Pubblichiamo questo contributo di Roberto Musacchio per la giornata organizzata a Roma dal comitato per i 100 anni dalla nascita di Lucio Libertini –
Il mio contributo a questo importante lavoro sulla memoria e l’attualità di Lucio Libertini lo svolgo avvalendomi di due libri che riportano i materiali di due eventi collettivi.
Il primo è un volume, “Casa, un problema per la sinistra”, uscito nel 1980 e che contiene gli interventi al convegno nazionale di analogo titolo svoltosi il 17/18 novembre 1979 a Roma per iniziativa del Pdup di cui ero responsabile casa nell’ambito di quelle che chiamavamo “lotte sociali”. Diciamo le lotte di territorio che non erano quelle di lavoro o di scuola anche se potevano incontrarle.
Infatti il quadro riformatore sulla casa era stato spinto anche e molto dallo sciopero generale dedicatogli dai sindacati il 19 novembre del 1969.
I principi della casa come diritto, di una politica pubblica per garantirlo, della lotta alle rendite con l’uso pubblico dei suoli e dell’equo canone per affitti equi, erano al centro della mobilitazione che ebbe uno straordinario successo e aprì la stagione delle riforme.
In un ambito, quello dell’uso dei suoli, in cui si annidano rendite e poteri vecchi e nuovi che resistono in ogni modo alle riforme, per impedirle, sabotarle, impostare nuove moderne strategie favorevoli a loro.
Un blocco di interessi che pesa da sempre come un macigno sulla stessa politica italiana.
In un Paese in cui la rendita agraria si è trasformata in fondiaria.
Le cementificazioni correranno a ritmi che si confermano anche oggi senza pari in Europa, a partire per altro dalla parte “ricca” del Paese stesso (la Lombardia ha il quadruplo di superficie cementificata della media europea).
L’edilizia popolare di contro è ai minimi europei, nonostante sia stata finanziata anche direttamente dai lavoratori con trattenute sulle loro paghe.
E c’è il “fenomeno” scandaloso delle case senza gente (sfitte) e della gente senza casa.
I processi migratori della industrializzazione impetuosa ma non regolata crearono enormi problemi urbani ma anche enormi occasioni di profitto.
Le città, dal dopoguerra agli anni ’60, divennero il luogo simbolo di una modernizzazione senza riforme che caratterizza il Paese.
Tra speculazione e baraccopoli.
Si parlerà di un vero e proprio esercito della speculazione edilizia con al centro la grande rendita ma sostenuto da fanterie di interessi anche piccoli.
Per fortuna le mobilitazioni erano cresciute, operaie ed urbane, dei senza casa, o di chi vive in condizioni inumane, sovraffollate, malsane.
E in più cresceva una cultura urbanistica di prim’ordine.
Il “caso italiano”, come fu chiamato allora, è stato anche questo, una straordinaria partecipazione popolare e organizzata che legava ceti deboli e intellettuali, dava vita ad organizzazioni tematiche che hanno però una visione generale; penso ai sindacati degli inquilini ed assegnatari ma a organismi come l’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU) che vedrà germogliare una straordinaria cultura specialistica e democratica volta al rapporto con i soggetti sociali e le istituzioni.
E penso ad Italia Nostra che anticipava le organizzazioni ambientaliste che poi saranno protagoniste.
Penso a nomi come Antonio Cederna che denunciò il sacco del nostro Paese.
Ma anche a film come “Le mani sulla città” che denunciavano gli incroci tra speculazione e poteri anche pubblici.
E un partito come il PCI viveva nel rapporto con tutto ciò.
Negli anni che avviano il primo centrosinistra si misurava già la durezza dello scontro e si cominciavano ad infrangere tentativi riformisti come quelli di Fiorentino Sullo, ministro dei lavori pubblici nel primo governo Fanfani con dentro PSDI e Pri e ad astensione socialista, nel 1962, che provava, e non riusciva, a fare la prima riforma del regime dei suoli, cioè il chi comanda e a che fine sull’uso dei territori.
Segno di come e quanto il vecchio blocco della rendita agraria, legato anche alle aristocrazie, che tanto aveva influito nel passato stesse transitando nel “moderno” blocco fondiario urbano.
Era il 1964, con i socialisti ormai entrati al governo, quando si arrivò a parlare addirittura, lo fece Pietro Nenni, di “tintinnar di sciabole” per dire di trame reazionarie che si opponevano alle riforme.
Mano mano, procedendo verso il ’68/’69, la spinta si fece poderosa e di massa, nelle fabbriche e sui territori, con scioperi e nuove lotte urbane e il quadro di riforma prenderà luce intorno agli anni della “solidarietà” nazionale.
Equo canone, regime dei suoli, piano decennale per l’edilizia.
Della solidarietà nazionale questo quadro riformatore rappresenterà uno dei terreni più evidenti ed importanti di scontro concentrando su una parte fondamentale della vita delle persone, l’abitare, tutte le contraddizioni strutturali del Paese e gli scontri che ne derivano.
Dalle rendite, al tipo di settore produttivo edilizio, all’inflazione.
Nel convegno voluto dal Pdup, piccolo partito che perseguiva l’unità e la rifondazione della sinistra, i lavori erano per questo aperti da tre relazioni.
Affidate a Libertini che era divenuto responsabile nazionale casa, trasporti, infrastrutture, territorio e telecomunicazioni del PCI dopo essere stato presidente della commissione trasporti del Senato nella legislatura della solidarietà nazionale.
A Nevol Querci, suo corrispettivo nel Psi, uomo di sinistra in un partito che si avviava a divenire craxiano.
Ed a Eliseo Milani, capogruppo alla Camera del Pdup.
A Milani si deve la particolare attenzione per il lavoro della commissione casa del Pdup, che per altro riuniva fior di architetti ed urbanisti.
Era un tema meno consono ad un piccolo partito ma con un lavoro intenso di movimento, di studio e istituzionale ottenemmo anche risultati parlamentari.
Per altro Lucio Magri, che era segretario del Pdup e che concluse i lavori, sfruttò appieno il potenziale della discussione, sia come banco di prova dei limiti del “riformismo”, sia spaziando verso il tema della città. Che è poi quello del secondo evento/libro di cui mi avvalgo e che è “Cambiamo la città” tratto dalla seconda conferenza nazionale del PCI sulla casa e il territorio dall’8 al 10 marzo 1985 con 1500 delegati al Palasport di Roma.
Ma andiamo con ordine.
Il convegno del 1979 si tiene durante il primo governo Cossiga, dopo la fine della solidarietà nazionale, tripartito DC, PSDI, PLI, con l’astensione di Psi e Pri, e con il ministro Nicolazzi che a colpi di decreti inizia a “rivedere” il quadro riformatore.
Sul quale quadro riformatore si erano già innestate vere e proprie battaglie. Il blocco conservatore alimentava la spinta a fuoriuscire dall’equo canone facendo proliferare contratti atipici e “producendo”, direttamente o per via trasformativa delle destinazioni d’uso, uffici e seconde case.
La sentenza della Corte Costituzionale che “coglieva” un punto non chiaro della legge sul regime dei suoli di fatto apriva un vuoto che il Parlamento non riuscì a colmare.
Continuava la scarsità degli investimenti verso l’edilizia popolare (addirittura si constaterà il non impiego per cavilli di una parte dei fondi Gescal) che, al contrario, si cominciava a privatizzare con la messa a riscatto delle case popolari, e l’indirizzarsi degli interessi verso le nuove rendite immobiliari come le terziarizzazioni, i centri commerciali e i nuovi capannoni.
Il settore produttivo edilizio restava “arretrato”, “mordi e fuggi”, con alti costi e ancora più alte aspettative di rendita.
Insomma quell’ intreccio tra arretratezza e modernità, tra rendite e profitto, che è tanta parte della Storia del capitalismo italiano.
Tema su cui si concentra da sempre una parte significativa del dibattito sul “riformismo” con l’idea di alcuni che si possa/debba farsi carico della modernizzazione che la borghesia non fa.
Idea che, oggi lo possiamo vedere bene, non coglieva quanto quella arretratezza fosse funzionale a traghettare e mantenere i poteri e ad impedire un assetto solido di un “compromesso sociale” effettivo.
Che restava infatti affidato alla mobilitazione ed alla forza alternativa di modello del PCI.
E infatti quel mix difeso con i denti dai poteri italiani si è reso funzionale con estrema rapidità ed efficacia alla resilienza neoliberista.
Al contrario la parte declinante del “riformismo migliorista” ha ulteriormente derubricato la propria prospettiva in quella di esercitare meramente il ruolo di funzionalità alla nuova governance neoliberale senza più alcun modello proprio.
La relazione di Libertini al convegno del Pdup era consapevole dello scontro.
Si muove, come sempre, da riformatore reale.
Ha in mente che il quadro è condizionato dal capitalismo e che dunque serve sempre avere una prospettiva altra, socialista.
Sa che servono politiche di massa, cioè sostenute da grandi blocchi, capaci di operare verso le istituzioni ma anche verso tutti i soggetti sociali ed economici in campo.
Ci vuole poi concretezza, competenza, efficacia. Per sostenere l’idealità alternativa.
C’è anche la critica al “giacobinismo” che possono rischiare forme “intellettuali” che rischino di non cogliere la portata dei processi.
Ma questo non diviene mai “riformismo” o addirittura “migliorismo”.
In Libertini l’alternativa di sistema è solidissima, socialista.
La vuole come processo reale e quindi si occupa di tutto e tutti. Articola, differenzia.
Tra il suo testo e quello di Magri ci sono differenze anche evidenti su come approcciare la transizione ma chi legge non può mostrare alcuna sorpresa quando li troverà qualche anno dopo tutti e due nel fronte del no alla “svolta” di Occhetto e a costruire Rifondazione Comunista.
La discussione era “ideologicamente e programmaticamente” alta. Comprendeva anche il tema della proprietà privata che su una questione come la casa è quasi un pezzo di antropologia.
La casa come servizio sociale era uno slogan molto ripreso nel 1968 insieme a quello che chiedeva “un affitto proletario, al 10% del salario”. Sono modi che oggi definiremmo “intersezionali” cioè tesi a trovare le connessioni che il capitalismo determina “dominando” l’insieme degli elementi produttivi e riproduttivi, diremmo sempre oggi.
Come detto le impostazioni di Libertini hanno il carattere di un forte impianto riformatore che cerca di evitare i rischi di astrazione, ma sono legate al socialismo come modello alternativo.
E, già in quel momento, alla doppia riflessione critica sul socialismo reale e sulle socialdemocrazie.
In sostanza quella che Berlinguer avrebbe chiamato terza via (tutt’altra cosa da quella blairiana) e che Libertini provò a proporre sul campo.
Per altro Libertini aveva una serietà, profondità, articolazione di analisi che mal si sposava col nuovismo. Soprattutto a leggere quella relazione e, ancor di più, quella del 1985 che spazia su tutti i temi della città, si mostrava una forza, un impianto riformatore, una concretezza trasformatrice a fronte dei quali provvedimenti come l’attuale PNRR appaiono per quel che sono, una semplicistica resilienza con cui la controriforma neoliberale prova a perpetuarsi oltre le sue crisi ormai ricorrenti e tutte “usate” dall’alto contro il basso, in quella che è stata chiamata giustamente la lotta di classe rovesciata.
Tra il 1979 e il 1985 c’è l’interregno, quello in cui col pentapartito si avvia un percorso di inversione di tendenza che si fonda sulla marginalizzazione del PCI.
E una gestione aggressiva della cosiddetta modernizzazione. Cambiavano paradigmi e alfabeti.
Ci sarà poi l”89 con la fine del PCI.
Cui segue, nel 1992, la scelta del Pds di dire sì a Maastricht e dunque ad una costruzione liberale della UE che era profondamente diversa da quella sociale e democratica pensata ai tempi della relazione tra Berlinguer e Spinelli ma anche della “prudenza” avuta ai tempi della adesione allo SME.
Scelta che si accompagnava a quella dei patti concertativi che anch’essi segnavano la fine del conflitto come variabile indipendente.
Sarà poi la stagione del bipolarismo maggioritario quella con cui si consuma la rivoluzione passiva e si afferma il nuovo dominio neo liberale.
Con l’accesso al governo degli “eredi” del PCI, ma l’espunsione della possibilità della alternativa di modello.
Nei materiali di “Cambiamo la città”, cui io partecipai da dentro il PCI e da dirigente della sezione ambiente che produsse anche un contributo di Raffaello Misiti, c’è tutto il mondo neo liberale che si sta dispiegando.
Le nuove rendite urbane.
I poteri infrastrutturali e comunicativi. Se guardiamo alle città di oggi vediamo che esse sono quelle dove si sono moltiplicati i centri commerciali mentre si sono chiusi i presidi sanitari.
Quelle in cui si convive con tutte le precarietà lavorative e sociali.
Quelle in cui il green washing non lava livelli di inquinamento mai raggiunti prima.
Nel convegno del 1985 c’era ancora la lotta per contrastare questi esiti, allargando lo sguardo, i campi, senza perdere né concretezza né alternatività.
Quella conferenza metteva in campo ancora una volta un impianto riformatore imponente.
Si avvaleva di una rete di competenze vastissima e preziosa.
Questo era il PCI.
Questo era Libertini, che vi lavorava incessantemente.
Capire, trasmettere, informare, fare conoscere nei mass media dove era presente e bravissimo, stare(per riconnettere e pesare) tra la gente, le competenze, le istituzioni.
Un vero, grande, politico nel senso nobile, alto, prezioso della parola.
Se oggi parliamo di crisi profonda della politica, e dei politici, per cercare soluzioni dobbiamo tornare a queste storie.
La politica si è fatta priva di scelte effettivamente diverse e contemporaneamente ha “esternalizzato” i saperi.
I cosiddetti “tecnici” hanno assunto un ruolo predominante incarnando quello che non a caso è stato chiamato il pilota automatico.
Libertini aveva in sé, da politico, un bagaglio di competenze che reggeva qualsiasi confronto.
E lo aveva in quanto parte di quello che si chiamava intellettuale collettivo e che si avvaleva di competenze che a loro volta volevano essere parte del processo democratico che si chiama politica.
Un processo democratico perché mai neutro ed anzi alimentato dal sale della democrazia che è fatto di idee diverse organizzate e anche in conflitto.
Tutto ciò si è voluto, con ferocia, recidere per fare terra bruciata.
Ma se si estirpano le radici, la pianta muore.
Ma si può sempre ripartire dai semi, e Libertini lo è.
di Roberto Musacchio