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L’India tra rivolta contadina, nazionalismo indù e aspirazioni da grande potenza

di Alessandro
Scassellati

La rivolta dei contadini indiani

Dall’autunno 2020 l’India è scossa da un’ondata di manifestazioni di protesta organizzata dai circa 500 sindacati dei contadini ed agricoltori esistenti nel Paese. La causa scatenante del movimento di protesta è stata la rapidissima approvazione da parte del Parlamento (20 settembre), senza alcuna consultazione con i sindacati, di tre nuove leggi proposte dal governo federale che liberalizzano il mercato dei prodotti agricoli.

Il governo sostiene che le leggi introducono riforme necessarie per dare agli agricoltori maggiore autonomia sulla vendita dei loro raccolti e per spezzare i grandi monopoli. “L’obiettivo di tutte le riforme del governo è quello di rendere prosperi gli agricoltori“, ha affermato il premier Nerendra Modi.

Per i sindacati degli agricoltori, invece, con queste tre leggi il governo intende promuovere un’accelerata modernizzazione del settore agricolo, favorendo la costruzione di filiere agroalimentari verticali che saranno inevitabilmente controllate da grandi aziende commerciali ed industriali private nazionali e multinazionali. La legislazione consente agli agricoltori di stoccare e vendere i loro prodotti ovunque, comprese le grandi aziende della GDO come Walmart, non solo nei mercati all’ingrosso regolamentati dal governo (conosciuti come mandis), in cui ai coltivatori viene assicurato un prezzo minimo.

Il timore dei piccoli coltivatori (che costituiscono l’85% degli operatori del settore agricolo) è quello di veder distrutti i loro mezzi di sussistenza e di finire senza difese nelle mani delle grandi aziende private, perdendo alla fine i sostegni pubblici ai prezzi di prodotti di base (come grano e riso) che forniscono una certa stabilità al loro reddito, fissando i prezzi ai quali il governo comunque acquista una varietà di raccolti.

Alcuni giorni dopo l’approvazione delle leggi agricole, il partito politico Shiromani Akali Dal (SAD) del Punjab, uno dei più antichi alleati del partito di Modi, il Bharatiya Janata Party (BJP – Partito del Popolo Indiano), ha lasciato l’alleanza. Il presidente del SAD, Sukhbir Badal, ha detto che il partito non poteva restare a guardare mentre il BJP ha approvato “tali leggi anti-contadini e anti-Punjab“. Il Punjab, lo Stato della minoranza Sikh, è uno degli Stati maggiori produttori di cibo dell’India. Alle ultime elezioni statali del 2017 il BJP aveva vinto solo tre seggi su 117 in Punjab, e gli agricoltori che hanno protestato sperano che la sua posizione possa diminuire ulteriormente alle prossime elezioni del 2022.

Tentativi di mediazione tra governo e sindacati degli agricoltori, che hanno chiesto il ritiro delle leggi, sono falliti. Il 5 novembre, almeno un milione di agricoltori in oltre 5 mila località in 20 Stati sono scesi in piazza per manifestare contro le leggi. Nuove imponenti manifestazioni di protesta ci sono state a fine mese con una marcia nazionale su Nuova Dehli.

Il 26 novembre circa 250 milioni di persone hanno partecipato ad uno sciopero di 24 ore contro le leggi di riforma e diverse decine di migliaia di agricoltori provenienti soprattutto da Punjab e Haryana si sono accampati nella capitale, continuando la protesta ad oltranza (oltre 60 sono morti in questi mesi per freddo e malattie), mentre negli Stati orientali e occidentali, gli agricoltori hanno bloccato le strade e si sono accovacciati sui binari ferroviari, bloccando i treni dei pendolari e impedendo ai prodotti deperibili di raggiungere i mercati. La protesta si è diffusa in tutto il Paese, bloccando il funzionamento dei mercati agricoli e il sistema dei trasporti. Il ministro del Commercio Piyush Goyal ha affermato che il governo si è impegnato a raddoppiare il reddito degli agricoltori e che la “agitazione contadina in corso è stata infiltrata dalla sinistra e dai maoisti“. La verità è che Modi e il suo governo si sono trovati a dover fronteggiare la più grande resistenza popolare di massa dal 2014 e che i loro tentativi di bollare le proteste dei contadini come “antinazionali” sono falliti.

Il 12 gennaio 2021 il governo Modi ha subito una battuta d’arresto dal momento che la Corte Suprema indiana ha sospeso l’attuazione delle controverse leggi sull’agricoltura. “Il [governo] indiano deve assumersi la propria responsabilità“, ha sentenziato la Corte. “Le leggi hanno portato a uno sciopero e ora [il governo] deve risolvere lo sciopero.” Come parte della sentenza, la Corte Suprema ha ordinato la creazione di un comitato di quattro persone con il compito di articolare le istanze degli agricoltori e formulare raccomandazioni.

Gli agricoltori e i loro sindacati non hanno considerato sufficiente la decisione della Corte Suprema – avevano chiesto l’abrogazione completa delle nuove leggi agricole –, per cui in decine di migliaia hanno continuato le loro proteste, soffocando il traffico e gli affari nella capitale Nuova Delhi. La decisione della Corte aveva dato al governo Modi una via d’uscita dalla situazione di stallo negoziale, senza dover dare l’impressione di essersi piegato alle richieste degli agricoltori. Ma, il governo ha ribadito di voler andare avanti, seppure sospendendo l’applicazione delle leggi per 18 mesi, mentre gli agricoltori hanno deciso di continuare la loro protesta ad oltranza e il 26 gennaio (il giorno della festa della repubblica), nel corso di una grande manifestazione nazionale, si sono verificati scontri violenti con le forze di polizia. Centinaia di migliaia di agricoltori, molti a cavallo e a bordo di trattori, hanno sfondato le barricate della polizia intorno alla capitale e hanno occupato lo storico Forte Rosso di Delhi. Un manifestante è morto negli scontri e dozzine di poliziotti e centinaia di manifestanti sono rimasti feriti. Nei giorni successivi gli agricoltori hanno iniziato uno sciopero della fame, mentre il governo ha bloccato i servizi Internet mobili nelle diverse aree intorno a Nuova Delhi dove sono accampati gli agricoltori per “mantenere la pubblica sicurezza”.

L’impatto del CoVid-19 sull’India

Questa mobilitazione di massa contro il governo sta avvenendo durante la pandemia da CoVid-19 che, secondo i dati ufficiali, ha contagiato 11 milioni di persone (secondo Paese al modo dopo gli USA) e ne ha uccise 155 mila (quarto Paese al mondo). Ma, secondo uno studio del Council of Medical Research indiano, il 25% degli abitanti sarebbe finora infettato (33,5 milioni), con il 45-50% degli abitanti di una grande città come Nuova Dehli (oltre 20 milioni di abitanti) che sarebbe stato contagiato. Da questo punto di vista, un fattore di forza dell’India che contribuisce a spiegare la relativa bassa mortalità è che ha una popolazione molto giovane: il 50% ha meno di 25 anni e solo il 6,5% ha più di 65 anni. Inoltre, l’India realizza il 60% del totale mondiale dei vaccini. Il Serum Institute è il primo produttore al mondo di vaccini e sta producendo il vaccino anti-CoVid di Oxford/AstaZaneca e un altro sviluppato localmente. Per ora, il programma nazionale di vaccinazione ha individuato come prioritaria la vaccinazione dei circa 30 milioni di operatori della sanità pubblica e privata.

Solo circa una su 20 persone è coperta da un’assicurazione sanitaria pubblica, la spesa sanitaria individuale rappresenta circa tre quarti di tutte le spese sanitarie e una persona su quattro ricoverata in ospedale (circa 52 milioni di persone) scende sotto la soglia di povertà a causa degli elevati costi di assistenza sanitaria. Circa 50 milioni di persone soffrono di diabete, 2,8 milioni di tubercolosi (per cui circa 1.400 persone muoiono ogni giorno), mentre 54 milioni soffrono di malattie cardiovascolari, ma il sistema santario pubblico e privato non fornisce cure adeguate. Milioni di indiani trovano che gli ospedali statali locali non sono in grado di aiutarli quando sono gravemente malati perché i medici spesso non hanno competenze specialistiche, lasciando loro solo la scelta di recarsi nella capitale. Ogni giorno migliaia di persone malate, prevalentemente povere, provenienti da tutto il Paese. fanno la fila e dormono in terra o in tende fuori dai reparti ambulatoriali dell’All India Institute of Medical Science (AIIMS) in attesa di ricevere un trattamento. Il governo indiano spendeva solo l’1,5% del PIL nell’assistenza sanitaria (contro il 10,6% per la difesa militare) nel 2018, quello cinese il 3,1%. In una mossa volta a rafforzare il consenso verso il proprio governo in vista delle elezioni federali del 2019, il primo ministro Narendra Modi aveva annunciato che lo Stato sarebbe arrivato a spendere il 2,5% del PIL, fornendo un’assicurazione sanitaria a 100 milioni di famiglie povere (arrivando, quindi, a coprire circa 500 milioni di indiani) per aiutarle ad accedere a cure mediche di buona qualità a prezzi accessibili. Un sistema di assistenza privata completamente finanziato dallo Stato che provvede alla copertura di cure mediche per circa 7 mila dollari, con l’estensione a tutta la popolazione prevista del 2030.

Il peso dell’agricoltura nell’economia e società indiana

La protesta dei contadini indiani sta avvenendo in una fase storica in cui alcune commodities agricole come lo zucchero (di cui l’India è il secondo produttore mondiale con 50 milioni di piccoli agricoltori che coltivano la canna da zucchero) vivono da anni una situazione di sovrapproduzione. Nel 2018-19 la produzione indiana di zucchero è arrivata a 31,5 milioni di tonnellate, contro una domanda annuale interna di 6,5 milioni di tonnellate. L’export delle eccedenze incontra crescenti difficoltà dal momento che dal 2016 la produzione mondiale ha superato di gran lunga la domanda (anche Brasile e Indonesia, gli altri due maggiori produttori, hanno enormi eccedenze da smaltire), con conseguente discesa del prezzo e accumulo di scorte da parte degli zuccherifici (solo in India pari a 13 milioni di tonnellate, più del consumo annuale degli USA). In vista delle elezioni generali del 2019, il governo Modi aveva cercato di recuperare il consenso degli agricoltori concedendo maggiori sussidi per 10,6 miliardi di dollari a 120 milioni di loro, rivedendo il suo obiettivo di disavanzo di bilancio (dal 3,3% al 3,4%) per un secondo anno.

È bene ricordare che ancora oggi è l’agricoltura contadina che in India, come nel mondo, sopporta gran parte, circa il 70-80%, del peso di nutrire la popolazione umana. Si tratta di un’agricoltura fatta di micro-imprese individuali e familiari (il 94% ha a disposizione meno di 5 ettari) in cui il lavoro è prevalentemente svolto dal titolare, dai suoi familiari e conviventi e che coinvolge oltre 500 milioni di famiglie nel mondo, circa 3,5 miliardi di persone, con 230 milioni di famiglie in Cina e 90 milioni in India, utilizzando meno del 25% delle terre agricole e quasi nessun combustibile fossile e prodotto chimico. Questo mentre il 70% di campi coltivati, allevamenti e frutteti nel mondo viene gestito solo dall’1% delle aziende agricole, secondo le ricerche condotte da International Land Coalition, Oxfam e World Inequality Lab. Dagli anni ’80, il controllo della terra è diventato molto più concentrato sia direttamente attraverso la proprietà sia indirettamente attraverso l’agricoltura a contratto, il che si traduce in forme di agricoltura intensiva ed industriale, in monocolture più distruttive e in meno piccole aziende agricole coltivate con cura. Fenomeni che che stanno accelerando il declino della qualità del suolo, l’uso eccessivo delle risorse idriche e il ritmo della deforestazione.

Come sostiene l’attivista indiana Vandana Shiva, la difficile condizione e la resistenza delle popolazioni contadine sono un avvertimento che se non c’è la sicurezza del diritto alla terra e la sicurezza del diritto ai semi, la colonizzazione delle campagne del mondo da parte dell’agricoltura industriale e degli imperi del cibo costituisce una grande minaccia per l’esistenza umana perché rappresenta una delle principali cause del cambiamento climatico. Agricoltura industriale, imperi del cibo, GDO e oligopolio dei semi e della chimica formano un complesso industriale agricolo fortemente energivoro, spinto dalla ricerca del profitto, che ha interesse a procurarsi le materie prime ovunque nel mondo si trovino i prezzi più bassi (speculando anche sulla loro volatilità) per utilizzarle come ingredienti per varie tipologie di alimenti. Ma, noi sappiamo che per ogni prodotto ci sono grandi differenze: i 12 litri di latte di una vacca indiana che trascorre buona parte dell’anno al pascolo e i 40 litri di latte di una Frisona rinchiusa in un allevamento intensivo e alimentata con mangimi a base di cereali e soia, portano lo stesso nome e soprattutto vengono pagati lo stesso prezzo. Inoltre, poiché il più delle volte si tratta di materie prime deperibili, si deve trovare il modo di farle viaggiare in fretta e di farle durare a lungo. Ad esempio, con il latte viene adottato il sistema di “termizzarlo”, pastorizzarlo o di ridurlo in polvere per poi ricostituirlo, ma con l’aggiunta di additivi, emulsionanti, aromi e correttori, per cui il prodotto industriale finale non è certo uguale a un formaggio o a uno yogurt fatto con il latte “crudo”.

Solo il 5% delle famiglie rurali indiane possiede più di 3 ettari di terreno coltivabile, per il resto si tratta soprattutto di agricoltura di sussistenza e di famiglie senza terra che lavorano come braccianti per 3 euro al giorno. Almeno 300 mila contadini si sono suicidati tra il 1995 e il 2020, travolti dal tragico vortice di un insostenibile indebitamento determinato dalla combinazione di crolli dei prezzi dei prodotti, di tasse da pagare alle istituzioni locali e nazionali e di prestiti (in larga parte governativi) per l’acquisto di semi, pesticidi e vari altri input di produzione, oltre che espropriati delle loro terre a seguito della costruzione di mega dighe, dell’apertura di grandi miniere a cielo aperto e della realizzazione di nuove grandi aree residenziali ed industriali.

L’India è innanzitutto un’economia agricola – con il 70% della popolazione di 1 miliardo e 340 milioni che vive in aree rurali e il 60% della sua forza lavoro impegnata nel settore primario. Anche se il settore agricolo contribuisce solo per il 17,4% al PIL della nazione, ha una capacità di esportazione di prodotti come colza, soia, riso basmati e non basmati (esportato soprattutto in Africa), grano, mais, frutta, verdura, zucchero, tè, spezie, olio di ricino, olio di menta piperita, cotone, fibra di cocco e legnami. L’India è anche il più grande produttore di banane al mondo, un primato che da alcuni anni è minacciato da due malattie virulente – la Black Sigatoka, un fungo che attacca le foglie, impedendo la fotosintesi e riducendo la produzione dei frutti del 30-50%, e un altro fungo conosciuto come “fusarium” o malattia di Panama (TR4) – che hanno attaccato le piantagioni. Dopo la Cina, l’India è anche il maggior acquirente di olio di palma della Malaysia ed Indonesia che viene utilizzato soprattuto in campo alimentare (come alternativa all’olio di soia e ad altri oli vegetali).

Per sostenere il reddito della popolazione rurale, oltre al sistema dei prezzi minimi garantiti dallo Stato, il governo finanzia il National Rural Employment Guarantee Act (NREGA), un sistema di garanzia del lavoro che offre a qualsiasi cittadino dell’India rurale 100 giorni di lavoro con salari minimi (certamente bassi) nell’ambito del programma di lavori pubblici.

La maggior parte delle attività agricole si svolgono in aree dove sono frequenti le piogge monsoniche e gli allagamenti, e che quindi sono molto sensibili al cambiamento climatico. Nonostante un tasso di emissioni pro capite molto basso, l’India è il terzo Paese al mondo per emissioni di gas serra e le sue emissioni annuali sono triplicate tra il 1990 e il 2014. Nuova Delhi è una delle città più inquinate del mondo (più di Pechino e Bangkok) e ben 22 delle 30 città più inquinate al mondo sono indiane, secondo Greenpeace. Non a caso, quindi, quasi un terzo dei casi di malattie respiratorie croniche in tutto il mondo erano in India nel 2018. Il livello di inquinamento della maggior parte dei fiumi è elevatissimo. Il Gange, considerato un fiume sacro dagli hindu (Ganga Mata, madre Gange) è lungo oltre 2.500 km e attraversa l’India del nord fino al Bengala, un’area in cui vive circa il 40% della popolazione indiana. Ogni anno milioni di fedeli si immergono nelle acque del fiume per purificarsi e invece rischiano di ammalarsi. Lungo il suo percorso, infatti, raccoglie di tutto, dagli scarichi fognari ai pesticidi usati in agricoltura, ai residui tossici al cromo delle concerie di pellami (un settore che fattura 7 miliardi di dollari) e di industrie chimiche e farmaceutiche, senza nessun filtro e depurazione. La pulizia del Gange era stata uno dei pilastri della campagna elettorale di Modi nel 2014. Non appena insediato, il governo Modi aveva lanciato un programma molto ambizioso – chiamato Namami Ganga – che al costo di 3 miliardi di dollari avrebbe dovuto rendere il sacro fiume di nuovo limpido e pulito entro 5 anni. Ma, finora il programma è stato un completo fallimento e le condizioni del fiume sono diventate ormai disperate.

Il governo aveva lanciato anche il programma Power for all, un piano per fornire l’elettricità a tutte le famiglie indiane entro il 2019, puntando molto sulle energie rinnovabili (solare ed eolico), ma attualmente il grosso delle domanda è soddisfatto da vecchie centrali a carbone. Per mantenere la sua promessa di fornire energia elettrica a tutti, il governo ha deciso di raddoppiare l’utilizzo del carbone nazionale (l’India possiede tra le maggiori riserve al mondo) e di costruire 455 nuove centrali elettriche alimentate a carbone. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, l’India è diventato il secondo Paese al mondo dopo la Cina nella produzione di carbone, oltre che il principale importatore (soprattutto dall’Australia).

Nerendra Modi e il nazionalismo indù al potere

Dal maggio 2014 l’India è governata dal nazionalista e tradizionalista Narendra Modi (appartenente alla bassa casta Ghanchi, figlio di un venditore di alla stazione di Vadnagar nello Stato di Gujarat e lui stesso chaiwala, un servitore di tè) e dal suo partito Bharatiya Janata Party, creato come ala politica della Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS, Organizzazione Nazionale Patriottica), un’organizzazione paramilitare fondata nel 1925 da nazionalisti ispirati dal pensiero nazional-induista di Vinayak Damodar Savarkar (autore nel 1923 dell’opuscolo intitolato “Essentials of Hindutva“, in seguito rinominato “Hindutva: who is a hindu?“) e ammiratori del fascismo europeo.

La RSS sostiene la supremazia indù e, dopo l’indipendenza del 1947, è stata bandita tre volte per presunti legami con l’estremismo violento (la prima volta dopo l’assassinio del mahatma Gandhi del gennaio 1948 da parte di un militante del RSS, Nathuram Godse, considerato per questo un “patriota” da alcuni dei parlamentari del BJP eletti nel 2019). La RSS ha almeno 4 milioni di volontari, che giurano fedeltà e prendono parte a esercitazioni quasi militari, e controlla anche una vasta gamma di organizzazioni della società civile, conosciute collettivamente come Sangh.

Al momento dell’indipendenza, non diversamente dalla Lega Musulmana di Muhammad Ali Jinnah, il fondatore del Pakistan (la “terra dei puri”), la RSS credeva fortemente nella teoria delle due nazioni e sosteneva la creazione del Pakistan come nazione separata per i musulmani e l’India per gli indù (una separazione costata 15 milioni di morti). Al centro di questo schema cognitivo si trova la promessa di un ritorno alla grandezza del passato dell’India: spirituale, materiale e territoriale (“akhand bharat”, o “India indivisa” che comprende tutte le terre dall’Iran al Myanmar e dal Tibet allo Sri Lanka). Questi princìpi, secondo la teoria della RSS, porterebbero alla legittima preminenza e al prestigio dell’India sulla scena globale.

La RSS immagina l’India come una società principalmente indù, abbracciando un’idea di nazionalità simile al modello israeliano, con tutti i non indù – tranne Sikh, jainisti e buddisti – visti come stranieri sospetti. Musulmani, cristiani, parsi ed ebrei sono considerati estranei che possono rimanere in India solo se sono opportunamente “induizzati” e se mostrano un’adeguata deferenza verso la maggioranza indù. I musulmani sono visti con particolare sospetto, in quanto sono la più grande minoranza (il 15% della popolazione) e quella più manifestamente diversa dagli indù sul piano religioso/culturale.

Modi ha vinto le elezioni nel 2014 e nel 2019 grazie alle promesse di far diventare l’India una superpotenza globale, di riformare l’economia, eliminare la corruzione e migliorare le condizioni di vita nelle aree rurali dove vive il 70% della popolazione indiana. Modi è molto attento a presentarsi alla popolazione povera indiana come uno di loro: un uomo che si è fatto da sé (anche se ha potuto contare sul sostegno della RSS e di alcune delle persone più ricche del Paese, come Mukesh Ambani) e che ha saputo superare ostacoli messi sulla sua via da un’élite anglofona arrogante e venale che proteggeva i musulmani traditori, disprezzando al tempo stesso gli indù virtuosi come lui. Ha promesso di trasformare l’India in una superpotenza e far rientrare gli indù nella grandiosa marcia della storia.

Sono stati soprattutto gli agricoltori, i contadini e i braccianti agricoli a votare in modo schiacciante per Modi nelle elezioni generali del 2014 e del 2019. Modi aveva promesso il raddoppio dei redditi prima del 2022 e soprattutto il minimum support price (prezzo minimo di vendita dei prodotti agricoli) fissato al 150% dei costi complessivi di produzione. Da allora, invece, c’è stato un crollo dei prezzi dei prodotti agricoli (in larga parte attribuito ad uno spostamento dell’attenzione dalle sovvenzioni agricole, favorite dal Partito del Congresso, agli investimenti industriali da parte del pro-business BJP) che è andato a beneficio delle masse urbane del Paese. Ma, il crollo dei prezzi agricoli e un aumento dei costi del diesel del 40% hanno fatto crescere il malcontento nelle campagne che si era già reso visibile nel 2018 con 5 grandi manifestazioni di protesta e con la sconfitta del BJP nelle elezioni in Rajasthan, Chhattisgarh e Madhya Pradesh, Stati che rappresentano il cuore del territorio hindu.

Le elezioni nazionali del 2019 sono iniziate l’11 aprile e continuate per sei settimane. Circa 900 milioni di persone, un ottavo della popolazione mondiale, avevano diritto a votare. La loro scelta è stata guidata da questioni locali e nazionali, dalla loro casta o classe, e dalle voci e fake-news condivise online (circa 500 milioni di persone posseggono uno smartphone e l’India è il più grande mercato per Facebook e WhatsApp). Ma, soprattutto, comunque, è stato un referendum su Narendra Modi, il primo ministro più potente e polarizzante del Paese da generazioni. Modi e il BJP hanno potuto contare sul sostegno del mondo degli affari e disponevano di risorse economiche dieci volte superiori rispetto all’antagonista Partito del Congresso.

In particolare, la campagna elettorale di Modi e del BJP nel 2019 è stata incentrata su alcuni temi: combattere contro la corruzione, contro il Pakistan e il terrorismo. Dopo che un autobomba suicida ha ucciso 40 poliziotti indiani nella regione del Kashmir il 14 febbraio e aerei militari indiani hanno bombardato parti del territorio del Pakistan dove si riteneva fosse insediato il gruppo islamista ritenuto responsabile dell’attentato, la campagna elettorale di Modi si è concentrata sui temi del nazionalismo anti-islamico (“Hindus First”) e della sicurezza nazionale. Il partito BJP di Modi ha vinto 303 dei 542 seggi disponibili (altri 50 seggi sono stati vinti da partiti alleati), rispetto ai 282 conquistati nel 2014 e oltre i 272 seggi necessari per la maggioranza nella camera bassa del parlamento. La prima maggioranza consecutiva per un singolo partito dal 1984. E l’influenza del BJP si è estesa dagli Stati roccaforte del Nord persino nell’Orissa e nel West Bengala tradizionalmente di sinistra, riducendo il peso dei partiti regionali rimasti fuori dalle due maggiori coalizioni nazionali (appena 86 seggi contro i 147 del 2014).

Il principale avversario del BJP, il Partito del Congresso Nazionale, ha ottenuto 52 seggi (+12 rispetto al 2014) ed è scomparso nell’Est, mentre in 18 dei 29 Stati del Paese non ha fatto eleggere neppure un parlamentare. Il leader del partito, Rahul Gandhi, ha perso lo storico collegio di famiglia ad Amethi nell’Uttar Pradesh, lo Stato più popoloso (circa 238 milioni) e povero del Paese (insieme allo Stato di Bihar, circa 125 milioni di abitanti), anche se poi è stato eletto nel Kerala. Gandhi aveva cercato di stringere alleanze con alcuni partiti regionali (che hanno preso 39 seggi) e durante la campagna elettorale aveva sostenuto che Modi aveva passato cinque anni a minare le istituzioni libere del Paese: manipolare la Corte Suprema, intimidire i media, minare l’autonomia della banca centrale, dell’istituto nazionale di statistica e delle università, e incoraggiare la polizia a guardare dall’altra parte mentre le gang indù prendevano di mira i musulmani e altre minoranze. I leaders dei partiti di opposizione hanno detto che Modi non era riuscito a creare posti di lavoro né ad affrontare la crisi del mondo agricolo, che stava rovinando la reputazione dell’India come Paese tollerante e che aveva gestito un “Raj dei miliardari“, favorendo un gruppo di uomini d’affari più ricchi del Paese a scapito della popolazione più povera. Effettivamente, quella del lavoro è la principale preoccupazione della maggioranza degli indiani. La crescita economica indiana è sempre più focalizzata nei settori che creano meno posti di lavoro formali, molte volte meno di quanto richiesto in un Paese in cui ogni mese un milione di persone compie 18 anni. Modi avrebbe dovuto cambiarlo, promettendo nel 2014 di creare 250 milioni di posti di lavoro in un decennio, mentre nel febbraio 2019 una ricerca – che Modi ha contestato e che il suo governo ha tentato di sopprimere – ha rivelato che la disoccupazione era cresciuta fino al 6,1%, ai massimi livelli in 45 anni.

Sul piano politico uno dei poli di maggiore oposizione contro Modi e il BJP è la capitale New Dehli, una città di 20 milioni di abitanti, governata dal 2015 da Arvind Kejriwal, un ex-anarchico e un attivista anticorruzione, e dal suo partito anti establishment Aam Aadmi (AAP) che nel febbraio 2020 ha inflitto una severe sconfitta al BJP alle elezioni amministrative. L’agenda dell’AAP era incentrata su anticorruzione, assistenza sanitaria e istruzione, tutti ambiti che sono notevolmente migliorati durante la sua amministrazione. Kejriwal è molto critico nei confronti del governo BJP.

L’ascesa al potere del nazionalismo indù e la campagna anti musulmana

Nerendra Modi è stato governatore dello Stato di Gujarat (parte della cosiddetta “cow belt“, la fascia nordoccidentale dell’India, socialmente conservatrice e in gran parte di lingua hindi, la lingua nazionale utilizzata solo dal 42% della popolazione) ed è un sostenitore convinto del “sovranismo” e della supremazia culturale hindu, della cosiddetta ideologia Hindutva (termine coniato dall’attivista indipendentista V.D. Savarkar nel 1923) che si basa sul mito di un’antica epoca vedica dell’oro, un’epoca di prosperità sotto gli induisti, e che fornisce la legittimazione alla persistente realtà di casta. Una sorta di suprematismo indù politicizzato rispetto a dalit (la casta degli intoccabili, circa 200 milioni e il 17% della popolazione), musulmani (oltre 172 milioni e il 15% della popolazione), adivasi (l’eterogeneo insieme dei popoli aborigeni dell’India, circa 100 milioni), cristiani (6,2%, 36 milioni), jainisti, lingayat, buddisti, tamil e sikh che complessivamente costituiscono oltre il 42% della popolazione. Ma c’è anche un nazionalismo laico nato all’interno di una nuova, ristretta, ma agguerrita classe media cresciuta ed arricchitasi all’ombra del boom tecnologico-informatico a Bangalore degli ultimi anni.

Nel 2002, mentre Modi era il primo ministro del Gujarat, tra il febbraio e il marzo lo Stato ha assistito ad una delle sue peggiori rivolte religiose in questo secolo, quando almeno mille persone, in maggioranza musulmane, sono state massacrate, mentre 100 mila sono sfollate, per vendicare l’incendio di un treno di pellegrini indù di ritorno da Ayodhya. Modi fu accusato di non aver fatto nulla per fermare le stragi compiute casa per casa, ma lui e il suo ministro dell’Interno, Amit Shah (presidente del BJP e attuale ministro dell’Interno del governo federale), sono usciti indenni dalle indagini.

In un Paese dove, oltre alle diversità religiose e di casta, si parlano 22 lingue ufficiali e migliaia di dialetti, mentre solo circa il 40% degli indiani parla l’hindi che viene considerata la lingua nazionale, e dove le persone si identificano innanzitutto come tamil, marathis o bengalesi, e poi come indiani, i nazionalisti indù sostengono (anche riscrivendo i testi di storia studiati nelle scuole) che la loro cultura e fede religiosa sono quelle “originali” e che quelle che sono venute dopo sono culturalmente aliene. Però, la loro tesi, basata sui testi sanscriti, che gli ariani e, per estensione, la civiltà vedica e le sue pratiche religiose, sono sempre vissuti nel subcontinente indiano non è supportata dalla recente ricerca scientifica antropologica, archeologica e genetica. Gli storici accademici sono convinti, invece, che gli ariani sono arrivati come conquistatori nel bacino dell’Indo a seguito di una grande migrazione fra 4 mila e 6 mila anni fa, dopo le tribù dravidiche che oggi popolano gran parte del territorio meridionale del Paese.

Nonostante la sua abolizione dalla Costituzione del 1950, il sistema delle caste resta reale in buona parte della società indiana e sta al centro dell’ideologia Hindutva. Un sistema ideologico che divide gli hindu in 4 categorie principali: al vertice i brahmani, insegnanti e intellettuali; poi i kshatriya, re, guerrieri e governanti; i valshya, commercianti e agricoltori; e infine gli shudra, servitori e lavoratori manuali. Fuori ci sono i dalit o intoccabili. Il contatto con loro, il mangiare qualcosa che cucinano o l’uso di cose che toccano, si ritiene possa portare a impurità o perdita di casta. Il sistema prevede l’impossibilità per un membro di una casta di svolgere una mansione non prevista o sposare un membro di un’altra casta o peggio ancora un intoccabile. Il peso della povertà e della disuguaglianza è messo in modo sproporzionato sui gruppi che sono stigmatizzati sulla base della casta o dell’etnia.

L’80% degli adivasi, circa il 65% dei dalit dell’India, che guadagnano prevalentemente da vivere come salariati, e il 58% degli appartenenti alle caste più basse sono poveri – rispetto al 33% delle caste alte e il 55%, in media, della popolazione indiana. Quasi la metà di tutti gli adivasi (impegnati come raccoglitori, agricoltori di sussistenza e braccianti) – circa il 45% – vive al di sotto di una misera linea di povertà ufficiale di 816 rupie (circa 10 euro) al mese per le famiglie rurali. Milioni di adivasi rischiano anche di essere espulsi dai loro territori ancestrali a seguito di una sentenza della Corte Suprema che ha stabilito che le popolazioni indigene che vivono nelle foreste protette senza detenere un titolo legale di proprietà della terra devono spostarsi. Ma, la principale minaccia per loro sono i grandi progetti come dighe e sfruttamento minerario realizzati nei loro territori che vengono autorizzati dal governo federale (soprattutto nello Stato orientale del Jharkhand). Le foreste, la flora e la fauna selvatica, ossia le loro fonti di sostentamento, vengono distrutte, trasformando migliaia di adivasi in profughi interni.

Al tempo stesso, dalit e adivasi beneficiano di quote affermative proporzionali al peso demografico, con la garanzia di un certo numero di posti riservati nelle istituzioni scolastiche, nel pubblico impiego e nelle assemblee elettive. Una politica di discriminazione positiva sancita dalla Costituzione del 1950 che ha favorito una certa mobilità sociale, benché non si applichi al settore privato, nel quale le posizioni apicali sono saldamente nelle mani delle caste alte. Ma, molti indù di casta media e superiore sono contrari a questa politica tesa ad aiutare le caste inferiori, così come alle leggi speciali consuetudinarie che consentono ai musulmani di seguire le tradizioni islamiche quando si tratta di questioni legali familiari come il divorzio e l’eredità.

Dalla vittoria nel 2014, il BJP di Modi ha goduto di un dominio incontrastato della scena politica nazionale: una maggioranza assoluta in entrambe le Camere del Parlamento, rafforzata dal controllo delle più grandi legislature statali provinciali. Modi e il BJP (un partito con oltre 100 milioni di iscritti) hanno efficacemente mobilitato quei ceti popolari delle aree rurali particolarmente colpiti da un’alta inflazione e bassa crescita economica, ma soprattutto quegli indiani di fede hindu che da tempo si erano sentiti emarginati ed umiliati dalla corruzione, dall’affarismo e dall’autoreferenzialità dell’élite politica del Partito del Congresso (di indirizzo laico socialdemocratico) dominato dalla dinastia familiare Nehru-Gandhi dal 1947, fidelizzando un ampio segmento dell’elettorato nazionalista animato dal rancore. Nel 2014 Modi aveva ottenuto una maggioranza schiacciante (282 seggi su 543, il 52%) al Lok Sabha (la camera bassa del Parlamento dove il Congresso aveva solo 44 seggi, l’8%, nonostante il 19% dei voti), ma non aveva superato il 31% del voto popolare. Il sistema maggioritario produce questi risultati squilibrati. Ma, il Rajya Sabha (camera alta o senato) è eletto dai 36 governi statali e territoriali, dove i dalit hanno spesso un importante ruolo politico e quindi dove è necessario per Modi fare delle alleanze, non a caso il dalit Ram Nath Kovind, ex governatore dello Stato di Bihar, è stato eletto presidente della Repubblica (25 luglio 2017) grazie al sostegno del BJP, battendo la dalit Meira Kumar, ex diplomatico ed ex parlamentare, candidata del partito del Congresso.

Attualmente, il BJP, insieme a degli alleati minori, controlla 17 (su 29) Stati e territori che complessivamente comprendono quasi due terzi della popolazione indiana. Ma, la realtà è che dalla vittoria di Modi nel 2014 ci sono stati pochi cambiamenti nella vita delle persone e le strutture statali non hanno mostrato segni di miglioramento. La capacità dello Stato di fornire servizi pubblici non è stata riformata o alterata in alcun modo significativo. Modi è ancora enormemente popolare, soprattutto se confrontato con il suo più importante sfidante alle elezioni generali della primavera 2019, il presidente del partito del Congresso, Rahul Gandhi. Questa popolarità personale ha assicurato a Modi la vittoria alle elezioni e la carica di primo ministro.

Quando l’India ha conquistato l’indipendenza dal Regno Unito nel 1947, era stata fondata come democrazia laica, basata su valori universalistici e liberali, in quanto riconosceva a musulmani, sikh, cristiani e altre minoranze religiose gli stessi diritti e lo stesso status della maggioranza indù. Il mahatma Mohandas Gandhi, grande eroe del movimento d’indipendenza, era un indù praticante devoto agli ideali tradizionali della vita rurale ed artigiana, ma fu ucciso da un fanatico nazionalista indù nel 1948, perché difendeva i diritti dei musulmani dopo l’indipendenza. Dopo la morte di Gandhi il primo premier del paese, Jawaharlal Nehru (un brahmani del Kashmir con un’istruzione britannica a Harrow, Cambridge e Inns of Court a Londra, ateo e profondamente influenzato dal socialismo Fabiano), riuscì a isolare gli estremisti indù e a sfruttare la rabbia popolare per l’assassinio di Gandhi per confermare l’identità dell’India come Stato secolare e pluralista garantita dall’egemonia del partito del Congresso.

Oggi, alle professioni di laicismo e di “unità nella diversità” si è sostituito l’aperto nazionalismo indù che considera i musulmani antipatriottici (soprattuto in relazione alla questione del Kashmir) e come un periodo di occupazione straniera i tre secoli (1526-1858) in cui vaste aree del subcontinente sono state governate dalle dinastie musulmane Mughal che fecero molto per creare l’India moderna, consolidando il Paese in un’unità politica sovrana, stabilendo una tradizione secolare nella legge e nell’amministrazione e costruendo monumenti come il Taj Mahal (fatto costruire dall’imperatore Mughal Shah Jahan come tomba per l’amata moglie Mumtaz Mahal nel XVII secolo e che oggi è il monumento più iconico dell’Uttar Pradesh). I Mughal provenivano originariamente dall’Uzbekistan, ma col tempo sono diventati il simbolo del contributo dei musulmani alla storia nazionale indiana. La loro influenza duratura è evidente in alcuni dei piatti più famosi dell’India, come i biryani o il pollo Mughlai (in un curry cremoso), e le ambientazioni di alcuni dei film più amati di Bollywood, tra cui Mughal-e-Azam (1960), secondo alcune stime il film di maggior incasso nella storia indiana.

Allahabad (città di Allah), nell’Uttar Pradesh (lo Stato più popoloso, con oltre 200 milioni di abitanti, di cui il 20% sono musulmani), dove 500 mila dei 2,5 milioni di abitanti sono musulmani, è stata recentemente riportata al suo nome pre-islamico, Prayagraj (“confluenza reale”, ossia il luogo dove due fiumi sacri per gli indù – il Gange e lo Yamuna – si uniscono per dar vita a Saraswati, l’energia segreta che scorre sotto l’India, celebrata dal Kumbh Mela, la Festa del Piatto). Ma, Allahabad/Prayagraj è anche la città natale di 7 dei 15 primi ministri dell’India a cominciare dal numero uno Jawaharlal Nehru, eletto subito dopo l’indipendenza, nel 1947. Il capo ministro dell’Uttar Pradesh, Yogi Adityanath, un sacerdote bramino che milita da molti anni nel BJP, ha deciso anche il cambio dei nomi di altre città moghul: Faizabad in Ayodhya, Aligarh in Harigarh, Mughalsarai in Deen Dayal Upadhyaya (dall’identità di un ideologo del BJP che fu suo guru). Ora, i dignitari stranieri che visitano lo Stato non ricevono più i modellini del Taj Mahal come souvenir, perché “non riflettono la cultura indiana“.

Una sentenza della Corte Suprema (10 novembre 2019) ha assegnato alla comunità indù il controllo del sito religioso su cui sorgeva la moschea Babri Masjid di Ayodhya (Uttar Pradesh) costruita dai Moghul nel 1528, la cui distruzione da parte di una folla indù il 6 dicembre 1992 è stata all’origine di sanguinose rivolte in cui circa 2 mila persone, la maggior parte musulmane, sono state uccise in tutto il Paese. In teoria, la sentenza dovrebbe risolvere un conflitto che infuria da oltre 150 anni e ha aperto la strada alla costruzione sul sito di un tempio indù dedicato al dio Ram (un’icarnazione di Vishnu) – secondo gli indù il sito sarebbe il luogo di nascita di Ram 7 mila anni fa -, una proposta a lungo sostenuta dal partito nazionalista indù di Modi. I giudici hanno anche assegnato alla comunità musulmana un altro appezzamento di terra su cui poter costruire una nuova moschea. Il 5 agosto 2020 Modi ha partecipato alla cerimonia per la posa della prima pietra del nuovo tempio, sostenendo che era “l’alba di una nuova era” e che “per anni, il nostro Ram Lalla [il dio bambino Ram] ha vissuto sotto una tenda; ora risiederà in un grande tempio.” Poche settimane dopo, un tribunale speciale ha assolto tutte le figure di spicco del BJP dal loro ruolo nella demolizione della moschea di Babri da parte dei rivoltosi indù. Tutti e 32 gli imputati, compreso l’ex vice primo ministro LK Advani, tre leader del BJP e un politico in carica, sono stati prosciolti dall’acusa di incitamento alla violenza nel 1992.

Il nazionalismo indù viene cavalcato, oltre che da Modi e il suo partito, anche da santoni e leader spirituali che hanno avviato redditizie attività produttive e commerciali di prodotti e servizi ayurvedici e della tradizione indù, dando vita al fenomeno definito “The Guru Inc.”.

Il governo Modi sta cercando di creare una comunità nazionale omogenea in un Paese caratterizzato dalla diversità e che deve affrontare, oltre al contenimento dell’espansionismo cinese (che porta l’India ad essere un alleato degli USA), serie emergenze sul piano della sicurezza interna: i ribelli maosti attaccano impunemente le forze di sicurezza nell’India centrale e le milizie (Jaish-e-Mohammed, Lashkar-e-Taiba e altre minori) sostenute dal Pakistan continuano a colpire con attentati terroristici nello Jammu e Kashmir (con una popolazione di 12 milioni e comprendente tre regioni: il Jammu a maggioranza indù, il Kashmir a maggioranza musulmana, il Ladakh a maggioranza buddista), provocando la risposta militare indiana, con i rischi di escalation, mentre la rivolta ha il sostegno popolare.

Gruppi di militanti islamisti hanno combattuto le forze di sicurezza indiane nel Kashmir per 30 anni e il controllo della regione himalayana è diviso tra India e Pakistan (entrambi i Paesi sono dotati di bombe nucleari dal 1998), che sono stati in guerra tre volte – nel 1947-49, nel 1965 e nel 1971 -, e rivendicano in pieno entrambi la regione, con un’area più piccola amministrata dalla Cina. Nel Jammu e Kashmir ci sono mezzo milione di soldati indiani e dal 1990, a causa del conflitto sono morte 70 mila persone, ne sono “scomparse” migliaia, decine di migliaia sono state torturate e centinaia di migliaia di giovani sono rimasti mutilati o accecati da armi ad aria compressa usate dalle forze di sicurezza indiane per disperdere i manifestanti. Nel solo 2018 hanno perso la vita 570 persone: 260 ribelli, 160 civili e 150 militari indiani in servizio.

Pochi mesi dopo la vittoria alle elezioni del 2019, Modi e il BJP hanno deciso di imprimere una svolta, cancellando unilateralmente dalla Costituzione (gli articoli 370 e 35a aggiunti nel 1949) lo statuto di autonomia speciale del Jammu e Kashmir, dividendo lo Stato in due. In questo modo, lo Jammu e Kashmir è stato declassato da Stato a Territorio controllato dal centro, dallo Stato federale indiano, una mossa alla quale si è opposta la maggioranza musulmana (in migliaia sono stati arrestati) e che ha acuito le tensioni con il Pakistan e anche con la Cina (che nell’aprile 2020 ha trasferito soldati e potenziato un areoporto militare nella parte del Ladakh che amministra).

Cina e India hanno combattuto una guerra di confine nel 1962 e almeno 20 persone sono morte in scontri tra truppe indiane e cinesi lungo l’incerta linea di confine nella Valle di Galwan nel Ladakh (15 giugno 2020), il primo scontro fatale dal 1975 e il più grave dal 1967. Da allora, per mesi, sono continuate le provocazioni militari, le sparatorie, le accuse e contro-accuse tra le due potenze nucleari. La controversia si è estesa anche al settore tecnologico, con l’India che ha vietato centinaia di app cinesi molto popolari tra la popolazione indiana (tra cui TikTok). Inoltre, in aprile l’India ha annunciato che qualsiasi investimento diretto straniero da un Paese con cui condivide dei confini avrebbe richiesto l’approvazione del governo. Poiché Nepal, Bangladesh, Pakistan, Bhutan e Myanmar non investono in India, era chiaro che la normativa era rivolta esclusivamente alla Cina.

Solo il 10 settembre, con la mediazione della Russia, India e Cina hanno accettato una tregua per ridurre la tensione lungo la linea di confine e restaurare “pace e tranquillità” tra i due Paesi. Lo scontro tra Cina ed India avviene in una regione di importanza strategica. Sul lato cinese della valle di Galwan si trova Aksai Chin, attraverso la quale una strada chiave collega il Tibet e la provincia dello Xinjiang. Sul lato indiano, a ovest, si trova il Ladakh. Più a ovest del Ladakh si trova il Gilgit-Baltistan, amministrato dal Pakistan, attraverso il quale corre il corridoio economico Cina-Pakistan, una cintura di progetti infrastrutturali che si estende a sud fino al porto pakistano di Gwadar sull’Oceano Indiano. Gli oleodotti del corridoio economico Cina-Pakistan (3.200 km) darebbero alla Cina un accesso più sicuro al petrolio e al gas del Golfo Persico, consentendo alla Cina di aggirare via terra lo Stretto di Malacca, riducendo di oltre 10 mila chilometri e 26 giorni la distanza marittima dai pozzi petroliferi del Golfo. Con questo progetto la Cina cerca di sottrarsi al controllo della flotta militare americana che oggi sarebbe velocemente in grado di bloccare i rifornimenti energetici cinesi. L’economia pakistana è in bancarotta (con un debito estero superiore al 45% del PIL) ed è sopravvissuta al default del debito con l’ultima infusione da 6 miliardi di dollari del FMI. Viene mantenuto in vita dal flusso di denaro cinese legato agli investimenti per la Belt and Road Initiative. Oltre 60 miliardi di dollari di prestiti cinesi sono stati utilizzati per finanziare progetti di sviluppo infrastrutturale di grandi dimensioni.

Decaduto l’articolo 370, che aveva garantito il divieto di acquistare terreni per i non-kashmiri, la popolazione locale teme l’inizio di un’ondata di induizzazione della regione (d’altra parte, il Pakistan ha già “pakistanizzato” sul piano demografico la parte del Kashmir sotto il suo controllo). La brutale abolizione dello status speciale del Jammu e Kashmir è stata imposta per decreto, mentre nello Stato era stata applicata la legge marziale, i politici (anche quelli filoindiani), i maggiori uomini d’affari e gli attivisti sono stati arrestati, i turisti e i pellegrini sono stati evacuati, e tutte le linee di comunicazione con il resto del mondo sono state interrotte.

Un’altra tappa del progetto nazionalista indù di Modi e del BJP. Modi ha trasformato il Kashmir in una sorta di prigione a cielo aperto e il primo ministro pakistano, Imran Khan, ha paragonato il governo indiano ai nazisti, avvertendo che l’inazione globale sul Kashmir sarebbe equivalente al tentativo di placare Hitler con l’Accordo di Monaco del 1938. L’azione di Modi in effetti ha annullato l’accordo di Simla del 1972 con il Pakistan che prevedeva che qualsiasi revisione dello status del territorio conteso sarebbe stata decisa bilateralmente tra i due Paesi. Inoltre, l’imposizione del coprifuoco ha mandato in crisi l’economia della regione dal momento che buona parte delle mele non sono state raccolte (la melicoltura e il suo indotto danno lavoro a 3,5 milioni di persone), mentre turismo ed artigianato sono crollati. Solo il 9 gennaio 2020, la Corte Suprema indiana ha ordinato al governo di rivedere tutte le restrizioni (a cominciare dalle linee Internet) nel Kashmir entro una settimana, affermando che la sospensione indefinita dei diritti delle persone equivaleva a un abuso di potere. Ma, ad oltre un anno di distanza le linee Internet non sono state ripristinate e molte delle 10 mila persone arrestate continuano ad essere detenute.

Ai primi di novembre 2020 Imran Khan ha annunciato l’intenzione del Pakistan di dichiarare provvisoriamente il territorio del Gilgit-Baltistan la quinta provincia del Paese (per far diventare ufficialmente lo Stato la quinta provincia del Pakistan sarebbe necessario un emendamento alla costituzione). Pur governato dal Pakistan dal 1947 il Gilgit-Baltistan non ha rappresentanti nel Parlamento federale e non può portare casi alla Corte Suprema, per cui renderla una provincia provvisoria conferisce alla regione diritti costituzionali e di voto più forti, maggiore autonomia locale e maggiori poteri per la sua assemblea legislativa. L’India, che rivendica la sovranità sull’intero stato del Kashmir, ha risposto con veemenza all’annuncio di Khan, affermando di “rifiutare categoricamente” la mossa. Il ministero degli Esteri indiano ha affermato che il “cosiddetto Gilgit-Baltistan” è territorio indiano e la dichiarazione della regione come provincia pakistana è un tentativo di camuffare una “occupazione illegale e forzata” della regione.

Lo Stato centrale, occupato da un movimento ideologico ispirato dal fondamentalismo induista, per ora trionfa sulla società. Il governo Modi ha inserito dei fedelissimi laddove possibile nella struttura istituzionale indiana, dai consigli di amministrazione delle aziende statali ai posti migliori nella magistratura, nella burocrazia statale, nelle università statali e negli istituti di ricerca. Ha anche aggressivamente (con intimidazioni a singoli giornalisti), e in modo abbastanza efficace, costretto gran parte della stampa mainstream indiana ad allinearsi. L’ambizione del BJP è di trasformare il Paese, politicamente e culturalmente. Lo Stato indiano ed i suoi alleati d’affari sono diventati sempre più invischiati nell’educazione e nella promozione religiosa indù, finanziando ashram, gurukul (dove gli studenti apprendono da un guru e studiano il sanscrito) e l’educazione sacerdotale.

I nomi di luoghi islamici (dalle strade agli stadi, dalle città ai quartieri) vengono sostituiti con i nomi di eroi nazionalisti indù. Il governo di Modi ha anche aiutato a dare potere a figure come Yogi Adityanath, un estremista indù di destra islamofobo che ha detto di voler installare statue di divinità indù in ogni moschea e che nel 2017 è diventato primo ministro dell’Uttar Pradesh, lo Stato più popoloso dell’India e che elegge 80 dei 543 dei deputati del Parlamento indiano. Peggio ancora è l’atteggiamento ammiccante del governo nei confronti della violenza collettiva. Si sono verificati centinaia di casi di devastazione di luoghi di culto, minacce e aggressioni, boicottaggio sociale, campagne d’odio, sequestri di persona, omicidi tentati o riusciti di non-indù. L’obiettivo è chiaro: cancellare le tracce dei quasi mille anni in cui dinastie musulmane hanno governato ampie parti del Paese.

Nel corso del 2020, sempre nell’Uttar Pradesh la polizia ha arrestato almeno 10 uomini musulmani e interrotto cerimonie di matrimoni interreligiosi – tra musulmani e indù – in base ad una nuova legge che proibisce la cosiddetta “jihad dell’amore“, ossia le conversioni religiose forzate per matrimonio. “Love jihad” è una teoria del complotto della destra indù secondo la quale gli uomini musulmani attirano le donne indù al matrimonio per forzare la loro conversione all’Islam. Sebbene il governo centrale abbia ammesso a febbraio di non avere registrazioni ufficiali di alcun caso di questa pratica, la teoria ha guadagnato così tanto successo in India sotto il governo BJP che è stata utilizzata per giustificare la legislazione emanata in Uttar Pradesh (proposta anche in altri 4 Stati controllati dal BJP).

Molti musulmani indiani dicono di cominciare a sentirsi estranei nella loro terra. Il BJP ha approvato e proposto una serie di leggi con un’impostazione settaria, discriminatorie nei confronti dei musulmani. Una di queste – approvata l’11 dicembre 2019 – consente agli immigrati arrivati prima del 2015 dai Paesi vicini (Afghanistan, Pakistan e Bangladesh, ma non da Myanmar e Sri Lanka) di religione indù, buddista, sikh, janista, parsi e cristiane di ottenere la cittadinanza, ma esclude esplicitamente i musulmani.

Quasi 2 milioni di persone rischiano di perdere la cittadinanza e di essere espulse dall’India a seguito di un censimento speciale (Registro Nazionale di Cittadinanza – RNC) voluto dal governo nello Stato di Assam (controllato dal BJP), nel nord-est dell’India. Gli abitanti hanno dovuto dimostrare di aver vissuto nello Stato indiano prima del 24 marzo 1971, giorno che precedette la dichiarazione di indipendenza del Bangladesh dal Pakistan. Chi non ha potuto farlo è stato registrato come straniero e quindi clandestino. L’Assam confina con il Bangladesh, Paese a maggioranza musulmana, e ha 33 milioni di abitanti, con una significativa (1/3) presenza musulmana. Il governo considera i 2 milioni di persone che non si sono registrate come dei clandestini, degli immigrati bangladesi da confinare in centri di detenzione ed espellere. Il governo “non permetterà a un singolo immigrato illegale di rimanere” ha detto il presidente del BJP e attuale ministro degli interni indiano, Amit Shah, sostenendo anche che iniziative simili potrebbero essere presto realizzate nel resto del Paese. Ma, dei 2 milioni di “illegali” identificati nell’Assam, 1,5 milioni sono di religione indù e a loro verrà concessa la cittadinanza.

Se il RNC venisse esteso a tutti gli Stati (a cominciare dal Bengala Occidentale), solo i musulmani trovati senza documenti regolari dovrebbero fronteggiare la minaccia di essere dichiarati degli alieni illegali, mentre le persone di altre religioni sarebbero protette. L’approvazione della nuova legge sulla cittadinanza che discrimina i musulmani ha provocato proteste in tutto il Paese (nonostante il divieto di manifestare e il blocco di Internet) che sono state represse con brutalità dalle forze dell’ordine, provocando oltre 20 morti e centinaia di feriti, mentre oltre 1.500 persone sono state arrestate. Violenti scontri tra gruppi di musulmani ed nazionalisti indù si sono avuti a Nuova Dehli in occasione della visita di Trump (24-25 febbraio 2020): un vero e proprio progrom anti musulmano con 53 morti, oltre 200 feriti, 600 arresti e diversi quartieri devastati con incendi e distruzioni di moschee e attività commerciali. Polizia ed esercito hanno avuto l’ordine di sparare a vista e di imporre la legge marziale. Il governo Modi ha descritto le manifestazioni di protesta come forme di “sedizione“, come se fossero dei tentativi di rivesciare lo Stato. Inoltre, in base alla disposizioni di una legge per la prevenzione delle attività illegali approvata nel 2019, lo Stato può designare unilateralmente qualcuno come terrorista, il che consente il suo arresto ed incarcerazione preventiva.

Nel dicembre 2020, sempre lo Stato di Assam, governato dal partito nazionalista indù di Narendra Modi, ha approvato una legge che abolisce tutte le scuole islamiche, affermando che forniscono un’istruzione inferiore agli standard. I politici dell’opposizione hanno criticato la mossa e hanno affermato che riflette l’atteggiamento anti-musulmano del governo nel Paese a maggioranza indù. Più di 700 scuole, note come madrasas, saranno chiuse entro aprile 2021, ha detto all’assemblea locale il ministro dell’Istruzione Himanta Biswa Sarma, una stella nascente nel BJP: “Abbiamo bisogno di più medici, agenti di polizia, burocrati e insegnanti, dalla minoranza musulmana, piuttosto che imam per le moschee“.

Con l’aiuto dei media, il BJP sta assumendo straordinari poteri di controllo, dettando i criteri di alimentazione, il comportamento in pubblico e indirizzando i linciaggi di musulmani, dalit o allevatori, commercianti e consumatori di carne bovina – almeno 44 casi, con 36 musulmani uccisi, tra maggio 2015 e dicembre 2018, secondo Human Rights Watch – da parte dei “cow vigilantes” (“gau rakshaks”), milizie private che proteggono le vacche, animali considerati sacri dagli hindu (venerano Kamadhenu, la madre di tutte le mucche), secondo i quali la “mucca è la nostra madre” e purifica l’ambiente in cui si trova (in realtà, sappiamo che è il contrario, perché in un anno una mucca emette tra i 70 e i 120 kg di metano, un gas a effetto serra che contribuisce al riscaldamento globale). Nello Stato Rajasthan la macellazione delle mucche è punibile con 10 anni di carcere. Il ministro per l’istruzione superiore si è spinto a chiedere di rimuovere la teoria dell’evoluzione dai curricula scolastici perché nessuno “ha mai visto una scimmia trasformarsi in un essere umano“. Membri dell’accademia indiana respingono le scoperte di Einstein e sostengono che gli antichi indù hanno inventato la ricerca sulle cellule staminali.

Modi sta cancellando il dibattito pubblico e gli altri rituali democratici, demonizzando e isolando una parte molto ampia della popolazione – musulmani e cristiani – utilizzando metodi sempre più autoritari. Dissidenti ed attivisti, così come studenti, accademici e giornalisti che sono critici nei confronti del regime di Modi vengono regolarmente accusati di essere “anti-nazionali” e sottoposti a molestie e intimiditi.

Di recente il governo Modi aveva introdotto un provvedimento contro la macellazione dei bovini e il consumo di carne di manzo, che poi è stato sospeso dalla Corte Suprema (che sempre di recente ha cancellato il reato di omosessualità), ma provvedimenti analoghi sono in vigore in molti dei 29 Stati dell’Unione. Questo in un Paese che alleva un quinto dei bovini del mondo, è il secondo esportatore di carne al mondo dopo il Brasile (ma l’export è calato del 20% dal 2014). L’India produce anche il 13% del pellame mondiale, in gran parte per la grande industria nazionale di calzature e abbigliamento. Ci sono oltre 70 milioni di piccole aziende che allevano bovini, mentre il consumo di latte e di prodotti lattiero-caseari cresce del 4% all’anno. Le vacche da latte vivono da 12 a 15 anni, ma in genere producono latte solo per circa 7 anni, quando partoriscono dei vitelli.

Milioni di mucche diventano improduttive ogni anno e i divieti di macellazione privano gli agricoltori di una quota rilevante di reddito complessivo e portano ogni anno all’abbandono di milioni di bovini anziani, non produttivi o malati che finiscono randagi in strada o nei 5 mila ricoveri/santuari (gaushalas) sorti dal 2011 e sostenuti con denaro pubblico. Mandrie di mucche abbandonate dagli allevatori stanno causando il caos nelle campagne dell’Uttar Pradesh – uno Stato governato dal BJP che applica in modo aggressivo le leggi contro la macellazione delle mucche – perché calpestano e saccheggiano i campi coltivati, mangiando i raccolti.

La macellazione delle mucche è stata bandita per anni in circa 20 dei 29 Stati dell’India per rispetto dei sentimenti degli indù che venerano la mucca. Ma, in realtà, i funzionari raramente si preoccupavano di quello che accadeva sul terreno in villaggi remoti dove gli agricoltori indù vendevano regolarmente le loro vacche improduttive ai macellai musulmani locali. Questo commercio, sebbene tecnicamente illegale, è prosperato per anni. Ma, nel marzo 2017, il governo dell’Uttar Pradesh (dove vivono circa 40 milioni di musulmani che allevano mucche e mangiano carne) ha chiuso centinaia di quelli che ha definito macelli “illegali“, lasciando gli allevatori senza un posto che prendesse le loro mucche. Altri governi statali del BJP hanno anche chiuso le fiere del bestiame dove gli agricoltori vendevano vacche improduttive o invecchiate sia per la carne sia per la pelle.

La stretta sulle mucche sta spingendo gli agricoltori a sostituire le mucche con le bufale, che già producono la metà del latte del Paese. Tuttavia, la loro produzione di 5,2 kg di latte al giorno è di circa un quarto in meno rispetto a quella media delle vacche da latte incrociate con la razza Holstein Friesian, ed è significativamente inferiore ai 28 kg prodotti dalle vacche americane, anche se il latte di bufala ha un più alto contenuto di grassi e quindi ha un prezzo più alto del latte vaccino.

L’impegno del BJP di difendere e promuovere le “tradizioni hindu” offre protezione anche ad una cultura patriarcale maschilista che esalta l’ipermascolinità e sostiene una vera e propria “guerra contro le donne” combattuta da uomini turbati dall’apparente minaccia dell’indipendenza professionale e sessuale delle donne nell’India moderna. Le violenze di genere – dagli stupri individuali e di gruppo agli abusi domestici, dai femminicidi (infanticidi e omicidi legati alle dispute sulla dote matrimoniale o alla difesa dell’onore familiare) agli attacchi con acidi o vetriolo, dai matrimoni combinati/forzati delle bambine ai rapimenti e alla prostituzione forzata, dal controllo sull’attività sessuale e sul modo di vestire alle limitazioni delle interazioni sociali e sessuali tra i giovani – sono fenomeni ancora diffusi. Lo stupro e l’omicidio delle donne vengono utilizzati da parte di uomini appartenenti alle caste superiori come mezzi per controllare socialmente, opprimere e umiliare le comunità di basso statusdalit e adivasi – in tutta l’India, ed in particolare nell’Uttar Pradesh.

La difesa da parte del BJP delle “tradizioni hindu” che discriminano contro le donne, almeno in parte, viene contrastata dal sistema giudiziario. Un caso emblematico ha riguardato la sentenza della Corte Suprema che ha revocato il divieto secolare di accesso da parte di donne tra i 10 e i 50 anni (in età mestruale) nel tempio di Sabarimala nello Stato del Kerala, dedicato al dio Ayyappa, che è celibe e per questo potrebbe essere “tentato” dalle donne giovani. Con il sostegno del governo statale comunista, 5,5 milioni di donne hanno formato una catena umana lunga 620 km, che ha attraversato tutto il Kerala nella sua lunghezza, per dimostrare il loro sostegno all’uguaglianza di genere. Gli indù tradizionalisti e gli attivisti del BJP e del RSS hanno cercato di fermare tutti i tentativi del governo locale di far entrare nel tempio le donne devote. Hanno protestato, bloccato il traffico e inscenato dimostrazioni fuori dagli uffici governativi contro l’ingresso di due (e poi di una terza) devote 40enni protette dalla polizia. La polizia ha usato gas lacrimogeni e cannoni ad acqua per disperdere i manifestanti (molti di loro donne). Più di 3 mila manifestanti sono stati arrestati o fermati in custodia preventiva, un uomo è morto e quasi 300 persone sono state ferite tra cui oltre 100 agenti di polizia e 10 giornalisti. Persone non identificate hanno lanciato una bomba artigianale contro la casa di un politico del BJP e incendiato l’ufficio del RSS, dopo che sconosciuti avevano fatto esplodere una bomba contro la casa di un politico legato al partito comunista al governo che aveva promesso di applicare l’ordine del tribunale. Il leader del BJP in Kerala ha definito la visita “una cospirazione da parte dei governanti atei per distruggere i templi indù.” Modi ha dichiarato che il divieto era una questione di credenza religiosa male interpretata o incompresa, non di disuguaglianza di genere e ha appoggiato l’appello di BJP e RSS per una serrata in tutto il Kerala per protestare contro l’ingresso delle donne nel tempio.

Le grandi ambizioni geoeconomiche del nazionalismo indù

Modi e i nazionalisti indù sono consapevoli che si è aperta una nuova fase storica in cui verrà ridefinito un nuovo ordine mondiale in cui i grandi Paesi-continenti – oltre a USA e Unione Europea, Cina, India, Brasile, Messico, Canada, Australia – giocheranno un ruolo decisivo. Probabilmente, entro la metà del XXI secolo, ci saranno tre grandi regioni con potenza industriale e potenziale militare – Asia orientale, Nord America ed Europa – o forse, secondo le ambizioni di Modi e del BJP, quattro, includendo l’Asia meridionale, grazie alla crescita economica dell’India.

Da Modi e dai nazionalisti indù la guerra commerciale, finanziaria, tecnologica, mediatica e diplomatica degli Stati Uniti contro la Cina viene vista come una opportunità unica, essendo esplicitamente progettata per costringere le corporations multinazionali di Stati Uniti, Canada, Europa e Giappone a rimuovere dalla Cina gli anelli chiave delle loro catene globali di produzione di merci per trasferirli in Paesi a basso salario soggetti al loro controllo politico-militare, come India, Vietnam e Messico, nel tentativo di indebolire la Cina e ristabilire un’egemonia americana senza rivali sull’economia mondiale.

È in questo complesso scenario che va inquadrata l’approvazione delle tre leggi per la modernizzazione dell’agricoltura indiana che, come sostengono gli agricoltori e i loro sindacati, sono state pensate per favorire l’espulsione di forza lavoro dall’agricoltura e quindi per creare un nuovo proletariato composto da centianaia di milioni di persone (in buona parte sotto i 25 anni) che deve funzionare come fattore strategico per attrarre grandi flussi di capitale dall’estero. L’ambizione di Modi e dei suoi alleati è di far diventare l’India la nuova “fabbrica del mondo”, rimpiazzando la Cina in questo ruolo (un ruolo che comunque la Cina ha deciso di abbandonare). Un serbatoio immenso di forza lavoro se si tiene presente che ogni mese per i prossimi anni un milione di indiani compirà 18 anni. D’altra parte, secondo molti analisti, l’India è destinata a diventare il terzo mercato mondiale di consumo nel 2025, triplicando la sua dimensione (fino a 4 mila miliardi di dollari).

Negli ultimi due decenni, l’India si è trasformata da Paese del “Terzo Mondo” in un “mercato emergente” dell’economia globale in grado di poter essere una “destinaziona attrattiva di investimento” (“open for business”) per investitori e policy-makers alla continua esplorazione di nuovi territori dove poter generare valore commerciale ed estrarre surplus nell’economia globale. L’India è così stata inclusa tra i Paesi BRICS – Brasile, Russia, India e Cina e, successivamente, Sud Africa – (un acronimo inventato da Jim O’Neill, un banchiere di Goldman Sachs come “mappa della crescita” del futuro nel 2001), e nel 2016 è diventata la sesta economia al mondo (la terza più grande in Asia, anche se quella cinese è quasi 5 volte maggiore).

Il governo indiano, con la campagna “Make in India” che dal 2020 è stata riconfezionata come Atmanirbhar Bharat (“India autosufficiente”), aspira ad incrementare il contributo del settore industriale (compreso quello della produzioni di armamenti) al PIL dal 17% al 25% entro il 2025, creando 100 milioni di posti di lavoro e trasformando l’India “into a global design and manufacturing hub”.

Se l’India avesse una burocrazia esperta e qualificata (cosa che non ha) potrebbe cercare di applicare una variante delle strategie di sviluppo economico seguite durante la Guerra Fredda dagli “Stati sviluppisti” (“developmental States” o “State-guided market capitalisms”) asiatici di successo – come Giappone, Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan e Singapore (e successivamente anche Cina) – fondate su un ruolo centrale degli Stati che, sotto leadership autoritarie, hanno portato avanti progetti nazionali di sviluppo rispettando solo formalmente (o ignorando del tutto) le regole democratiche e dello Stato di diritto. Il regime dittatoriale di Park Chung-hee in Corea del Sud ha brutalmente torturato migliaia di persone e ne ha uccise molte negli anni ’60 e ’70, mentre a Taiwan la legge marziale è stata eliminata solo nel 1987. Corea del Sud e Taiwan hanno operato una transizione verso la democrazia liberale solo a partire dagli anni ’80 del secolo scorso.

Gli “Stati sviluppisti” hanno deciso e pianificato le priorità e commissionato la realizzazione delle attività economiche a delle imprese private. Un modello che ha evitato i difetti del sistema economico del “comunismo reale” sovietico che aveva messo la proprietà e il controllo dei mezzi di produzione nelle mani dello Stato. I privati investivano in attività produttive, mentre i governi intervenivano per aiutarli a costruirsi un vantaggio competitivo, favorendo al contempo la stabilità sociale attraverso riforme fondiarie, politiche per l’istruzione, per l’innovazione tecnologica e per contenere le disuguaglianze. Per ovviare ai “fallimenti del mercato” che precludono l’emergere di produttori nazionali in settori sofisticati nelle fasi iniziali, al di là del vantaggio comparativo iniziale, gli “Stati sviluppisti” avevano assunto un ruolo centrale nella definizione di politiche industriali e finanziarie basate sul protezionismo commerciale, sovvenzioni, un’allocazione selettiva del credito e una gestione distorta dei tassi d’interesse, finalizzate ad incanalare capitali finanziari a buon mercato verso “campioni nazionali” in grado di perseguire strategie aggressive di crescita basate prima su modelli di import substitution (anni ’60-’70) e poi su export-push strategies di prodotti industriali sempre più sofisticati verso i mercati americani, asiatici ed europei.

Già oggi l’India è il sesto produttore mondiale di automobili (3,8 milioni nel 2019), prodotte localmente da global corporations – Ford, Suzuki, Toyota, Honda, Hyundai, Volkswagen, BMW, General Motors, Mercedes Benz, Mitsubishi, Renault, Audi, Nissan e Škoda – e da imprese locali come Maruti Suzuki, Tata Motors, Mahindra, Hindustan Motors, e Premier Automobile che, direttamente o indirettamente, danno lavoro a circa 19 milioni di persone e generano il 7% del PIL. Secondo il governo, il settore automobilistico ha un ruolo chiave da svolgere nella strategia per la crescita economica. L'”Automotive Mission Plan 2026“, una visione congiunta del governo e dei produttori di automobili presenti nel Paese, punta a far diventare l’industria automobilistica una delle prime tre al mondo, a contribuire al 12% del PIL, a rappresentare il 40% del settore manifatturiero e a generare 65 milioni di posti di lavoro entro il 2026.

Strategie e progetti ambiziosi che rischiano di arrivare fuori tempo massimo, dal momento che nell’immediato futuro l’automazione condizionerà molto la possibilità di espandere l’occupazione industriale. L’ILO prevede che il 56% dei lavoratori nei principali centri produttivi dell’Asia meridionale in India, Thailandia, Cambogia, Indonesia, Filippine e Vietnam potrebbero perdere il lavoro nei prossimi due decenni a causa dell’automazione. Inoltre, si tratta di progetti che per essere realizzati richiedono una adeguata tutela degli investimenti realizzati attraverso l’introduzione o l’innalzamento di tariffe protezionistiche, per le quali l’India rischia di scontrarsi con USA e altri Paesi, e per questo per ora è rimasta fuori dai grandi accordi commerciali free trade come il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP) a guida giapponese e il Reciprocal Access Agreement (RAA) a guida cinese. Rimane a far parte, però, della Shanghai Cooperation Organization, un’organizzazione politica, economica e di sicurezza nata nel 2001 che ha l’ambizione di diventare un modello per la costruzione di un nuovo tipo di relazioni internazionali caratterizzato da “nessuna alleanza, nessun conflitto e nessuna mossa contro alcun Paese terzo” e di cui fanno parte, oltre alla Cina, Russia, India, Pakistan, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan e Uzbekistan, mentre l’Iran partecipa come osservatore.

L’India ha risentito pesantemente degli effetti della recessione pandemica globale. Ha interrotto il ritmo della sua crescita economica (che era stata prevista al 5% per il 2020), mentre la produzione della sua industria tessile, un enorme datore di lavoro e una volta grande esportatore, è stata tagliata della metà, generando licenziamenti e una disperazione diffusa. La pandemia da CoVid-19 e i conseguenti lockdowns in tutto il mondo hanno significato che in Europa e in Nord America gli acquirenti sono rimasti a casa, i rivenditori hanno chiuso i negozi e miliardi di dollari di ordini sono stati annullati. Migliaia di fabbriche sono andate in rovina e molte hanno chiuso temporaneamente o definitivamente.

L’India non è ancora veramente parte delle catene globali del valore e le prime cinque voci dell’export indiano sono petrolio raffinato, diamanti, gioielleria, medicinali confezionati e automobili.

Quasi il 90% del miliardo e 340 milioni di abitanti non ha livelli di vita accettabili e non è coinvolto nel sistema economico formale. L’India ha una forza lavoro di oltre 520 milioni, di cui solo il 6-7% è impiegato in imprese formali, di cui appena il 2% è sindacalizzato. La maggior parte della sindacalizzazione è limitata ai dipendenti del settore pubblico, con pochissimi casi in cui un sindacato formale è attivo nel settore privato o nel settore informale. Nell’ultima indagine sull’occupazione e la disoccupazione condotta dal governo nel 2012, si stimava che oltre il 62% degli occupati fossero lavoratori salariati giornalieri, rendendo la loro fonte di reddito stagionale e molto vulnerabile alle oscillazioni del mercato.

Questa situazione non è cambiata negli ultimi anni, ma è cambiata la natura stessa del lavoro nel settore informale. Contadini e lavoratori agricoli colpiti dalla crisi agraria che affligge l’India rurale dalla metà degli anni ’90, sono diventati migranti in cerca di lavoro nei grandi centri urbani. Secondo l’ultimo censimento condotto nel 2011, oltre 450 milioni di indiani erano immigrati in altre regioni, di solito nelle aree urbane, e rappresentavano il 37% della popolazione. Molti di loro emigrano per lavorare solo per brevi periodi di tempo e sono molto vulnerabili allo sfruttamento. L’India ha uno dei più bassi salari medi al mondo. Nel 2018, la retribuzione media mensile è stata stimata intorno a 100 dollari americani nel settore formale e in 64 dollari in quello informale. Nel gennaio 2019, milioni di lavoratori hanno partecipato ad uno sciopero generale (il terzo da quando Narendra Modi era arrivato al potere nel maggio 2014) che ha bloccato il Paese per due giorni. Lo sciopero è stato organizzato da 10 sindacati per protestare contro le politiche del governo e per più alti salari e migliori condizioni di vita.

Contrariamente alle dichiarazioni ufficiali sui livelli di povertà in rapido declino, il 41,3% della popolazione indiana vive in povertà e, allo stesso tempo, un gruppo elitario di 57 dinastie imprenditoriali miliardarie possiede la stessa ricchezza del 70% più povero della popolazione. Una ristretta classe media (circa 30 milioni di persone) vive raggruppata in alcuni quartieri nelle sette grandi aree metropolitane (Mumbai, New Delhi, Bangalore, Chennai, Pune Hyderabad e Calcutta), appartiene prevalentemente alle caste superiori, è istruita, ma è anche sempre più occidentalizzata dal punto di vista dei consumi e degli stili di vita, parla inglese (angloindiani e indoanglici) e manda i propri figli a studiare nelle università inglesi e americane.

Il primo esempio dell’autoritarismo autoreferenziale del governo Modi è stato il cambio delle banconote. Dalla sera alla mattina, a fine 2016, il governo Modi ha messo fuori corso le banconote da 500 e 1.000 rupie (circa 6,5 e 13 euro), imponendo tutta una serie di restrizioni per poterle convertire in banconote di nuovo corso. Il provvedimento è stato realizzato per combattere la corruzione, l’evasione fiscale, il denaro sporco e il mercato nero della valuta, ma ha determinato il caos per mesi (le banche non sono state approvvigionate in modo adeguato con le banconote di nuovo conio), colpendo duramente la popolazione più povera, senza peraltro raggiungere gli obiettivi enunciati, dato che il 99% dei circa 200 miliardi di euro in vecchie banconote in circolazione è stato convertito nelle nuove (a quanto pare, i ricchi, i corrotti e i criminali hanno evitato di dover dichiarare la loro identità al fisco vendendo le banconote a prezzi scontati a degli intermediari che poi hanno mandato gente comune a depositarle o a cambiarle in banca).

Secondo la Banca Mondiale circa 300 milioni di persone non hanno accesso all’elettricità e più di 800 milioni di famiglie per cucinare continuano a usare combustibili ricavati da letame e biomasse ad alte emissioni di CO2 (anche se il governo ha connesso 72 milioni di famiglie povere alla rete del gas da cucina tra il 2014 e il 2019), mentre altri 250 milioni di persone devono affrontare le interruzioni di corrente elettrica, disponibile per tre ore al giorno. Circa 600 milioni di poveri sono costretti alla defecazione pubblica (il governo ha fatto produrre 90 milioni di cessi portatili, molti dei quali sono finiti subito in disuso). L’India ha un tasso di mortalità infantile più alto, anni di istruzione media più brevi e un tasso di alfabetizzazione inferiore per le donne rispetto a Bangladesh, Nepal, Pakistan e Sri Lanka. Ciò è dovuto innanzitutto al fatto che molto poco del PIL del Paese viene investito nell’espansione delle infrastrutture sociali. Il principale partito di opposizione – il Partito del Congresso – aveva dichiarato che avrebbe attuato una variante del reddito di base universale (UBI) destinato ai poveri se avesse vinto le elezioni nazionali del 2019. Una promessa elettorale che avrebbe dovuto generare molto entusiasmo e diventare anche un punto di svolta per il Congresso, ma che non ha funzionato perché non è stata fornita alcuna indicazione credibile di come sarebbero stati trovati i soldi necessari. Gli elettori hanno capito che era solo una promessa elettorale che sarebbe stata dimenticata la mattina dopo le elezioni.

Con la diffusione della pandemia CoVid-19 il governo Modi ha imposto nel giro di poche ore – senza preavviso e senza pianificazione – a 1,3 miliardi di indiani di restare chiusi nelle case per 21 giorni a partire dal 25 marzo. Una misura catastrofica per gli oltre 120 milioni di lavoratori migranti poveri che vivevano di giorno in giorno: autisti, camerieri, autisti con risciò, falegnami, elettricisti, idraulici, muratori, artigiani e venditori ambulanti che vendono lenticchie o verdure per sfamare le loro famiglie con i guadagni della giornata. Erano senza risparmi, riserve, congelatori ben forniti e milioni erano anche senza una casa. Dopo l’annuncio del blocco si è assistito ad un esodo a piedi e in autobus di milioni di lavoratori migranti e delle loro famiglie dalle grandi città nel tentativo di raggiungere i villaggi rurali di origine per cercare di salvarsi da una morte certa per fame. In molti hanno trovato i confini degli Stati chiusi e sono dovuti tornare indietro. Coloro che sono rimasti sono finiti confinati in campi e rifugi governativi.

Il governo ha simultaneamente chiuso sia la domanda sia l’offerta senza alcuna pianificazione, senza una rete di sicurezza e senza consentire alla gente di prepararsi. ONG e associazioni di cittadini sono intervenute per fornire cibo, mascherine e altri aiuti a milioni di persone. Nei mesi successivi, l’India ha avuto la più rapida crescita al mondo della pandemia, con quasi 100 mila nuove infezioni segnalate ogni giorno. Il suo PIL si è contratto di quasi un quarto. A settembre 2020, il Paese aveva un terzo dei nuovi casi di CoVid-19 nel mondo e sembrava aver sottostimato la prevalenza della malattia. La demografia giovanile dell’India ha contribuito a mantenere basso il tasso di mortalità, tuttavia, il bilancio in numeri assoluti delle vittime del coronavirus nel Paese è stato superato solo dagli Stati Uniti.

Sempre durante il lockdown per la pandemia il governo Modi ha fatto approvare rapidamente dal Parlamento (dove l’opposizione è in larga minoranza) delle riforme del mercato lavoro che hanno ulteriormente indebolito i diritti dei lavoratori sia nel settore formale sia in quello informale. I lavoratori non solo possono essere assunti e licenziati più facilmente, ma anche il loro diritto di scioperare è stato limitato. Queste leggi favorevoli al mercato hanno colpito soprattutto i lavoratori migranti e i salariati giornalieri che costituiscono circa il 90% della forza lavoro indiana. Hanno ridotto il potere contrattuale di questo gruppo vulnerabile, poiché i datori di lavoro possono ridefinire i modelli di business con orari di lavoro più lunghi.

Un peso rilevante nell’economia indiana hanno le rimesse degli emigranti. Solo nell’area del Golfo i cittadini indiani erano 8,5 milioni quando nella primavera 2020 si è diffuso il CoVid-19 e il governo indiano ne ha reimpatriati su aerei e navi militari quasi mezzo milione che avevano perso il lavoro, e quindi il permesso di soggiorno, ma non avevano i soldi per pagarsi il viaggio di rientro in India. Secondo la Banca Mondiale, le rimesse degli emigrati all’estero dello Stato indiano del Kerala ammontano a 12,6 miliardi di dollari all’anno e alimentano un tasso di crescita economica di oltre l’11%.

Oltre la metà degli ingegneri che lavorano nella ricerca e sviluppo a Google, Facebook, Amazon, Apple, Twitter e Microsoft con un salario medio iniziale di circa 160 mila dollari all’anno, vengono dall’estero, da India e Cina soprattutto e sempre più anche da Paesi europei (Francia e Italia, in particolare). Satya Nadella, CEO di Microsoft dal 2014 e assunto nel 1994, Sundar Pichai, CEO di Google dal 2015 e assunto nel 2004, e Arvind Krishna, CEO di IBM e assunto dal 1990, sono i tre casi di maggior successo di una generazione di informatici indiani capace di scalare la piramide della Silicon Valley a compimento di un cursus honorum agognato da milioni di giovani del subcontinente. Oggi, seppure in lieve flessione, gli studenti indiani iscritti nelle università americane sono quasi 190 mila all’anno e quelli cinesi sono più di 350 mila – quasi uno studente straniero su tre. “L’immigrazione ha contribuito immensamente al successo economico dell’America, rendendo questa un leader globale nella tecnologia e anche Google la società che è oggi“, ha dichiarato Pichai manifestando tutto il suo scontento per la decisione di Trump di congelare la concessione di green cards e visti temporanei per lavoro (compresi i visti H-1B e L, che consentivano ai datori di lavoro di assumere lavoratori stranieri con competenze specializzate e managers) con l’obiettivo di preservare posti di lavoro per gli americani durante la crisi economica scatenata dalla pandemia di coronavirus.

Le ambizioni geopolitiche indiane in un quadrante dominato dal confronto tra Cina e Stati Uniti

Le ambizioni di far diventare l’India la nuova “fabbrica del mondo” si combinano con quelle geopolitiche di far diventare l’India un alleato (più o meno) fedele degli USA e dei suoi alleati nel confronto con la Cina.

L’amministrazione Obama aveva deciso di affrontare la “questione cinese” non attraverso uno scontro diretto, ma con la Trans Pacific Partnership (TPP), il trattato commerciale neoliberista voluto come piattaforma economica della sua “Asian pivot strategy” (il riorientamento strategico verso l’Asia), da realizzarsi insieme a Canada, Australia e Giappone, come contrappeso e cordone di sicurezza per contenere l’espansionismo economico della Cina, che ne era stata esclusa. Il TPP, infatti, era stato firmato il 4 febbraio 2016 da 12 Paesi (sui 21 dell’area Asia-Pacifico): Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam e USA. Economie che coprono il 40% del PIL mondiale e che fanno parte di un corridoio marittimo da cui transita il 50% del flusso commerciale mondiale e il 60% dell’export USA, con oltre tre miliardi di abitanti (più del 40% della popolazione mondiale, ma nel 2025 sarà il 61%, in gran parte in Cina e India) e il 54% del PIL globale.

Il trattato a 12 non è mai entrato in vigore: diversi Paesi non l’hanno ratificato. Il Congresso USA, controllato dai repubblicani, l’ha bloccato fin dall’inizio, e poi Trump lo ha definitivamente affossato. L’obiettivo del TPP era costruire un sistema “decinesizzato”, dettando gli standard sulla sicurezza delle produzioni, le regole sul lavoro, sulla compatibilità ambientale, sull’e-commerce. Nel novembre 2017, il Giappone ha recuperato i resti del TPP, creando un accordo di libero scambio, il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), a 11 che comprende tutti gli Stati che avevano negoziato l’accordo TPP tranne gli USA (in vigore dal 30 dicembre 2018).

Inoltre, il Giappone, insieme all’India, da qualche anno ha lanciato un piano infrastrutturale (la strategia “Free and Open Indo-Pacific” – FOIP) da 200 miliardi di dollari per sviluppare centrali elettriche, ferrovie e strutture portuali in Sri Lanka, Bangladesh, Myanmar e nelle isole dell’Oceano Indiano. In Bangladesh, la costruzione di un porto in acque profonde a Matarbari (nel Golfo del Bengala orientale) per un valore di 4,6 miliardi di dollari, prevede anche la realizzazione di 4 centrali a carbone, di una stazione di transito per il gas naturale liquefatto, e di un corridoio industriale completo di autostrade e ferrovie. Il FOIP è un piano teso a promuovere un “Corridoio della crescita Asia-Africa” e a contrastare l’espansionismo economico e politico della Cina. Anche l’Australia, in funzione anti-cinese, ha deciso di offrire ai Paesi del Pacifico oltre 2 miliardi di dollari di sovvenzioni e prestiti a basso costo per costruire infrastrutture. Stati Uniti, Giappone, Australia e Nuova Zelanda hanno annunciato un piano da 1,7 miliardi di dollari per fornire elettricità e internet a gran parte della Papua Nuova Guinea entro il 2030, come primo passo di un piano che contrasterà il BRI cinese nella regione.

Trump ha posto il veto al TPP, ha abbandonato la “Asia-Pacific rebalancing strategy” adottata da Obama nel 2011 e in alternativa ha parlato di costruire una vaga (in assenza di un progetto di sviluppo economico multilaterale in grado contrastare quello cinese della Belt and Road Initiative) “regione Indo-Pacifica libera e aperta”, come strumento (“operational construct“) per una politica di “contenimento” della Cina (considerando, ad esempio, che l’80% del petrolio importato dalla Cina passa attraverso l’Oceano Indiano e lo Stretto di Malacca prima di raggiungere il Mar Cinese Meridionale). Per questo è stato annunciato un piano ambizioso per espandere la Marina degli Stati Uniti con una gamma di navi, sottomarini e aerei senza pilota e autonomi entro il 2045.

Una strategia che dovrebbe fare perno sul Quadrilateral Security Dialogue (QUAD), nato nel 2007 e rilanciato dal 2017. Il QUAD dovrebbe fare leva, oltre che sugli USA, sul Giappone (dove è stanziata la settima flotta della US Navy, comprendente 70-80 navi, 140 aerei e 40 mila militari), su Australia e India. Nel novembre 2020, Australia e Giappone hanno raggiunto un accordo difensivo – il Reciprocal Access Agreement (RAA) – che stabilisce un quadro giuridico per cooperazione, addestramento e operazioni militari congiunte. L’accordo consente la presenza di truppe australiane sul territorio giapponese, prerogativa finora consentita, in base al trattato del 1960, solo agli Stati Uniti.

L’India è stato in passato un Paese “non allineato”, ma dal 2013 è divenuto il maggiore acquirente di armi americane e ha comprato anche i caccia francesi Rafale, oltre al sistema antiareo S-400 per 5 miliardi di dollari e a 1.770 tank T-14 per 4,5 miliardi dalla Russia. L’India è ora il quinto Paese al mondo per spesa militare (circa 64 miliardi di dollari nel 2017). Un accordo militare firmato a fine ottobre 2020 ha dato l’accesso all’India a dati avanzati di mappe e satelliti americani per una migliore precisione dei suoi missili e droni.

A Paesi del QUAD, si aggiungono Corea del Sud, Filippine (ma Duterte per ora ha deciso di avvicinarsi alla Cina), Gran Bretagna e Francia (che ha territori d’oltremare in Oceania – Wallis-et-Futuma, Nuova Caledonia, Polinesia francese – e nell’Oceano Indiano – la Réunion e Mayotte – con 1,6 milioni di cittadini) che mandano proprie navi a partecipare a manovre militari congiunte.

Trasformare il QUAD in una sorta di “NATO Indo-Pacifica” sarà difficile, se non addirittura improbabile: in Giappone c’è il vincolo costituzionale pacifista (articolo 9) che impedisce un riarmo, per cui il Paese ha solo delle “forze di autodifesa” (seppure dotate di sistemi militari tecnologicamente sofisticati, grazie ad un budget annuale di circa 50 miliardi di dollari); l’Australia può offrire solo uno scarso supporto in termini di cooperazione militare; l’India ha forze armate pletoriche inefficienti e compra armi da Paesi diversi, compresa la Russia; gli USA sono ambigui riguardo alla possibilità di un loro effettivo intervento militare nel caso, ad esempio, di una aggressione militare da parte di Pechino a Taiwan. Certo, i Paesi Quad condividono preoccupazioni comuni sulla Cina e sul suo comportamento assertivo. Tutti ritengono strategica la libertà di navigazione negli oceani Pacifico e Indiano che è finora stata garantita dagli Stati Uniti. Tutti vogliono evitare un futuro in cui la Cina diventi l’attore dominante nella regione indo-pacifica. Ma, non condividono una ricetta su cosa dovrebbe essere fatto per contenerla. Né India né Australia né Giappone vogliono infastidire la Cina senza una buona ragione. Tutti si preoccupano dei rischi di eventuali risposte della diplomazia cinese. Australia e Giappone, in particolare, hanno importanti legami economici da preservare che portano questi due Paesi a non considerare la Cina come un “concorrente strategico” come invece fanno gli USA. Importanti relazioni economiche con la Cina hanno anche Corea del Sud, Vietnam (Paese governato da un Partito Comunista) e Nuova Zelanda.

Al tentativo di accerchiamento militare orchestrato dagli USA, la Cina risponde con aperture di cooperazione economica verso l’India (con la quale si sono aperte delle dispute confinarie nel Ladakh nel 2020, dopo quella del 1962 durata poco più di un mese con un bilancio di 2 mila morti e quella subito sedata del 2017 nel Doklam) e il Giappone (i giapponesi hanno nella Cina un quinto del loro export ed in quarto del loro import), e modernizzando la propria struttura militare, dando priorità alla marina (attualmente è in costruzione la terza portaerei). Inoltre, la Cina è coinvolta in una serie di dispute sui confini con i Paesi vicini (oltre che con Taiwan e India, con Indonesia, Filippine, Vietnam, Malaysia, Brunei e Giappone) e negli ultimi anni ha esteso il suo territorio alle isole di Paracelso (in cinese le isole Xisha, un arcipelago composto da 103 isolotti) e accelerato la militarizzazione del Mar Cinese Meridionale ed Orientale, acquistando più di 1.300 ettari di terra attraverso la cementificazione di barriere coralline e affioramenti su cui ha costruito piste di atterraggio, porti e hangar militari. In Cambogia – un Paese che ha accettato più di 600 milioni di dollari di prestiti nell’ambito della Belt and Road Initiative e dove la Cina ha anche impegnato quasi 2 miliardi per costruire strade e ponti e fornito aiuti per altri 150 milioni – il governo ha concesso di recente alla Cina di utilizzare come base navale militare un porto costruito da imprese cinesi nel Golfo della Thailandia.

Il veto USA sul TPP ha consentito alla Cina di colmare il vuoto economico rimasto aperto e di rilanciare il confronto tra i Paesi dell’Asia-Pacifico, arrivando alla firma, dopo 8 anni di trattative, della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), uno schema free trade (che non copre però il settore dei servizi) al quale partecipano 15 Paesi, i 10 dell’ASEAN (Singapore, Filippine, Thailandia, Vietnam, Myanmar, Laos, Cambogia, Indonesia, Brunei, Malaysia) oltre a Cina, Giappone, Corea del Sud, Nuova Zelanda e Australia, e forse in futuro anche l’India (che si è tirata indietro all’ultimo momento), escludendo gli USA (15 novembre 2020). Il RCEP rappresenta il più grande blocco di libero scambio del mondo con il 30% dell’economia globale e il 30% della popolazione mondiale (2,2 miliardi di consumatori).

La posizione di preminenza economico-politica degli USA nell’area è ormai apertamente minacciata dal “socialismo di mercato” cinese, soprattutto in Paesi asiatici come Singapore, Malaysia, Indonesia, Filippine, Cambogia e Vietnam (ma anche India), fortemente interessati ai crescenti flussi commerciali e di investimento finanziario ed industriale cinese. Se nel 2019 gli USA assorbivano circa il 18% dei beni cinesi, l’Eurozona il 15%, il Giappone meno del 6%, il 34% aveva come sbocco il bacino delle nazioni asiatiche di nuova industrializzazione. Il RCEP dovrebbe aiutare Pechino a ridurre la sua dipendenza da mercati, filiere produttive di fornitura e tecnologie occidentali. Si tratta di un accordo che consente di definire regole commerciali e standard tecnici, ma con regole molto lasche sull’origine dei componenti dei prodotti (incoraggiando la dispersione territoriale delle value chains) e senza clausole sui sussidi di Stato, protezione ambientale, proprietà intellettuale e diritti del lavoro, tutti vincoli del sistema multilaterale non graditi alla Cina.

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