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Le tracce di comunità di cura in itinere e la sfida del fare società, welfare e politica sui territori

di Alessandro
Scassellati

Aldo Bonomi1, in con-ricerca con Salvatore Cominu2, Albino Gusmeroli3, Carla Sannicola4, ha pubblicato il libro Sul confine del margine. Tracce di comunità in itinere (DeriveApprodi, Roma 2024), basato su un lungo e articolato lavoro di ricerca tra le reti dell’associazionismo e della cooperazione sociale nel Sud (e, anche se meno in dettaglio, nel Nord), dai contesti urbani e metropolitani fino ai piccoli comuni5. Esperienze cresciute grazie al sostegno della Fondazione con il Sud che negli ultimi 15 anni ha perseguito un indirizzo basato sul comunitarismo fondazionale (secondo cui “lo sviluppo segue il sociale”), individuando le organizzazioni del Terzo Settore come i soggetti dello sviluppo territoriale e favorendo (in alcuni casi) la loro trasformazione in vere e proprie agenzie di sviluppo del territorio nella forma della Fondazione di Comunità che nei casi di maggiore successo surrogano il ruolo di coordinamento territoriale un tempo svolto dall’ente intermedio Provincia6 (pag. 134).

Il libro è molto ambizioso perché si pone l’obiettivo di rilanciare il pensiero territorialista in salsa “composizionista” (sul “composizionismo” si veda il nostro articolo qui), attualizzando e ripensando la cassetta degli attrezzi messa a punto nel corso di diversi decenni da un nutrito e variegato gruppo di pensatori, ricercatori ed operatori sociali che hanno ragionato sul territorio e sul suo sviluppo endogeno come frutto di un processo di costruzione sociale, non ridotto quindi solo alla dimensione della crescita economica quantitativa: Romano Alquati, Arnaldo Bagnasco, Giacomo Beccatini, Carlo Borgomeo, Giorgio Ceriani Sebregondi, Giuseppe De Rita, Danilo Dolci, Roberto Esposito, Alberto Magnaghi, Giovanni Mottura, Danilo Montaldi, Claudio Napoleoni, Antonio Negri, Adriano Olivetti, Alessandro Pizzorno, Enzo Rullani, Giulio Sapelli, Ubaldo Scassellati, Paolo Sylos Labini, Angela Zucconi, tra gli altri7. In gran parte, autori di una “letteratura del margine della sociologia da operatori di comunità”, in cui si trovano “tracce di comunità in itinere che allora si misero in mezzo tra Di Vittorio e Valletta in un terzo racconto del territorio in cui si ritrovano tracce che partono dalle lotte contadine e vanno all’operaismo” (pag. 9). Intellettuali di minoranza che hanno “sempre guardato alle fibrillazioni nell’orizzontalità del sociale, all’ambivalente voglia di comunità, alla capacità di auto-organizzazione dal basso, come a contesti vitali di possibile rigenerazione delle forme partecipative e di protagonismo alla vita sociale, economica e politica” (pag. 12). Un filone di pensiero incentrato sull’ammonimento di Ceriani Sebregondi che «una politica di sviluppo che non riesca a essere autosviluppo diviene un’imposizione o un’elargizione gratuita senza seguito»8. Una minoranza che, tra i primi anni ’50 e i primi anni ’60, è stata in grado di essere un intelletto collettivo sociale che, riconoscendosi nel fare società, elaborava e costruiva le sue «oasi» (alla Martella, a Pozzuoli, a Partinico, al Piano INA-Casa, a Grassano, nel Canavese, a Rescaldina, ecc.). Ma anche una minoranza che è stata spazzata via allorquando sono prevalse politiche top down calate e attivate attraverso un processo di modernizzazione e d’industrializzazione accelerata con le risorse della Cassa del Mezzogiorno.

L’ambizione di Bonomi e compagni non è quella di “raccontare «l’esercito dei buoni o la bolla dei giusti o il terzo settore» che fanno comunità di cura o le crocerossine in tempi di Covid e di guerre”, ma quella di ricostruire le seppur deboli “tracce di un altro racconto di una moltitudine lillipuziana che si mette in mezzo e attraversa [il] confine” del margine (pag. 7) per provare a diventare un nuovo “intelletto collettivo sociale”.

Al centro della riflessione vi sono quelle che Bonomi definisce come delle “comunità in itinere”, ossia quel tessuto operoso di cooperazione e di cura che si auto-organizza, interroga ed opera nei territori, stando in bilico sugli equilibri tra ragioni dell’economia, della coesione sociale, dell’ambiente. Da questo punto di vista, anche grazie ai materiali inclusi (docenze e testimonianze dei seminari, rapporti di con-ricerca, schede di studi di casi sul campo), quello che il libro intende cominciare a fare è un “terzo racconto”, terzo rispetto a quello dello Stato e del mercato (pag. 15), di questa “moltitudine lillipuziana” che opera nella società (nel territorio come costruzione sociale) e si mette in mezzo tra Stato e mercato, tra politica ed economia, e attraversa il confine del margine per provare a farsi centro (pag. 10), a diventare un terziario riflessivo in grado di farsi classe dirigente locale, embrione di una composizione sociale mediana che si mette in mezzo tra disagio, emarginazione, povertà ed economia, arrivando a candidarsi a guidare processi di sviluppo locale (pagg. 40-41).

Questo, anche se gli autori riconoscono che per ora si tratta di “fili d’erba nella foresta delle economie tracciate dal capitalismo delle reti dove volano i distretti manifatturieri del capitalismo molecolare di un tempo” (pag. 8), di un fermento che cerca di dare nuova linfa a una cultura della responsabilità e della partecipazione, per cui sul territorio si riescono ad identificare al massimo dei “distretti sociali evoluti” nel segno della riproduzione della società (salute, cultura, istruzione, mobilità, qualità della vita, ecc.)9 che però hanno iniziato ad interrogare la “comunità operosa” (le imprese profit) che si trova ormai sul confine della crisi multidimensionale (economica, sociale, ecologica e politica) del modello di sviluppo postfordista descritto a suo tempo dal sociologo Arnaldo Bagnasco nel suo libro sulle «Tre Italie» (Il Mulino, Bologna 1977).

La tesi degli autori è che nell’epoca del capitalismo delle piattaforme produttive e digitali agganciate ai flussi della globalizzazione, con l’ampliarsi delle disuguaglianze, si siano definitivamente scomposti gli aggregati di classe e ceto formatisi nel ‘900, dando vita a “tre società che stanno in una” e che sono messe al lavoro senza che vi siano dei vasi comunicanti tra loro (mettendo a nudo le fratture tra pienamente inclusi, differentemente inclusi ed esclusi, ma anche le barriere relazionali, linguistiche e spaziali ormai esistenti) (pagg. 23-27):

  • quella del capitalismo dei flussi e delle reti, con tanto di lavoratori cosmopoliti della conoscenza alla produzione di senso ed egemonia, che si alimenta di simultaneità e di spinte alla de-territorializzazione; sono le «élite» della finanza, delle grandi corporation, dei grandi player tecnologici e delle reti, integrate da professionisti pubblici e privati, classi di servizio, virtuosi dell’algoritmo, frazioni rilevanti di lavoro scientifico e intellettuale;
  • quella di un sistema di impresa manifatturiero macinante innovazione e della classe operaia di un tempo sotto stress nelle filiere manifatturiere, distributive, logistiche nelle periferie, nelle città infinite; forma lo zoccolo duro del ceto medio assottigliato e del «partito trasversale del PIL»;
  • quella sul confine del margine dell’ultimo miglio delle economie fondamentali dei servizi e del sopravvivere con bassi salari e scarsi diritti di “un volgo disperso, che da fiumana del mondo contadino”, dopo essere stato immesso nell’industrializzazione del secolo fordista, si è fatto moltitudine (“la dimensione di massa senza il sistema ordinatorio delle classi sociali”; pag. 59), con vite imprigionate nei luoghi «che non contano», senza welfare (anche con laurea), nella de-cetomedizzazione del lavoro autonomo tradizionale, nella nuova «operaietà» nei servizi poco qualificati (e soprattutto poco e intermittentemente retribuiti), nei settori «periferici» low-cost e nelle catene logistico-distributive, nella riserva industriale; una società destinataria passiva dei discorsi sull’inclusione, per cui le vite sono trattate alternativamente con sussidi non sufficienti a dare cittadinanza (lo “sgocciolamento selettivo”) o consegnate direttamente ai centri caritatevoli (pag. 24); questa è anche la società di riferimento degli attori del Terzo Settore (associazionismo volontario, cooperazione sociale, imprese sociali, fondazioni filantropiche, ecc.) e delle «comunità di cura» (di cui il Terzo Settore è il perno).

Le tre società esprimono mentalità e visioni proprie e differenti domande politiche e di rappresentanza (con diversi “opinionisti”, cantori, partiti e «imprenditori» politico-culturali che hanno cavalcato la corsa alla disintermediazione), come diverse sono le logiche d’azione e di mobilitazione dei gruppi sociali che evocano di volta in volta tanto «spettri di classe» quanto logiche interclassiste, per usare il lessico del ‘900 (pag. 25).

In queste tre società senza vasi comunicanti, senza ascensore sociale e con la crisi del welfare (dovuta in larga parte alle risorse decrescenti ad esso dedicate all’interno del paradigma ideologico neoliberista che ha ridimensionato i diritti sociali e l’universalismo), diventa nodale il produrre coesione sociale (salute, istruzione, lavoro e abitare). Una funzione strategica che viene sostanzialmente delegata (attraverso un sistema  di esternalizzazione dei servizi basato sui costi) a un settore terzo – al “Terzo Settore” – che mette al lavoro quelle che gli autori chiamano “comunità in itinere”. Questo, anche se gli autori riconoscono che la grande questione aperta è capire se gli attori del Terzo Settore, professionisti e volontari, “cercheranno legittimazione in qualità di gestori professionali delle esternalità del nuovo capitalismo, ovvero per la capacità – attraverso le necessarie territoriali – di promuovere istanze di sviluppo in grado di includere, rafforzare, distribuire risorse (capacità, visibilità sociale, voice) alle moltitudini dei senza voce” (pag. 27). È su questo tema dell’ambivalenza del Terzo Settore che si sta giocando e si giocherà la partita politico-culturale delle “comunità in itinere”.

Quello che sulla base della con-ricerca attuata si può per ora comprendere è che, seguendo la tripartizione di Bagnasco, si ha che se al Nord si fa coesione sociale per reggere l’urto della competizione globale e stare nell’economia dei flussi, nell’Italia di mezzo si recuperano le virtù civiche (“l’intimità dei nessi”) per disegnare smart land dense di storia, mentre nel Sud si fa spazio ad un altro racconto fondato sulla rilevanza del territorio come luogo di costruzione del “capitale sociale” positivo, del fare società ed economia (come dice Borgomeo, “lo sviluppo c’è se c’è un po’ di comunità o coesione sociale”; pag. 103), in un contesto interessato da diverse velocità, ma tuttora accomunato da una comparativa condizione di fragilità economica, sociale e istituzionale (pagg. 8;39).

Questo racconto è in parte alternativo alle traiettorie di crescita basate sul ruolo trainante dei flussi che impattano, mutandoli, i luoghi e i territori. Proprio lì, sul confine del margine, la con-ricerca ha fatto emergere le tracce di pazienti e spesso inascoltati percorsi di tessitura territoriale che interrogano i modelli di sviluppo e le piattaforme di coesione sociale delle tre Italie. Percorsi che fanno distretto sociale, come spazio collettivo di riflessione (che fa autocoscienza, autogoverno e autosviluppo), mobilitando valore di legame e dando visibilità agli invisibili della “terza società”.

Per cambiare lo stato presente dell’affresco sociale” (e non solo per diffondere i presupposti e le infrastrutture sociali dello sviluppo o “rammendare” il tessuto sociale lacerato come faceva l’operatore di comunità/assistente sociale negli anni ’50-’60-’70, o per animare coalizioni socio-economiche come i Patti territoriali per lo sviluppo, promuovere l’imprenditorialità giovanile nel Mezzogiorno con le Missioni di sviluppo e fornire supporto a sindaci-imprenditori del loro territorio negli anni ’90, o autoriprodurre il sociale nelle periferie e nelle aree interne abbandonate negli anni 2000), il libro propone la formazione della figura professionale del social agent (Sapelli auspica la creazione di “una scuola di assistenti sociali del territorio”; pag. 85). Una figura che ha il compito di mettere assieme le tracce del “terzo racconto” da sostanziare con un lavoro di inchiesta, di ricerca-azione, di con-ricerca in una logica di capacitazione (empowerment) dei soggetti10. Soprattutto, deve contribuire ad attrezzare le “oasi” (supportando gli attori locali a dotarsi di mezzi conoscitivi, tecnici, finanziari) dove c’è “l’acqua per calmare l’arsura del disagio”, e a “tracciare percorsi di una carovana per un futuro dell’essere in comune” (pag. 10), promuovendo reti di socializzazione e di confronto sui molteplici e differenti percorsi con cui l’acqua è stata trovata, arrivando a “proporre Patti Territoriali del Sociale” e a “porsi l’obiettivo di costruire nuove «istituzioni della comunità»” (pag. 46). Secondo gli autori, è dal social agent che molto dipenderà se la “moltitudine lillipuziana” sarà in grado di darsi riferimenti e un senso della missione comuni e se saprà fare, non solo una autonoma rappresentazione di sé, ma “nuova rappresentanza interrogante e contaminante la moltitudine, facendo carovana” (pag. 11). Nuova rappresentanza che nel contesto delle trasformazioni della composizione sociale, del lavoro e dell’impresa che lascia senza rappresentanza tanti (troppi) soggetti della “terza società”, dovrebbe assumersi il compito politico-culturale di “sfidare e spingere al cambiamento le prime due società” (pag. 47). Come sostiene Borgomeo, il Terzo Settore può essere soggetto del cambiamento e quindi soggetto politico capace di conflitto con le istituzioni (ad esempio, per rivendicare la sussidiarietà orizzontale o contrastare “la cultura di fondo dell’ente pubblico che tende a piegare le forme di civismo o la stessa offerta di servizi all’interno di griglie dominate da criteri economici improntati al massimo ribasso, con tempi di liquidazione delle prestazioni non di rado usati come strumento di ricatto politico”; pag. 125), ma solo a condizione che faccia rete, abbandonando autoreferenzialità, identitarismo e interesse immediato (pag. 106), in favore di una visione strategica.

Il percorso delle “comunità in itinere”, del “soggetto terzo”, di una “società di mezzo” in rigenerazione, investigato dal libro dovrebbe essere “istituente”, nell’accezione intesa da Roberto Esposito (1998;2002), con la creazione di nuove istituzioni (comunitarie, che fanno società) all’altezza del «livello storico» e la rigenerazione delle vecchie con il progetto nel produrre beni comunitari in modo intenzionale. “Pensiamo, ad esempio, a cosa significhi fare del welfare (scuola e sanità in primis) un campo di prassi istituenti largo, giocato nei luoghi della salute e della formazione, in tempi in cui proprio la sfera riproduttiva diventa la posta in palio di un nuovo ciclo di sviluppo capitalistico” (pag. 13).

Prospettive che hanno acquisito un forte impulso con l’applicazione dei criteri di co-progettazione e co-programmazione introdotti dalle recenti sentenze della Corte Costituzionale (131/2020) e dall’articolo 55 del Codice del Terzo Settore (d. lgs 117/2017) nei settori di attività in cui questi sono attivi (tavoli di concertazione, tavoli della legge 328, tavoli dei distretti socio-sanitari e così via)11.

Invece di “fare esodo dal presente” o di ragionare solo in termini di conflitto, il Terzo Settore può riversare il proprio impegno nelle pratiche istituenti dentro i territori12 per costruire la società post-neoliberista in grado di lenire crisi, negatività, rancore e, allo stesso tempo, per essere un reale contrappeso sui territori (in quanto “tracce di comunità” di innovazione e cambiamento13) al grande processo di «iper-industrializzazione» e della digitalizzazione della società contemporanea basato sull’incipiente “connubio tra i detentori/gestori di tecnoscienza applicata e ri-centralizzazione politica” (pag. 17).

Si tratta sia di un’opportunità sia di una necessità, secondo gli autori, dato che certamente i motori dello sviluppo autopropulsivo dei territori si sono indeboliti, ma neanche le economie che alimentano il nuovo regime di accumulazione “possono fare a meno di radicarsi nei luoghi e del capitale sociale ivi depositato” e oggi “sembrano (almeno retoricamente) voler perseguire un riequilibrio tra economia, società, ambiente” (pag. 16). Come nota Enzo Rullani nel suo intervento, la chiave del successo in molti settori continua risiedere nella capacità degli attori che animano i mondi professionali di parlarsi, cooperare, costruire visioni trasversali. Viene avanti un tipo di economia che vive di dinamiche relazionali aperte tra attori capaci di inventare e condividere progetti di futuro, aprendosi anche ad un intreccio di relazioni che legano i luoghi alla rete trans-territoriale (pag. 98). “Non si farà mai medicina evoluta senza fascicoli elettronici, diagnostica predittiva e big data, ma neanche senza prestazioni diffuse di assistenza a supporto personalizzato” (pag. 22), ciò significa che occorre una medicina ospedaliera che sia capace di operare in sinergia con una medicina del/sul territorio costruita su una integrata rete di servizi socio-sanitari territoriali frutto di una triangolazione Enti locali (e/o Asl), terzo settore e tecnici della medicina.

La nuova qualità del gioco tra flussi (finanza, digitale, logistica, ecc.) e luoghi si compone di relazioni complesse, non univoche, in cui si possono cogliere elementi di attrito/conflitto e forme di cooptazione, ma anche la capacità degli attori locali di trarre vantaggio mediante la formazioni di coalizioni originali, composte oltre che da attori del Terzo Settore (che possono essere il motorino d’avviamento), da operatori delle professioni sociali, educative e della salute, amministratori locali, la finanza filantropica (le fondazioni filantropiche di origine bancaria, d’impresa e familiari), imprenditoria che cerca una sintesi tra profitto e beni collettivi, economie dei servizi essenziali e della manutenzione dei territori (si pensi, ad esempio, alle cooperative di comunità o di comunità energetiche). Coalizioni territoriali capaci di imporre agli agenti dei «flussi» mediazioni accettabili che prevedano anche la redistribuzione dei surplus generati.

Gli autori sottolineano che il punto è fare in modo che i luoghi e quindi le «comunità in itinere» di cui trattano, come parte attiva nella costruzione sociale del territorio, riescano a rappresentarsi come attori collettivi (pag. 23) e a costruire nuove forme di società intermedia, che “agisce per generare, manutenere e riprodurre i presupposti «societari» dello sviluppo” (pag. 31). Questo vuol dire pensare e praticare intrecci tra territorio, pratiche «di cura» e saperi per garantire che le filiere funzionali (manifatturiera, digitale, agricola, turistica, ecc.) producano sviluppo equilibrato, per alimentare “l’economia fondamentale”, e non depauperamento del sociale (pagg. 29;31). In altre parole, manutenere l’infrastruttura della vita quotidiana composta da beni materiali (infrastrutture per la mobilità, utilities, reti distributive, cura del territorio, ecc.) e «provvidenziali» (salute, istruzione, assistenza, conoscenza, ecc.). Secondo gli autori, è questo l’orizzonte verso cui dirigere la «carovana»: il rafforzamento dell’armatura societaria nei territori attraverso la creazione di istituzioni capaci di assicurarne la riproduzione, di “fare territorio e società”.

Bonomi e compagni sono consapevoli che a realizzare il loro ambizioso programma non può essere il solo Terzo Settore, peraltro internamente scomposto in istanze e forme giuridiche fortemente articolate (nonostante che la riforma del Terzo Settore abbia sostanzialmente imposto il modello d’impresa), anche se qui sono più condensate fondamentali risorse soggettive (orientamenti, logiche d’azione, percorsi biografici, sapere pratico). Per questo chiamano in causa le «comunità di cura» che si occupano della coesione sociale e sono portatrici di una cultura territoriale che cerca di recuperare un’idea di investimento sociale come precondizione dello sviluppo. Gli autori fanno quindi riferimento alle “coalizioni larghe” composte da un insieme di attori e di pratiche sociali ben più ampio di quelle rientranti nel perimetro del Terzo Settore.

Due sono le principali derive speculari da contrastare: la chiusura velleitaria in una “bolla dei giusti” autoreferenziale e la cultura del “disincanto”. Una «comunità di cura» auto-confinata e con una visione semplificata dei delicati equilibri tra ragioni dell’economia, della coesione sociale e dell’ambiente, non può svolgere una funzione di traino nei territori. Al tempo stesso, occorre evitare la tecnicalizzazione frutto del disincanto e della prassi burocratica di gestione delle esternalità del mercato, con il professionalismo dell’intermediazione delle risorse e una esasperazione delle expertise tecniche nella progettazione, management, rendicontazione e valutazione d’impatto. Negli ultimi anni, attraverso l’azione degli istituti fondazionali filantropici, si è spesso operata una saldatura fra una parte del mondo finanziario e una parte del Terzo Settore che ha neutralizzato gran parte dei contenuti politici e dell’autonomia gestionale e lavorativa dei circuiti dell’associazionismo e dell’attivismo, irreggimentandoli in protocolli fortemente burocratici, rendendoli più imprenditoriali e al tempo stesso più precari e soprattutto orientando le loro attività agli stessi fini perseguiti dai grandi capitali (come la “valorizzazione” di spazi urbani, di forme di vita, di strumenti di welfare come la cura e riproduzione sociale).

Pertanto, nel fare intervento di comunità, secondo gli autori, occorre tenere presente il tema della sostenibilità, ma è anche bene non abbandonare un adeguato “ingaggio militante”. L’intervento territoriale richiede coerenza tra mezzi e fini14; il peggiore esito immaginabile per il Terzo Settore sarebbe un trade off tra politica e tecnica, che significherebbe nient’altro che una ri-politicizzazione subalterna dell’azione sociale. La «comunità di cura», semmai, necessita di re-incantarsi e intraprendere nelle due direzioni il cammino tra utopia e scienza come nucleo fondante della propria identità (pag. 38).

Da questo punto di vista, gli autori identificano due temibili potenziali avversari del programma territorialista composizionista da loro auspicato: la cultura del neo-management pubblico (ossia di coloro che pensano ancora che debba essere lo Stato centrale a guidare lo sviluppo e a correggere gli effetti delle disuguaglianze), da un lato, e l’engagement verso la sostenibilità di élite orientate piuttosto al governo dall’alto dei processi (pag. 47).

Forse Bonomi e compagni dovrebbero prendere maggiormente in considerazione il ruolo della rete territoriale dei Centri di Servizio per il Volontariato (nati in attuazione dell’art. 15 della Legge quadro sul volontariato n. 266/1991). Un potenziale alleato istituzionale che negli ultimi due decenni ha dimostrato di saper essere un social agent capace di sostenere e qualificare le attività di volontariato offrendo supporto, sostegno e servizio ai volontari ed alle loro associazioni. I Centri sono presenti sui territori (con Case del Volontariato, Sportelli e operatori) e sono portatori di una cultura dello scambio delle buone pratiche che via via emergono nelle varie esperienze territoriali e del fare coalizione territoriale nella logica delle “comunità di cura” che operano nell’interesse generale.

Alessandro Scassellati

  1. Aldo Bonomi, fondatore e coordinatore del Consorzio Aaster, ha pubblicato negli ultimi trent’anni numerosi testi sul cambiamento dei territori italiani nella loro dimensione produttiva, sociale e antropologica. Tra questi: Il trionfo della moltitudine (Bollati Boringhieri, Torino 1996), Il capitalismo molecolare (Einaudi, Torino 1997), Il distretto del piacere (Bollati Boringhieri, Torino 2000), Il rancore (Feltrinelli, Milano 2008) e Il capitalismo in-finito (Einaudi, Torino 2013). Ha diretto la rivista «Communitas» (Editoriale Vita) e dirige la collana «comunità concrete» di DeriveApprodi, con la quale ha pubblicato (insieme a Marco Revelli e Alberto Magnaghi) Il vento di Adriano. La comunità concreta di Olivetti tra non più e non ancora (2015) e ha curato Oltre le mura dell’impresa. Vivere, abitare, lavorare nelle piattaforme territoriali (2021). Dal 2004 cura la rubrica Microcosmi sul quotidiano «Il Sole 24 Ore».[]
  2. Salvatore Cominu (1967), svolge da quasi trent’anni attività di ricerca, formazione e consulenza in materia sociale ed economica. Collaboratore dal 1998 del Consorzio Aaster, nel corso degli anni ha partecipato a numerosi progetti di livello locale, nazionale ed internazionale su argomenti molteplici, dalle trasformazioni del lavoro allo sviluppo urbano e territoriale, dall’economia sociale ai problemi dell’azione collettiva. Su questi temi ha pubblicato diversi articoli su riviste e contributi in volumi collettivi. È redattore della rivista online Machina di DeriveApprodi.[]
  3. Albino Gusmeroli (1968) è ricercatore sociale presso il Consorzio Aaster dal 1996, ha partecipato a numerose attività di consulenza, ricerca, animazione e formazione sui temi dello sviluppo territoriale. Ha contribuito a Oltre le mura dell’impresa (DeriveApprodi, Roma 2021) curato da Aldo Bonomi.[]
  4. Carla Sannicola (1967) è dal 2003 ricercatrice sociale presso il Consorzio Aaster in attività di ricerca-azione, animazione territoriale e consulenza attinenti le diverse problematiche dei territori, lo sviluppo socioeconomico e l’economia sociale. Ha operato in qualità di consulente in agenzie tecniche del Ministero dell’Economia e del Lavoro quali Sviluppo Italia Puglia ed Italia Lavoro Roma. Formatrice in diversi progetti, ha fatto parte anche di equipe psico-socio-pedagogiche. Nel 1997 ha fondato l’Associazione Pragma Onlus a Grottaglie e dal 2002 al 2008 la Cooperativa New Pragma.[]
  5. Il testo è frutto di un biennio di sperimentazioni agite e osservazioni partecipate in progetti di rafforzamento dei tessuti societari vulnerati dalla crisi, realizzate nell’ambito del progetto Talenti per la Comunità promosso e realizzato dalla Fondazione CRT, in collaborazione con la Fondazione Con il Sud e il Consorzio Aaster. L’itinerario tra i «distretti sociali» nelle periferie del paese, l’esplorazione di buone prassi nelle regioni del Mezzogiorno, la formazione di nuovi operatori di comunità nel Nord-Ovest, esperienza la cui descrizione occupa la seconda parte del volume, sono anche la piattaforma empirica delle riflessioni introduttive.[]
  6. Emblematico è il caso della Fondazione di Comunità di Messina che opera come un “distretto sociale evoluto”. Si vedano le analisi alle pagine 160-161;165;167-168;169-170;241-244. Come emblematico è il caso della Fondazione Domus Luna di Cagliari (pagg. 176-185).[]
  7. A questi intellettuali citati nel testo, potrebbero essere aggiunti anche Achille Ardigò, Alessandro Fè d’Ostiani, Gilberto Marselli, Manlio Rossi Doria e Amalia Signorelli.[]
  8. De Rita parla del “cattocomunismo di Sebregondi, che guardava allo sviluppo di comunità come auto-coscienza, auto-dominio, auto-propulsione. Lui e noi avevamo fatto tesoro della lezione di Padre Lebret, il domenicano francese che aveva creato «Economie et humanisme». Lebret aveva un’idea di ricerca-azione secondo cui la comunità doveva appunto fare auto-conoscenza, auto-coscienza e auto-dominio. Doveva interrogare sé stessa attraverso questo triplice passaggio, per capirsi, per avere coscienza complessiva di sé e per auto-dominarsi, auto-proporsi verso il futuro. Senza questo non c’è che descrizione o letteratura localista” (pag. 65). Ceriani Sebregondi sottolineava le differenze tra sviluppo, inteso come autopromozione civile ed economica della società, e crescita, intesa come progressione del reddito e dei consumi, che può essere scissa dall’incivilimento: di qui la «crescita senza sviluppo».[]
  9. Gli autori sottolineano (pagg. 33-34) che: “Si assiste da tempo, da Nord a Sud, al proliferare di cooperative e imprese sociali, non solo nei territori a maggiore tradizione mutualistica, ma anche in quelli meno dotati sotto il profilo della tradizione civica, in cui il sociale si organizza intorno alle espressioni del welfare state come le scuole o la sanità, o intorno a ciò che riesce a esprimere il tessuto delle parrocchie e delle vecchie associazioni di pubblica assistenza, dell’associazionismo erede della cultura operaia della grande fabbrica fordista o a quella affluente legata ai temi della sostenibilità e della conversione ecologica. Queste istanze, accomunate da una tendenza più o meno generica a introdurre nel welfare modelli di governance pluralistica territorializzata si sono incuneate tra ciò che rimaneva del welfare state e un mercato delle prestazioni private incardinato su meccanismi finanziario-assicurativi, temperati dalle logiche della finanza d’impatto e degli Esg”. Le caratteristiche di queste esperienze che possono condensarsi in «distretti sociali» sono: (1) un approccio che muove dalla presa in carico delle persone e dall’azione sui bisogni concreti e localizzati, nell’ambito di una cornice comunitaria inclusiva; (2) la presenza di coalizioni di attori specializzati nella «cura» (servizi sociali, scuole, OTS, volontariato), enti locali (Comuni), autonomie funzionali (Ats/Asl/Ausl, Università) attori della finanza filantropica (fondazioni filantropiche di origine bancaria, di impresa o di famiglia, istituti bancari), imprese (agricoltura, commercio, servizi, ecc.), rappresentanze degli interessi delle imprese e del lavoro; (3) la presenza di luoghi riconoscibili della cittadinanza e l’adozione di un piano di attività condiviso imperniato sull’impianto normativo dei diritti sociali e sulla legittimazione sociale-istituzionale dei soggetti pubblici a carattere elettivo o funzionale, cui si affiancano meccanismi di accountability e metriche di impatto; (4) la durata nel tempo e la progressiva strutturazione dei progetti in campo, a dimostrazione del loro carattere non effimero, ossia non guidato esclusivamente dall’offerta istituzionale o dai cicli legati a bandi europei o di matrice filantropica. Molto interessante è la descrizione e analisi del “distretto agricolo sociale evoluto” dell’area metropolitana di Bari (pagg. 136-138;235-239).[]
  10. La con-ricerca è una pratica d’intervento qualitativo introdotta da Romano Alquati e Danilo Montaldi negli anni ’60 che, ponendo il ricercatore militante sullo stesso piano del soggetto indagato, annulla la figura separata dell'”avanguardia“, tanto cara alla logica della sinistra tradizionale, e consente di riformulare orizzontalmente e circolarmente il rapporto teoria-prassi-organizzazione. La con-ricerca è un rapporto sociale e politico non formalizzabile in metodo che permette di leggere, anche nei periodi di passività, i segnali della conflittualità a venire, l’organizzazione informale e le ambivalenze costitutive che si collocano nello scarto tra composizione tecnica (articolazione oggettiva della forza-lavoro) e composizione politica della classe. La con-ricerca produce quindi effetti nello stesso momento in cui viene costruita collettivamente, poiché è uno spazio ove la soggettività dei con-ricercatori e dei ricercati si può esprimere. Si tratta quindi di un’attività che permette di costruire nuove possibilità, nuove piste di lavoro. Si veda: Palano D., Il bandolo della matassa. Forza lavoro, composizione di classe e capitale sociale: note sul metodo dell’inchiesta, Intermarx, gennaio 2000. Un esempio del metodo della con-ricerca è il saggio di Romano Alquati, Forza lavoro e composizione di classe all’Olivetti I/II (Quaderni Rossi, n. 2, 1962:63-98; n. 3, 1963:121-185), che costituisce il primo lavoro italiano sistematico di lettura dei processi tecnologici della produzione in relazione alle trasformazioni interne alla composizione operaia. Di Alquati si vedano anche Capitale e classe operaia alla Fiat: un punto medio del ciclo internazionale (1967) e Sulla Fiat e altri scritti (Feltrinelli, Milano 1975). Alquati è stato un instancabile ricercatore militante, attivista politico e intellettuale, analista della soggettività, dei processi di soggettivazione e della composizione di classe. Si vedano: Alquati R., Camminando per realizzare un sogno comune, Velleità alternative, Torino, 1994 e Per una storia di classe operaia (Intervista a cura di Giuseppe Trotta), in Bailamme, n. 24/2, 1999:173-205.[]
  11. A sei anni dal nuovo Codice sull’amministrazione condivisa siamo ancora alla fase sperimentale e non alla pratica ordinaria. C’è ancora da superare una diffidenza profonda: gli amministratori la considerano un modo per gli ETS di aggirare le regole di mercato; gli ETS la considerano un modo per scaricare sulla cittadinanza organizzata alcune delle responsabilità in capo a chi governa. Da notare che la riforma del Codice dei Contratti Pubblici del 2023 (d.lgs. 36/2023) rappresenta un ulteriore tassello verso il pieno riconoscimento del principio di sussidiarietà: vi è stata infatti inserita una norma di sistema che fa da sutura tra il CTS e la disciplina europea dei contratti pubblici. Il nuovo codice dei contratti riconosce i rapporti fra PA e Terzo Settore come parte integrante del più ampio e variegato contesto che vede coinvolti la PA e i soggetti privati, oltre che parte qualificante perché radicati nel principio di solidarietà e improntati al modello della sussidiarietà orizzontale.[]
  12. Dentro i territori significa dentro le fabbriche, gli ospedali e i sistemi sanitari, le scuole e le università, i quartieri e le città, e trasversalmente a tutto ciò.[]
  13. Nel testo le “tracce di comunità” sono intese come possibili frammenti propulsivi di rinnovate forme di riconoscimento sociale e di corrispondenti istituzioni in divenire (pag. 28).[]
  14. Nel testo dedicato alla Calabria si afferma: “La vita ha bisogno di qualità e per le attività di cura occorre un codice deontologico che guardi agli obiettivi, ai complessi impatti sociali e non solo alle procedure e alle sterili valutazioni quantitative. Lo scopo principale degli interventi educativi, sociali e sanitari infatti, è quello di formare e accompagnare cittadini capaci di rivendicare diritti ed esercitare doveri” (pag. 150).[]
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