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Le statue fanno male a rimanerci sotto

di Giancarlo
Scotoni

Il quotidiano Avvenire dedica alcuni articoli alla questione delle statue abbattute durante le manifestazioni che a partire dagli Stati Uniti si sono diffuse anche in Europa contro il razzismo, l’ingiustizia civile e sociale, la violenza repressiva della polizia. Lo fa con serietà e per così ne seguiamo le tracce lasciando fuori lo scandalo per la vernice sul Montanelli: un orribile aggeggio di bronzo che merita il minimo di attenzioni.

Bersagli indifendibili durante dure proteste di massa sono tutte finite abbattute le effigi di soldati confederati e esempi di suprematismo, di monarchi assassini, di schiavisti cittadini esemplari, di icone di storia patria e addirittura di padri della civilizzazione occidentale (ma anche di personaggi minuti come l’impresentabile fondatore dei Boy Scout). Se il discorso non mi portasse lontano aggiungerei a questa lista gli edifici dati alle fiamme: nessuna furia cieca dietro quegli incendi che hanno colpito negozi e supermercati… istituzioni che esercitano una concreta violenza quotidiana contro i poveri e che dunque sono simboli molto reali di esclusione, di ingiustizia, di nemicità.

Si è aperto il gioco dello schierarsi contro (chi si potrebbe schierare a favore se ne astiene credo perché è stupido soffiare nel vento). A non stare nel coro, come dicevo, c’è la riflessione di Franco Cardini che difende il diritto a riscrivere la storia e dunque a esercitare iconoclastia: «L’iconoclastia, cioè l’abbattimento dei simboli di potere o la cancellazione delle immagini, sono una costante della nostra storia; e la dimensione simbolica di tale azione non può nemmeno essere posta alla stregua di una qualche conferenza erudita».

Come non essere d’accordo? Ma, se le grandi religioni monoteiste hanno promosso prima o poi l’iconoclastia come rifiuto di tributare potere alle immagini, qui la questione è diversa. Alessandro Portelli sul manifesto rimane sul punto cogliendo la celebrazione come principale funzione di quella statuaria civile che ora è bersaglio delle moltitudini dei manifestanti. Si tratta di statue che non rappresentano testimonianza né conoscenza e Portelli fulmina quando scrive «Non ci sono statue di Hitler in Germania. Eppure se lo ricordano benissimo».

Le persone della mia generazione e dintorni ricordano molti monumenti abbattuti, alcuni nel passato, altri in presa diretta. Dal mucchio ne cito alcuni: le fucilazioni delle statue religiose durante la guerra di Spagna, l’abbattimento dei simboli del regime fascista nel luglio del 43, la porta di Brandeburgo fatta a bersaglio. E poi la rimozione dei busti di Stalin, e poi delle statue di Marx e di Lenin. E queste ultime le ho osservate con sentimenti controversi, tra la accettazione della necessità del fallimento e il prezzo della menzogna quale essa sia e quali le sue motivazioni.

Infatti le statue, sebbene a loro modo innocenti, possono costituire grandissime menzogne; ma se anche è condivisibile la piana consapevolezza della loro caratteristica celebrativa, con questo non se ne può sottovalutare il potere. Perché le statue in sé hanno una loro forza espressiva e l’assassino che per uccidere si è messo in ginocchio sul collo dell’arrestato ha assunto anche lui una orrenda posa statuaria.

Le statue non sono tutte uguali nemmeno per il modo in cui vengono distrutte. Così l’abbattimento delle statue di Saddam tramite carri armati stranieri e vittoriosi di guerra può dare un senso di nausea che non significa complicità verso quella dittatura.

Qui non sono in grado di considerare i casi di distruzione di tesori che riportano al terrorismo e al genocidio religioso e culturale. Ma resta sdrucciolevole giudicare la distruzione di un’opera sulla base del suo valore artistico, storico, morale. E’ dunque probabile che ciascuno che sia in pace e coscienza concordi sul fatto che se non è troppo brutta la statua controversa potrebbe trovare il suo posto in un museo o in un deposito. Il fatto è che nei giorni scorsi a troppi e troppe quelle brutte statue si sono rivelate offensive in modo insopportabile.

E ciò detto vorrei ricordare il destino dell’effigie di Gaetano Marzotto, a Valdagno, nel vicentino. Celebrava il fondatore di una dinastia di imprenditori. I quasi seimila lavoratori e lavoratrici di Valdagno e Maglio erano scesi in sciopero e lottavano per opporsi all’attacco padronale contro salario, salute e occupazione. La manifestazione sfociò in scontri di piazza e la statua fu vittima della rabbia operaia.

Non sento alcuna ragione per voler giustificare quell’atto con la durezza dello sfruttamento, con la repressione o con altre circostanze. Mi interessa invece testimoniare l’impressione che quella notizia e le foto relative fecero sugli studenti in lotta.

La statua fu messa naso a terra il 19 aprile del 1968. E’ una data che di solito si assegna alla stagione delle lotte studentesche. Si dice “il ’68 degli studenti e il ’69 degli operai”; ma qui è inesatto. Qui siamo prima del maggio, prima di Valle Giulia, prima della interpretazione. E in questo modo -diretto, scomodo, ruvido- quella lotta arrivò alle orecchie degli studenti in rivolta: si trattava di un avvenimento lontano, difficile e importante, molto più potente della statua eretta a celebrare il paternalismo padronale.

Si ripresenta il nesso implicito tra la subordinazione e la necessità della distruzione simbolica di quel legame. E la distruzione simbolica mostra anch’essa i suoi limiti: per tanti anni le statue delle piazze hanno offerto ombra, punto di riferimento, luogo di raccolta. Furono sempre le persone raccolte sotto di loro a sviluppare i propri percorsi, se non ostili, indifferenti alla retorica che parava la pioggia sulle loro teste. E credo che le donne in questa capacità di “portare oltre” la critica siano state e siano essenziali.

Tra coloro che le statue le abbattono e coloro che le impongono o che ne hanno bisogno la scelta ci sembra scontata e sono felice di appartenere a un pezzo di mondo che rifiuta gli eroi e che sente insopportabile non solo la rappresentazione celebrativa di razzisti e fascisti ma persino dei visi e dei volti più cari e più vicini al suo percorso di liberazione.

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