La settimana scorsa è morto Jacques Delors, uno dei principali architetti dell’Unione europea all’inizio degli anni ’90. Delors ha promesso che l’UE sarebbe stata una “Europa sociale” – un sogno fatalmente minato dai dogmi di taglio del bilancio su cui è stata costruita.
L’Unione Europea emersa nei primi anni ’90 è spesso definita una “sintesi” raggiunta dal presidente di lunga data della Commissione Jacques Delors – ciò che lo storico Laurent Warlouzet ha giustamente definito un “compromesso in evoluzione tra il dirigismo francese e l’ordoliberismo tedesco”. Dalla morte di Delors, avvenuta il 27 dicembre, i commenti lo hanno per lo più considerato il portabandiera di un’“Europa sociale” – anche se è ampiamente ammesso che questo progetto è stato stentato fin dall’inizio.
La colpa è in gran parte attribuita ai veti posti dagli Stati membri e agli ostacoli creati dalla dipendenza dell’Europa dalla ricerca di accordi tra i suoi governi. Eppure, la definizione di Warlouzet permette di focalizzare meglio le caratteristiche – e le debolezze strutturali – del rinnovato patto sociale previsto da Delors, egli stesso un esponente del Parti Socialiste francese. Da questo punto di vista, Delors non è stato tanto il campione sconfitto di un’Europa sociale quanto lo sponsor di un tentativo fallito e politicamente subalterno di gestire una costituzione economica ordoliberale in modo “socialista”.
Ciò mette in discussione una lettura classica dell’opposizione tra Delors e Margaret Thatcher in questo momento cruciale per l’avanzamento dell’integrazione europea. La storia prende solitamente spunto dal suo discorso al British Trades Union Congress (TUC) del 1988, considerato espressione dell’inconciliabilità tra la visione neoliberista ed euroscettica della Thatcher e il progetto di Delors per un’UE fortemente “socialmente” improntata, che conquistò gli affetti dei delegati del TUC.
Contro questa rappresentazione riduttiva, è forse più utile attingere agli strumenti offerti da una letteratura ormai in espansione sul pensiero neoliberista e vedere lo scontro Thatcher/Delors nei termini di due diverse varianti di questo approccio. Quella del primo ministro britannico era quella egemonica nel mondo anglosassone, debitrice alla scuola austriaca: una linea statofobica, ostile verso ogni forma di superstato europeo volto a regolare strettamente la vita economica. Quanto a Delors, se il suo approccio era intriso del suo background cristiano-sociale, era molto più vicino ai dettami del filone ordoliberale derivante dalla Scuola di Friburgo, e alla sua concezione di protezione e costruzione politica della competizione di mercato.
Una lettura del genere non rappresenta un salto nel buio. Lo stesso Delors riconobbe apertamente quanto il suo progetto dovesse alla dottrina ordoliberale nel suo discorso del 1989 al Wissenschaftszentrum (o Centro delle scienze sociali) di Bonn. Considerava i “due grandi principi della libera concorrenza e della stabilità” – cioè i due pilastri del progetto di società dell’ordoliberismo, caratteristico del modello sociale della Germania occidentale fin dalla sua ricostruzione postbellica – come “contributi” fondamentali. . . allo spirito e al funzionamento della Comunità [economica europea]”.
Il modello della Germania occidentale
In altri momenti Delors avrebbe espresso la sua ammirazione per i pilastri fondamentali di una “economia sociale di mercato” in stile tedesco-occidentale, ad esempio in un discorso al comitato di politica economica dell’Unione Democratica Cristiana di quel paese. Nella visione delineata da Delors, la futura UE avrebbe dovuto guardare a questa Sozial Marktwirtschaft come a un modello, a causa dei successi economici consentiti dai suoi principi fondatori, derivati sia dai pensatori della scuola di Friburgo come Walter Eucken e Alfred Müller-Armack, sia dall’influenza di altre culture politiche della Germania occidentale che parteciparono a quello stesso “compromesso sociale”.
I principi associati alla “tensione” ordoliberale si ritrovano innanzitutto in un “mercato che funziona” basato su un elevato grado di competitività – non un prodotto spontaneo dell’attività imprenditoriale, ma qualcosa assicurato dalle autorità statali che perseguono un approccio personalizzato politica di concorrenza volta a prevenire distorsioni e concentrazioni.
In secondo luogo, questi principi risiedono in una “politica economica attiva” che abbia come obiettivo principale la “stabilità monetaria”, da perseguire attraverso “l’applicazione preventiva di misure monetarie e finanziarie” da parte di una “banca centrale totalmente indipendente”. Il ruolo svolto dalle altre culture politiche (socialista, cristiano-sociale, movimento operaio, ecc.) può invece essere individuato nel principio dell’“equilibrio sociale”, da raggiungere sia attraverso politiche redistributive ed assistenzialiste, sia attraverso la consultazione delle parti sociali.
Lo stesso Delors affermò che questi tre pilastri dell’economia sociale di mercato della Germania occidentale formarono il suo progetto di rivitalizzazione dell’integrazione europea, guidandone le varie fasi. Se le quattro libertà di circolazione (merci, capitali, servizi e persone) attuate nel mercato unico europeo dal Libro bianco del 1985 corrispondessero al principio di un mercato competitivo adeguatamente funzionante, per Delors l’equilibrio sociale arriverebbe attraverso il dialogo sociale e la il lavoro di riequilibrio che deve essere compiuto dai cosiddetti Fondi strutturali europei e dalle politiche di accompagnamento.
Infine, il terzo e ultimo dei pilastri dell’economia sociale di mercato, vale a dire una “politica ciclica attiva” mirata alla “stabilità monetaria indispensabile” e alla “regolamentazione” del mercato, verrebbe realizzato attraverso il coordinamento delle politiche macroeconomiche e la creazione di di un’autorità monetaria indipendente: i due elementi chiave del Rapporto del 1989 sull’Unione economica e monetaria.
L’indipendenza della banca centrale dal processo decisionale politico è stata una delle disposizioni costituzionali di ispirazione ordoliberale alla quale Delors ha aderito con maggiore convinzione. Difese strenuamente questo approccio, dichiarando senza mezzi termini al Parlamento europeo nell’ottobre 1989 che era indispensabile per qualsiasi unione monetaria europea minimamente “accettabile”.
Di fronte ai dubbiosi o ai timorosi, Delors ha minimizzato i rischi di una deriva verso un potere tecnocratico sempre maggiore, insistendo sul fatto che “indipendenza” non dovrebbe essere confusa con “irresponsabilità”. In effetti, anche in un simile quadro di governance economica, “l’ultima parola [sarebbe] sempre politica”, poiché anche una banca centrale indipendente dovrebbe comunque “giustificarsi davanti all’opinione pubblica” e “tenere conto di ciò che dicono le autorità politiche”.
Eppure, per questo motivo, l’“indipendenza assoluta” della banca centrale non poteva essere oggetto di dibattito o di compromesso, poiché era già “affare fatto”: i Paesi che avevano potuto saggiare “i vantaggi” di questa configurazione di autorità monetaria (per es. la Germania Ovest) “non accetterebbero di tornare indietro”, ha detto al Parlamento europeo. Per questo motivo il profilo e le competenze di una banca centrale europea dovrebbero prendere a modello “l’attuale statuto della Bundesbank”, cioè quello della Germania Ovest.
Contro l’individualismo
Chiaramente, non intendiamo suggerire un’identità totale tra la visione socioeconomica di Delors e i precetti teorici ordoliberali. In effetti, in più occasioni Delors ha espresso la sua autonomia da essi. Consideriamo, ad esempio, la questione del deficit di bilancio e del suo adeguato livello. Nonostante la sua opposizione al ricorso degli stati membri al “finanziamento dei deficit di bilancio attraverso la creazione monetaria”, come disse al Comité d’action pour l’Europe il 23 novembre 1989, la sua posizione non era la stessa (piuttosto severa) della Germania occidentale. affermazioni.
Secondo lui sarebbe sbagliato stabilire “vincoli di bilancio troppo forti”. Per Delors, il livello dei deficit rimaneva “una questione da valutare a livello nazionale”, che non poteva essere giudicata meccanicamente e astratta dal contesto specifico. In questo senso, ha ipotizzato una regola d’oro che autorizzerebbe la spesa in deficit se fosse finalizzata a finanziare gli investimenti. Più in generale, Delors si è dichiarato contrario a ridurre la politica economica complessiva ai soli “aspetti monetari e di bilancio”, poiché occorrevano fare anche altre considerazioni.
Resta il fatto che la netta avversione di Delors al modello sociale e perfino all’antropologia espressi dal reaganismo, dal thatcherismo e dalla cultura neoliberista-monetarista egemonica nel mondo anglosassone rifletteva una sostanziale affinità con alcuni degli elementi più caratteristici della Scuola di Friburgo. ispirata alla tradizione liberale tedesca.
Alla base di questo diverso atteggiamento c’è forse l’ispirazione antiatomistica e comunitaria che contraddistinse quest’ultimo, a partire dalla rivista del dopoguerra ORDO. Infatti, rifiutando l’atomismo classico della tradizione liberale – quello che ha spinto la Thatcher ad affermare che “non esiste società, ma solo individui” – l’ordoliberalismo e il suo “umanesimo economico” hanno sposato una visione della società quasi feudale e di ispirazione organicista.
In nome della libera concorrenza, l’ordoliberismo ha sicuramente rifiutato i corpi intermedi tra individuo e Stato (sindacati, associazioni, ecc.) legati alla lotta redistributiva nella società industriale. Tuttavia, valorizza come “fonte di integrazione sociale” quei corpi sociali “tradizionali” che rispettano un ordine basato sulla proprietà ed esprimono ciò che Alexander Rüstow chiamava una “gerarchia spontanea che cresce secondo natura”.
Questa variante “comunitaria” dell’economia di mercato, fortemente influenzata dalla dottrina sociale della Chiesa e dal corporativismo cattolico ottocentesco, sembrerebbe stabilire una particolare vicinanza tra questa branca del liberalismo tedesco e le convinzioni di un cristiano-socialista di ispirazione personalista come Delors.
Era, infatti, critico nei confronti dell’etica radicalmente individualista promossa dal neoliberismo anglo-americano, accusandolo di offuscare la “dialettica tra uomo e società” e di erodere quelle istituzioni “incaricate di dare all’uomo un posto strutturato” all’interno del collettivo sociale. L’atteggiamento del capo della Commissione Europea verso i fondamenti del “liberalismo basato sulle regole” della Scuola di Friburgo può quindi essere spiegato con riferimento alle ovvie somiglianze concettuali e persino semantiche tra (a) il quadro ordoliberale di alta competitività incorporato nel guscio del comunitarismo tradizionalista, e (b) il trittico “competizione-cooperazione-solidarietà” che Delors ha posto alla base del proprio progetto di “Europa sociale”.
Una scommessa che non ha funzionato
Da quanto detto finora emerge non solo la vicinanza di Delors ai principali pilastri dell’“economia sociale di mercato” della Germania occidentale – anche se nella forma “basata sul compromesso” assunta nei tre “decenni gloriosi” di crescita del dopoguerra – ma anche una sorta di inconsapevolezza degli effetti collaterali che avrebbero sul modello sociale complessivo. Più specificamente, Delors sembra non aver tenuto nella dovuta considerazione i problemi di compatibilità tra gli elementi centrali del modello sociale ordoliberale e le condizioni che rendevano praticabile il suo modello sociale socialdemocratico preferito.
Nel contesto specifico dell’economia sociale di mercato del dopoguerra, un progetto socialdemocratico potrebbe avere effetto grazie al potere contrattuale del mondo del lavoro – sostenuto sia dal costituzionalismo socialdemocratico che dall’ordine di Bretton Woods. Ma una volta rotto l’equilibrio tra capitale e lavoro, la svolta monetarista internazionale alla fine degli anni ’70 contribuì a riequilibrare il compromesso cristallizzato nel modello della Germania occidentale, a favore della componente ordoliberale e della sua insistente attenzione anti-inflazionistica .
Insomma, all’interno di una costituzione economica con una forte vocazione mercantilista, orientata principalmente alla stabilità dei prezzi, un progetto socialdemocratico aveva uno spazio di manovra estremamente ristretto. La limitazione della domanda interna, che l’ordoliberismo teorizzava come mezzo per difendere la competitività esterna della Germania Ovest, avrebbe avuto infatti un impatto negativo sul potere contrattuale della classe operaia, traducendo lo squilibrio tra le componenti interna ed esterna della domanda in uno squilibrio nei rapporti di potere tra capitale e lavoro. Eppure, nonostante le conseguenze politiche del paradigma antinflazionistico, Delors ha comunque sostenuto la “stabilità duratura dei prezzi” come parametro principale per valutare i modelli sociali, trasformandolo così in una sorta di “totem costituzionale” per l’Europa stessa.
La trasposizione a livello europeo della visione di stabilità dell’ordoliberismo, unita alla maggiore mobilità dei fattori produttivi e all’indebolimento della capacità normativa e redistributiva delle autorità pubbliche nazionali, ha prodotto un ambiente fortemente incentrato sulla competitività del mercato. In tutto questo, la tanto decantata “Europa sociale” di Delors non poteva che finire strutturalmente indebolita.
In un contesto normativo volto ad assicurare il massimo rispetto della dimensione “negativa” dell’integrazione liberista, ma non altrettanto a garantire un positivo “livellamento verso l’alto” di diritti e standard, le misure volte ad attuare una politica sociale europea finiscono per “apparire come un po’ ”come il parente povero ”, come dice Alessandra Bitumi. L’articolo 136 dello stesso Trattato istitutivo della Comunità europea afferma che l’attuazione delle politiche sociali non deve mettere a repentaglio “la competitività dell’economia comunitaria” e prevede che l’armonizzazione dei sistemi sociali sia il prodotto del “funzionamento del mercato comune”. Pertanto, nel quadro dell’UE firmata a Maastricht nel 1992, i diritti sociali sono accessori, logicamente subordinati alle necessità economiche.
Come ha affermato lo stesso Delors, era consapevole fin dall’inizio che l’operazione che aveva tentato come presidente della Commissione dal 1985 in poi – cioè rilanciare il processo di integrazione attraverso il mercato unico – era una sfida. Si è trattato, ha affermato, di una scommessa fatta “da uno stato di necessità e in un clima in cui i venti favorevoli erano dalla parte della deregolamentazione e del liberalismo. Senza dubbio, come un marinaio, era necessario approfittare dei venti favorevoli”. Ma, come sottolinea Mark Mazower, “Delors ha scommesso sul fatto che l’Europa potesse godere sia della liberalizzazione dei capitali che di un maggiore welfare. Si sarebbe rivelato sbagliato”.
Sembrerebbe, quindi, che il pensiero di Delors soffra di un’eccessiva fiducia nel funzionalismo – un approccio all’integrazione basato sulla gestione comune europea delle funzioni statali e sul dinamismo che questo avrebbe dovuto scatenare. Non riuscendo a considerare adeguatamente i vincoli inerenti al modello sociale ordoliberale e le ricadute della moneta unica senza Stato costruita dopo Maastricht, “il progetto di Delors non è riuscito a mantenere le sue promesse di un’Europa giusta”, Isidoro Davide Mortellaro sottolinea. Il discorso sull’“Europa sociale” si è così ridotto a una – seppure importante – “narrativa motivante” per il vecchio continente.
Negli anni ’80, per far uscire il processo di integrazione dalla depressione, era necessaria una certa dose di idealismo ed entusiasmo – e l’idea “sociale” ha contribuito a fornirlo. Ma senza adeguate basi politiche e costituzionali che forniscano le leve per attuare tale politica, l’impegno morale di Delors per la solidarietà europea non potrebbe diventare realtà.
di Mattia Gambilonghi
* da Jacobin, 5.1.2024 traduzione a cura di transform!italia