo duraturo”. E’ un ossimoro, cioè una figura retorica consistente nell’accostare un termine ed il suo contrario: lo “sviluppo”, così come è concepito da coloro che lo rivendicano, è basato su una crescita economica che è già insostenibile per il pianeta! C’è incompatibilità radicale con la sua durevolezza. Oggi, tutti sanno che si va contro un muro, ma nessuno fa niente. O piuttosto, si vuole il burro ed i soldi del burro, l’aria pura e l’automobile è questo, lo “sviluppo duraturo” che ci si propone! Al punto che io mi interrogo seriamente: la società occidentale ha tendenze suicide? Attualmente, bisogna convenire che le pulsioni di morte superano le pulsioni di vita. Per costruire una società sostenibile, bisognerebbe scoraggiare i trasporti nocivi per l’ambiente, dannosi alla coesione sociale per la delocalizzazione delle attività distruttrici della diversità culturale per l’uniformazione planetaria e contrari alla dignità degli uomini quando provocano l’invasione turistica. Ma la questione sociale si pone anche a livello mondiale. Se i  paesi del Nord possono straconsumare così pesantemente, minacciando l’equilibrio planetario, avviene perché lo fanno sulle spalle dei paesi poveri che non possono permetterselo. La crescita è, dunque, l’ingiustizia sociale. L’operaio del Nord non ne è forse molto sensibile, ma è necessario far passare queste idee. Poiché sono i poveri che erediteranno sempre più il peggio. I ricchi potranno sempre pagarsi alimenti biologici, e partire in vacanza in spazi naturali preservati.

Non ritieni che occorre ricercare nuovi termini come ad esempio “sovranità alimentare” proposto dai movimenti come i Sem Terra?

 NEBBIA: Il concetto di “sovranità alimentare” sembra riferirsi al diritto di un popolo ad usare le proprie risorse, alimentari o minerarie, ma questo non sposta il problema della scarsità e del conflitto; se si coltivano pomodori sulle Ande si gettano sul lastrico i contadini della Campania; se si trasforma la bauxite della Guiana sul posto si chiude Porto Vesme; diritti di poveri contro quelli di altri poveri; questo è il libero mercato globalizzato richiesto dal capitalismo.

RAVAIOLI: Certo, abolito “sviluppo sostenibile”, servirebbero parole nuove. Ma forse non sono le parole la cosa più urgente. Forse prima bisogna far chiarezza su alcuni punti. Indubbiamente nei movimenti la sensibilità per l’ambiente è forte e diffusa, ma siamo certi che siano del tutto superate le vecchie posizioni di sinistra, quelle che davano problema ecologico e problema sociale come contrapposti e inconciliabili? Siamo certi che ci sia piena cognizione delle cause dello squilibrio ecologico, così da collegarlo e non più contrapporlo -all’iniquità sociale? E da rapportare ambedue i problemi alla logica del neoliberismo, di un sistema che si regge sullo sfruttamento più duro del lavoro e sulla rapina della natura? Perché in realtàle due battaglie, ambientale e sodale, sono una sola: contro il capitale. Accertato questo, le parole nuove non dovrebbe essere difficile trovarle.

LATOUCHE: La “sovranità alimentare” è una rivendicazione di buon senso, in particolare per i paesi del Sud, ma non è un progetto di società. Bisogna comb attere le radici stesse dell’immaginario e dell’economia – sinonimo di crescita -, e dunque le basi della civiltà occidentale. Questa rottura è necessaria per sfuggire alla trappola delle parole. Gli “umanisti” dicono “sviluppo duraturo”, così come … Jacques Chirac o il World business council for sousteinable development (WBCSD), che raggruppa tutte le grandi imprese nel mondo. In fin dei conti, ci si schiera sotto la stessa bandiera del male economico! Piuttosto che “abbasso lo sviluppo duraturo”, preferisco dire “viva la decrescita conviviale”, io sono allora molto più ascoltato. Si può coniugare il “sostenibile” che è un’aspirazione necessaria e legittima con altre parole piuttosto che “sviluppo”, per esempio “società sostenibile” come l’ONG Gli amici della Terra o “futuro sostenibile” come il Wuppenai Istitute.

Non credi che occorra un “nuovo ambientalismo”, di cui già si vedono le radici nei movimenti antigilobalizzazione?

 NEBBIA: Se ambientalismo vuol dire rivendicare i diritti di una comunità violati da un potere economico, l’ambientalismo può attenuare, come ha fatto finora, talvolta efficacemente, talvolta blandamente, tali violenze, ma neanche questo sposta il problema della scarsità. Qualcosa sembra apparire, sia pure confusamente, nei movimenti antiglobalizzazione ma manca ancora, a mio parere, una teoria politica di rapporti fra popoli che ricuperi il valore della vita in una natura che è così com’è; per l’affermazione di tale valore, nei rapporti fra popoli e fra i popoli con la natura, qualsiasi altro valore, come quello del denaro, deve essere accantonato. Un po’ come quando il valore dell’uguaglianza prevalse sul guadagnò che i contadini soggetti assicuravano ai signori francesi, come quando il valore della libertà degli schiavi prevalse prepotente sul valore del guadagno che gli schiavi assicuravano ai coltivatori di cotone.RAVAIOLI: Soprattutto occorre una nuova politica economica, o meglio una nuova politica, che non consideri più il problema ambiente come qualcosa di separato da sè, che nulla ha da spartire con l’economia e con i massimi problemi del mondo. Una politica non subalterna all’economia e alle sue “leggi”, come oggi accade, ma che confronti ogni propria scelta con quella dimensione decisiva per la 110 stia continuità vitale che è la salvaguardia della natura. E questo certo sarebbe un nuovo ambientalismo.

LATOUCHE: Il Forum sociale europeo di Parigi-Saint-Denis non ci ha facilmente aperto le porte. Noi siamo stati esclusi dalle sedute plenarie. A Porto Alegre, dove la critica dello sviluppo era quasi assente, noi eravamo molto marginali. Ciò che sento presso la maggior parte degli “altermondialisti”, è l’idea che bisognerebbe uscire da una “cattiva crescita” per andare verso una “migliore crescita”. lo diffido delle false rotture. Il termine crescita mi sembrava definitivamente appartenere al dominio dell’economia. Non è la crescita che bisogna cambiare, ma il sistema. Rimane che il movimento “altermondialista” è molto importante, è il nostro pubblico naturale. Certo, questo movimento rappresenta una dimensione del cambiamento, ma bisogna andare più lontano. Il nostro ruolo è fornire degli elementi di riflessione, per preparare il dopodomani, quando si sarà urtato il muro. Le nostre idee avanzano, diversi gruppi Attac le hanno scritte sulla loro agenda, anche se siamo lontani da avere la sensazione di essere in fase con la direzione del movimento. La questione della decrescita non può che interrogare la sinistra, che si è sempre vantata di voler”c ambiare la vita”. Il suo dramma, che fu quello di Jospin, che è quello di Blair ed anche di Lula in Brasile, è che i suoi eletti sono là per far camminare il sistema diversamente, e non per cambiarlo.

 

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