Marco Noris –
“Non c’è, nella storia, altro che un pugno di persone
che sono i veri padroni dell’economia. I governi non lo sono.
Non sanno cos’è una crisi. Nemmeno noi storici.
Ma la nostra superiorità sta nel sapere che non lo sappiamo.”
Fernand Braudel[1]
La chiusura del ciclo di quattro anni e mezzo del governo a trazione Syriza consente di proporre un bilancio compiuto dell’esperienza greca. Tale operazione è oltremodo necessaria per diverse ragioni. In primo luogo la vicenda greca ha bisogno di una vera e propria operazione verità. Difficilmente, a sinistra, si è assistito a contrapposizioni di giudizio basate spesso su elementi parziali e contraddittori quando non addirittura falsi e, conseguentemente, accompagnati da una superficialità di analisi che il fenomeno greco certo non meritava. Accanto a questo primo giudizio, però, c’è n’è un altro che va sottolineato, per certi versi molto più importante del primo. La vicenda di Syriza e della Grecia post-crisi si concretizza come un unicum nella storia politica dell’Europa degli ultimi 30 anni. Sorge a tale proposito una domanda: possiamo considerare questa esperienza come un laboratorio nel quale è avvenuta una sperimentazione che, seppur con tutte le sue specificità geopolitiche, può fornire elementi utili per procedere con modalità induttiva alla formulazione di giudizi analitici di carattere più generale? A dispetto di tale domanda che appare per lo più retorica, questa analisi non è stata portata avanti. Sicuramente una delle difficoltà che impediscono questo tipo di percorso è strettamente collegata con la problematica delineata a monte, inerente la questione delle contrapposizioni a sinistra che si sono acutizzate con l’accettazione del memorandum pochi giorni dopo il referendum del luglio 2015; ma, proprio questa contrapposizione ha generato una metodologia di giudizio di carattere deduttivo che ha spesso proposto una lettura dei fenomeni a partire da assiomi e postulati che male si adattavano ad una realtà molto più complessa.
Al di là delle questioni di metodo va sottolineato un fatto: un unico giudizio nei confronti dell’esperienza di Syriza difficilmente concilierà tutta la Sinistra radicale o, con una definizione più pertinente, antisistemica, intendendo per antisistemica quella che , seppur con varie modalità, intende opporsi all’attuale status quo europeo nella prospettiva di un suo cambiamento strutturale. Va però sottolineato che è proprio dall’approccio induttivo al fenomeno “Syriza” che possono emergere quelle differenze di giudizio e di posizioni di carattere generale che sono alla base delle differenze di percorso e di analisi di processo – anche se molto meno in termini di concreta differenza dei fini perseguiti – da parte della sinistra antisistemica stessa.
Vale la pena, quindi, proporre un percorso di questo tipo e cercare di cogliere queste differenze allo scopo di quella possibile ricomposizione che i tempi bui richiedono, per aprire forse nuovi percorsi di analisi e di azione: ci aiuterebbero ad allontanarci da quella estinzione politica che il processo storico in atto sta riservando alla Sinistra.
Alcuni passaggi storici essenziali.
A giudizio di chi scrive la questione del debito è centrale non solo in merito all’esperienza greca. Il debito è sotto molteplici aspetti la principale arma di ricatto e forma di esercizio di potere che si è sviluppata a livello globale a partire dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso. Per quanto riguarda la specificità greca, come affermò il giornalista britannico Ambrose Evans-Pritchard la crisi del debito greco era la “guerra all’Iraq della finanza”.[2]Consapevoli di questo fatto ad aprile 2015 viene istituita la Commissione per la verità sul debito pubblico greco coordinata da Eric Toussaint di CDTM che aveva già lavorato sulla questione del debito dell’Ecuador su impulso del governo Correa.
Come afferma Matteo Bortolon proprio in quei giorni[3]:
“Investigando come si è formato il debito pubblico greco dalle origini e il modo in cui si è ingigantito sotto la tetra tutela della Troika, si evidenzia come tali meccanismi abbiano fondamentalmente salvato le grandi banche d’affari; le istituzioni fossero consapevoli di creare un debito impagabile e insostenibile (vengono citati documenti riservati usciti alla luce); di come gli accordi del 2010 abbiano prodotto costi aggiuntivi innecessari; di come si siano trasferiti i debiti delle banche su creditori istituzionali come il Fondo europeo di stabilità i cui soldi sono entrati direttamente nei forzieri degli istituti finanziari esposti, anziché avvantaggiare il popolo greco; di come i piani di aggiustamento si siano tradotti in misure lesive dei diritti umani.
Il debito greco insomma è in larga parte illecito, illegittimo ed odioso, il che costituirebbe una salda base giuridica per il suo annullamento.
È stato violato ogni genere di norma: diritto europeo, internazionale, Costituzione greca, il regolamento interno del Fmi.”
Ci sono, quindi, le condizioni legali, le basi giuridiche per mettere in discussione l’intera questione del debito ma sono, appunto, “solo” basi giuridiche.
Pochi giorni dopo si tiene il referendum e la vittoria dell’OXI con oltre il 61% dei voti. Forte di questi elementi, anche se consapevole della durezza dello scontro, Tsipras si incontra nuovamente con i creditori il 13 luglio.
I risultati di quell’incontro costituiscono ancora oggi la principale divisione nei giudizi su Syriza da parte della Sinistra; e, probabilmente continueranno a permanere a lungo, ma vale comunque la pena di proporre una lettura il più realistica possibile di quanto accaduto. L’errore di ingenuità di Syriza fu quello di presentarsi al confronto sentendosi forte di un ampio appoggio popolare fatto però di “soli” voti. Come ebbe a dire acutamente Michele Nobile:
“il sasso nella fionda del Davide ellenico è fatto solo di voti: di un capitale politico e morale, che ha un suo peso ma è del tutto insufficiente ad abbattere il Golia postdemocratico”[4]
Ci sono due considerazioni da fare al riguardo: la prima è che con la vicenda greca il re europeo è finalmente nudo ma, come ha dimostrato, la pudicizia non fa assolutamente parte del suo bagaglio morale. L’Unione Europea svela spudoratamente il suo volto antidemocratico nella cosiddetta “trattativa”.
La seconda considerazione riguarda appunto la questione democratica e la sovranità reale all’interno dello stato-nazione. Anche questo punto è dirimente e motivo di scontro all’interno della Sinistra. Quello che si può però affermare è che la legittimazione popolare attraverso lo strumento democratico del voto si inserisce all’interno dell’ambito nazionale; potremmo definire che gli strumenti democratici elettivi e referendari possono essere considerati come le variabili endogene del modello stato-nazione, ma che questo modello, in varia misura, dipendende pesantemente da quelle variabili esogene che sono al di fuori da qualsiasi controllo democratico, esterne allo stato-nazione.
Il peso e il condizionamento di tali variabili varia certamente da paese a paese ma quanto pesavano le variabili esogene sulla Grecia? La Grecia ha poco più degli abitanti della Lombardia e il Prodotto Interno Lordo simile a quello della regione Lazio. Nella pratica, facendo le debite proporzioni, il peso della Grecia in Europa potrebbe essere considerato inferiore a quello del Molise in Italia.
Questo è il primo dato da considerare ma, al di là delle condizioni oggettive ce n’è un altro che è forse ancor più importante. L’unicum del fenomeno greco rischiava di mettere in discussione l’intero impianto di potere dell’Unione, e questo non era possibile soprattutto in un momento storico nel quale l’Unione stessa era messa in discussione per non aver saputo far fronte alla crisi del 2007/2008 (che si stava dimostrando cronica e permanente). Per fronteggiare tale crisi l’elaborazione della narrazione dell’austerità con tutto ciò che ne conseguì era il caposaldo politico sul quale l’Unione aveva gettato le basi per perpetuare il suo potere messo in crisi soprattutto da un compito che la crisi stessa non le aveva concesso di svolgere in maniera efficiente come nel passato: quello dell’essere garante dell’equilibrio tra gli interessi del grande capitale globale o comunque transnazionale e capitali nazionali. L’espropriazione di valore dal basso ottenuta dalla narrazione e dalla pratica dell’austerità consentiva seppur con difficoltà (e la partita è aperta ancora oggi) di prelevare le risorse necessarie a perpetuare questo ruolo. In questo contesto il governo greco deve essere fermato con ogni mezzo necessario: non valgono le legittimazioni giuridiche e il peso democratico della volontà popolare: come Ambrose Evans-Pritchard aveva sottolineato, si tratta di una guerra, la “guerra dell’Iraq della finanza” e la guerra dell’Iraq con il suo portato di morte e distruzione non fu certo giocata sul tavolo del diritto internazionale ma su quello della pura forza e della menzogna.
Non si può immaginare quindi, con quelle dimensioni e con la partita ideologico-politica in gioco, un reale braccio di ferro con il Moloch europeo. Non valgono, quindi, in questo caso i pur meritevoli tentativi di delineare un percorso ai governi per uscire dalla gabbia del debito e delle politiche di austerità delineati in questi ultimi anni[5], non esiste braccio di ferro possibile con un avversario che non ha intenzione di rispettare le regole pur di raggiungere un fine; è un avversario troppo forte che ha come obiettivo quello di spezzarti il braccio fin dall’inizio. La Grecia si poneva in quel contesto come un’eresia e gli eretici non sono stati combattuti e vinti a suon di dotte discussioni teologiche ma con lo sterminio e il rogo. In questo scenario la trattative del luglio 2015 non furono tali. Tsipras provò a giocare tutte le carte a disposizione, forse anche con qualche bluff, persino la minaccia di uscire dall’euro e dall’Unione. In modo solo apparentemente sorprendente il Ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble fece addirittura proprio questo stesso scenario affermando di voler escludere la Grecia dall’Unione e volere la sua uscita dall’euro. Se non si tiene contro che questo scenario, a quel punto, era lo scenario prefigurato e incentivato anche dal ministro delle finanze tedesco non si riescono a capire né i rapporti di forza reali né il messaggio politico che sta alla base di tale scenario: non c’erano affatto proposte sulle quali confrontarsi, qualsiasi processo non l’avrebbe messo in moto la Grecia e, qualora qualcun altro l’avesse messo in moto, non sarebbe stata la Grecia a gestirlo. Il destino della Grecia non era tecnicamente nelle mani della Grecia, e qualsiasi decisione presa in una direzione oppure nella direzione contraria non sarebbe stata comunque gestita dalla Grecia. A quel punto non importava più tanto se la Grecia rimaneva o meno nell’Unione, non importava più se la Grecia avesse o meno abbandonato l’euro.[6]
Certo, Tsipras avrebbe potuto, come si suol dire, rovesciare il tavolo e andarsene e, come ebbe a dire allora, tornare in patria sì come un eroe, ma per circa 48 ore, dopo di che la vendetta si sarebbe consumata.
Bisogna anche sottolineare che al di là di qualsiasi analisi fantapolitica, la Grecia era isolata: isolata da una Sinistra i cui rapporti di forza in campo erano inconsistenti, osteggiata e apertamente combattuta dalle socialdemocrazie occidentali, in primis dalla SPD tedesca. Era anche sostanzialmente ignorata dalle altre potenze globali come la Russia e la Cina, potenze che non mettono di certo in discussione la loro progettualità politica per favorire uno stato come la Grecia, la Russia più impegnata a delineare una strategia geopolitica nell’area con la Turchia e la Cina molto più interessata ad acquisire i porti greci a basso costo, liberandosi al contempo degli eventuali intoppi di natura sindacale.
I dilemmi e le scelte di Syriza
Di fronte a tale situazione che fare? Come affrontare la capitolazione? Governare o meno ? E se sì come? Si apre qui una fase totalmente nuova ed inedita per Syriza che aveva avuto finora buon gioco nell’acquisire consenso grazie al governo delle variabile endogene al modello Grecia e illudendosi di poter condizionale in qualche modo quelle esogene. Le variabili esterne al sistema, però, condizionano l’intera sopravvivenza della Grecia stessa e sono determinanti per indirizzare il futuro.
Il primo dilemma che deve affrontare Syriza è quello della decisione se proseguire il governo del paese o meno. Probabilmente sarebbe stato difficile immaginare uno scenario di totale resa e abdicazione dal governo, ma è comunque una scelta che va soppesata e considerata per le conseguenze che avrebbe potuto avere anche non nel breve periodo. Per alcuni critici di Syriza, a quel punto, a partita persa Syriza avrebbe dovuto rinunciare in quel momento per poter costruire e rilanciarsi cinque anni più tardi. È un’ipotesi però irrealistica: la resa di Syriza vista in questi termini non sarebbe stata solo la resa della Coalizione della Sinistra Radicale bensì la resa della Sinistra tout court in una prospettiva storica. Avrebbe certificato l’impossibilità oggettiva, all’interno di perduranti e squilibrati rapporti di forza, di una qualsiasi alternativa sistemica e strutturale. È facile immaginarsi il risultato politico di tale scelta nell’arco di un quinquennio. L’assenza di una dimensione realistica di alternativa è alla base della rassegnazione e della depressione sociale che ha favorito l’ascesa dell’estrema destra in Europa. Nella certezza che “un altro mondo è impossibile” la narrazione di un mondo nel quale è assodato il principio di scarsità delle risorse economiche, costituisce la base per una visione e accettazione della narrazione di una scarsità di diritti nella quale la destra ha saputo sguazzare per rompere i legami di solidarietà sociale e l’identità dei gruppi sociali basati sulla comunanza della condizione materiale. Con tutta probabilità, in questa prospettiva, dopo 5 anni non avremmo avuto né Syriza al potere né come secondo partito ma la Grecia si sarebbe allineata alla tristezza politica degli altri Paesi europei con una maggioranza neoliberista tallonata dall’estrema destra sovranista e nazionalista. Con i “se” e con i “ma” non si fa la storia ma, in tale scenario, pensare oggi di avere al posto di Syriza Alba Dorata non sarebbe assolutamente improbabile.
Syriza si pone comunque il problema e, come ha sempre fatto, rimanda alla consultazione popolare la certificazione della scelta se proseguire o meno l’azione di governo con i nuovi scenari dettati dall’accettazione del memorandum con le elezioni del settembre 2015. Le elezioni sono una conferma per Syriza: al di là delle dinamiche astensionistiche perde solo lo 0,8% dei consensi. A Syriza non rimane che governare ma come? La risposta a questa domanda va al di là dell’alleanza con ANEL bensì riflette in pieno i dilemmi nei quali si trova quasi sempre un partito di sinistra nella condizione di governare, ancor di più in questo caso: qui la polarizzazione politica è determinata da veri e propri caratteri che potremmo definire bellici. In questo senso è utile spazzare il campo da un equivoco che è alla base di numerose critiche nei confronti di Syriza. La Coalizione della Sinistra Radicale greca non è né storicamente né politicamente un partito di matrice socialdemocratica, se intendiamo per socialdemocrazia ciò che ha caratterizzato l’evoluzione di questa dottrina politica in Occidente dopo il 1989. Syriza, come Podemos e altre esperienze minori, nasce per reazione al fallimento della Terza Via socialdemocratica dell’ultimo trentennio; la Socialdemocrazia occidentale è coautrice – e non semplice complice – a partire sin dalle teorizzazioni degli anni ’80 del secolo scorso, del sistema e delle strutture dell’UE e delle sue politiche di austerità; Syriza, al contrario si oppone e le subisce: non deve stupire, quindi la feroce opposizione a Syriza da parte delle socialdemocrazie europee che, in taluni casi soprattutto per quanto riguarda la socialdemocrazia tedesca, ha raggiunto toni anche ben peggiori di quelli di Angela Merkel.
Syriza, d’altro canto, sa benissimo che non può procedere in un’azione di governo seguendo semplicemente lo stesso percorso di allineamento neoliberista adottato dalle socialdemocrazie occidentali e, con riferimento al contesto nazionale, dal PASOK.
Un’altra cosa che sfugge ai critici di Syriza e, tra le altre cose, non consente loro una corretta analisi del voto alle ultime elezioni, è che Syriza non ha mantenuto quasi il 32% dei consensi perché ha occupato il posto che era del PASOK. Questa ipotesi non regge, sia perché la situazione in Grecia è totalmente imparagonabile a quella di 5 anni fa e sostanzialmente unica nel panorama europeo, sia perché nella drammatica situazione greca, nulla avrebbe proibito un veloce processo di pasokizzazione anche per Syriza a totale vantaggio delle destre e dell’astensionismo. Questo non è avvenuto e ci sono precisi motivi a riguardo. Syriza di fronte al “che fare?” nel governo del paese adotta una scelta originale che costituisce ancora una volta un unicum nel panorama europeo.
Il doppio binario del governo di Syriza.
L’inizio dell’applicazione del memorandum accettato dalla Grecia fu esplosivo. I tagli accettati dalla Grecia furono ingenti a fronte di 75 miliardi di euro di aiuti.
Il resto è storia ma vale la pena ricordare alcuni effetti devastanti del diktat della Troika sulla Grecia:
nel 2016 le conseguenti privatizzazioni avevano colpito buona parte dei porti Greci, il porto del Pireo in gestione al gigante cinese Cosco, gestione di aeroporti regionali di Zante, Corfù, Skiathos, Salonicco, Mykonos, Kos, e Rodi da parte della Germania, l’ingresso di aziende francesi nel settore energetico e idrico, l’accordo con le Ferrovie di Stato italiane sulla rete ferroviaria greca a partire dalla tratta Atene – Salonicco, la svendita per il 66% di Desfa Sa, il gestore della rete di gas naturale a un consorzio europeo e transnazionale composto da Snam, Enagas International e Fluxys Sa, il 67% del porto di Salonicco a un consorzio internazionale composto da Deutsche Invest Equity Partners GmbH, Belterra Investment e Terminal Link.
La privatizzazione è un dato di fatto e la Grecia diventa una terra di conquista: è questo il prezzo che la Grecia paga per uscire definitivamente dal piano di salvataggio, uscita che otterrà solo nell’agosto del 2018.
Ma il governo di Syriza si è limitato alla gestione del memorandum? In realtà no.
Il governo di Syriza adotta una tattica originale, tenendo separate le costrizioni e i condizionamenti determinati dalle variabili esogene al sistema Grecia, dalla gestione di quelle endogene sulle quali tenta, in mezzo a mille difficoltà, una gestione decisamente più autonoma e che rema nella direzione diametralmente opposta a quella dei diktat dell’austerità. Il caso più eclatante è quello della sanità pubblica. Bisogna sottolineare che per anni molti detrattori di Syriza hanno continuato a far circolare articoli sul disastro sanitario greco, all’aumento della fame e della mortalità infantile con dati riferiti al periodo 2010-2014 e cioè del quinquennio precedente al governo di Syriza. Questo è avvenuto sino a pochi giorni prima delle elezioni del luglio 2019. Al di là della superficialità della critica se non talvolta la consapevole malafede, proprio la questione sanitaria merita risalto perché è al centro della operazione verità che la vicenda Grecia meriterebbe.
La Sanità pubblica in Grecia, da sempre, era accessibile solo a chi era in possesso di un libretto sanitario, cioè occupati e pensionati. Tutto il resto della popolazione era scoperto, anche prima della crisi. In sostanza in Grecia esisteva un sistema all’americana e se eri disoccupato non avevi diritto all’assistenza sanitaria. Prima della crisi però il numero dei disoccupati era basso, inoltre il sistema politico utilizzava ampiamente l’elargizione di pensioncine di invalidità, piccole indennità di previdenza sociale e cose similari per assicurarsi consensi elettorali per cui, in un modo o nell’altro, il problema della mancanza di assistenza universale non era mai esploso. Problema che è invece è scoppiato con l’inizio della crisi economica è l’aumento esponenziale del numero dei disoccupati. In quel periodo è nata la rete di ambulatori medici sociali che hanno impedito che scoppiasse una vera e propria crisi umanitaria. Il problema è stata aggravato dal fatto che i precedenti governi hanno utilizzato i memoranda come pretesto per avviare la definitiva privatizzazione del Servizio Sanitario Nazionale. Questa è la situazione che ha ereditato SYRIZA che per prima cosa ha abolito il ticket di 5 euro per gli ospedali. Poi ha proceduto con l’estensione dell’assistenza sanitaria gratuita a tutti, Greci, non Greci, profughi, e a chiunque avesse bisogno di cure sanitarie.
Da sottolineare l’inversione di tendenza per la quale, dopo i licenziamenti e la mobilità messi in atto dai precedenti governi, sono stati assunti migliaia di operatori sanitari, la maggior parte medici ospedalieri, riuscendo persino nel miracolo di risanare nel triennio 2015-2017 il bilancio della sanità pubblica anche grazie ad azioni come il trasferimento di tutte le strutture sanitarie alloggiate in locali in affitto in edifici di proprietà pubblica. Ma il sistema sanitario sul quale, ripeto, è bene soffermarsi nel rispetto della verità non è l’unico settore nel quale l’intervento del governo si fa sentire. Di seguito vanno elencati brevemente alcuni provvedimenti:
- reintegro di i lavoratori licenziati da Nea Dimokratia e Pasok: con il governo Syriza nessun lavoratore pubblico teme più di perdere il suo posto lavoro.
- reddito sociale di cittadinanza a 750.000 persone che vivevano in assoluta povertà, insieme a buoni per l’affitto, trasporti gratuiti, bollette agevolate, buoni pasto nelle scuole.
- assunzione di migliaia di lavoratori precari da anni tenuti in ostaggio dal sistema partitico.
- cancellazione dei debiti verso l’istituto case popolari a decine di migliaia di lavoratori
- rateizzazione fino a 120 rate per i debiti verso la pubblica amministrazione.
L’elenco dei provvedimenti potrebbe essere ancora lungo, spesso in contrasto con vere e proprie fake news circolate anche in Italia o, perlomeno, in contrasto con operazioni di news management riguardante molti provvedimenti governativi. D’altro canto, chi conosce la situazione greca, sa che, curiosamente, il governo di Syriza è, se non l’unico, uno dei pochissimi al mondo ad avere contro l’intero sistema mass-mediatico nazionale.
Resta comunque fermo il punto che chi ancora sostiene che con o senza Syriza sarebbe stato lo stesso afferma, oggettivamente, il falso. La questione non è comunque quella di fare un elenco dei provvedimenti governativi dei 4 anni e mezzo di governo di Syriza ma di rilevarne la solo apparente schizofrenia tra il rispetto dei memoranda e politica sociale applicata.
Detto questo la Grecia è guarita? Assolutamente no. Il Governo uscente lascia un PIL in crescita (parliamo del 2%) e la disoccupazione ridotta dal 26% al 18% ma anche l’80% dei 356 miliardi di debito in mano alla Banca centrale europea e al Fondo Monetario internazionale, con il rapporto debito pubblico/Pil ormai arrivato al 188% e la questione del debito è il cappio al collo, l’arma che consente il ricatto costante e il concreto esproprio di sovranità.
È stato un governo esente da critiche? Neppure, e in alcune decisioni il peso dello scomodo alleato ANEL si è fatto sentire anche se con la questione macedone si è giunti alle dimissioni del Ministro della difesa e alla rottura definitiva con ANEL nel gennaio del 2019.
Quello che però qui va rilevato è che le scelte di politica sociale di Syriza, nella peggiore situazione economica dell’Europa occidentale, vanno nettamente controcorrente e hanno un coraggio e una direzione diametralmente opposta a quella che avrebbero seguito la quasi totalità dei governi di matrice socialdemocratica. È questo il secondo punto che distingue Syriza dall’esperienza e dalla storia della socialdemocrazia occidentale dell’ultimo trentennio: non solo e, forse non tanto, il fatto che le socialdemocrazie sono state coautrici del sistema di potere neoliberista in Occidente e del sistema di austerità imposto dopo la crisi mentre Syriza ha successo come reazione al sistema stesso ma anche, e soprattutto, perché pur nella sconfitta, Syriza si rifiuta di percorrere quella strada che l’avrebbe portata all’assimilarsi, all’adeguarsi allo status quo e alla distruzione di qualsiasi prospettiva di riscatto. Il pensiero e la prospettiva della Sinistra, in questo senso, non sono esauriti; la sconfitta non sancisce l’irrimediabilità, la morte di una prospettiva, ma riesce, invece, a mantenerla ancora all’interno dell’orizzonte delle possibilità.
In questo senso Syriza opera qualcosa di più e di diverso rispetto ad una semplice azione di resistenza: tutela una visione di prospettiva dell’alternativa che si concretizza a livello collettivo in una persistenza politica e culturale.
Quanto ha pagato tutto ciò nelle elezioni del luglio 2019? Molto, anzi moltissimo se si va maggiormente in profondità nell’analisi del voto ma occorre fare una premessa. Come già sottolineato Syriza agisce internamente seguendo la direzione della redistribuzione verso il basso di risorse scarse se non addirittura scarsissime.
Per capire gli effetti di questa distribuzione, in relazione allo specifico della situazione greca, bisogna abbandonare l’indeterminatezza, del concetto general generico di “popolo” per ritornare a quello più appropriato di “classe”. Se da un lato Syriza si occupa soprattutto delle classi meno abbienti (quelle veramente popolari), la situazione non le consente di riservare uguali trattamenti alla piccola e media borghesia. L’aumento della pressione fiscale, l’emigrazione degli studenti verso l’estero, il ritardo dei pagamenti della pubblica amministrazione verso i privati sono solo alcuni esempi che intendono spiegare il malcontento nei confronti del governo da parte delle medie e alte classi sociali.
La scomposizione dei risultati elettorali è lo specchio di questa situazione. Syriza prende i suoi voti tra le reali classi popolari e rispetto alle elezioni del settembre del 2015, perde solo 145 mila voti. Tuttavia ad Atene Nea Dimokratia ha vinto, anzi ha stravinto, dove sono i ricchi, come nei quartieri-comune al Nord di Atene, dove Nea Dimokratia ottiene oltre l’83%, ad Ekali, dove vivono i Papandreou e non solo, a Kifisia con il 62,72%, tra i militari in pensione di Papagou con il 65%, a Filothei con il 78,96% o a Psichiko con il 75,83%. Al contrario nei vicini quartieri-comune popolari, di ex profughi, come quelli di Galatsi, Nea Ionia, Nea Filadelfeia, Nea Chalkidona e Metamorfosi ha vinto Syriza. Lo stesso scenario si è ripetuto nella parte Est di Atene, dove SYRIZA ha vinto in tutti i quartieri-comune, come quelli di Agia Barbara, Agioi Anargiroi, Egaleo, Peristeri Petroupoli e Chiadari.
Si potrebbe continuare l’analisi e, spulciando tra i dati, ci accorgeremmo che questo schema si ripete in pressoché tutto il Paese. La scomposizione del voto greco dimostra quanto questo sia stato un voto pesantemente di classe, nel quale, contro Syriza è stata stretta una sorta di patto elettorale tra le classi ricche e quelle medie mentre a favore di Syriza sono rimaste le classi popolari e meno abbienti.
Tutto ciò considerato, quindi, possiamo tentare di tirare le fila dell’intero discorso e cercare di capire, con metodo induttivo cosa il laboratorio greco può insegnarci.
Gli insegnamenti (spesso) elusi dalla sinistra.
Tra gli altri, ci sono almeno 3 insegnamenti che vale la pena sottolineare.
Il primo è inerente all’approccio critico. Stiamo assistendo in questi anni all’impoverimento di quello che era il fiore all’occhiello della cultura della Sinistra, ovvero, quello dell’analisi critica all’esistente. La superficialità nel dibattito sulla Grecia ne è una dimostrazione e va ben al di là della difesa della singola posizione perché il difetto sta negli aspetti qualitativi della critica stessa. La parzialità o la falsità dei dati, le mancate verifiche sul campo, conducono al peggior destino possibile la critica che voglia considerarsi di sinistra: quello del passaggio dalla dimensione della critica materialistica a quella dell’opinionismo imperante che, in nessun caso, deve appartenere alla Sinistra, pena la fine della sua specificità culturale.
Gli errori nell’alveo della critica hanno poi un effetto devastante nel processo di rappresentazione e costruzione dell’alternativa a quell’esistente che è stato oggetto della critica errata.
Nel caso specifico della Grecia leggere la sconfitta di Syriza come l’abbandono di Syriza da parte del popolo greco è esattamente quell’errore di valutazione che inficia la correttezza di una qualsiasi rappresentazione di alternativa a quel governo, e soprattutto, non funzionerebbe nella prassi della sua realizzazione. Inoltre, come già sottolineato, la categoria “popolo” è, in questo caso specifico, talmente superficiale da essere praticamente inservibile. Insistere su questo piano realizzerebbe semplicemente la difesa di una posizione politica sovrastrutturale che non fa i conti con la realtà materiale della vicenda greca.
Questo però non significa affatto negare la possibilità di critica a Syriza e al suo governo e non significa neppure negare la possibilità che da una corretta critica non possano emergere prospettive diverse e più radicali: il problema non è questo, anzi, è solo a partire dalla correttezza e dalla bontà della critica che si può raggiungere una rappresentazione dell’alternativa più specificatamente radicale o, come è stata prima definita, antisistemica. In questo caso, però, vale la pena evidenziare un secondo insegnamento eluso da buona parte della sinistra. Veniamo da un periodo storico la cui matrice culturale ha ormai circa 40 anni. L’insegnamento collettivo al quale siamo stati sottoposti è che non ci sia alternativa al sistema attualmente dominante, che non esista la società ma solo gli individui e, dopo lo scoppio della crisi, che il mondo sia determinato dalla scarsità tanto economica quanto, di conseguenza, di diritti. Ho scritto recentemente sulle conseguenze di tutto ciò nella rottura del processo lineare e consequenziale coscienza di classe –> identità di classe –> lotta di classe,[7]nel senso che la depressione e destrutturazione sociale conseguente alla narrazione per cui “un altro mondo è impossibile” può portare, anche in presenza di un’eventuale raggiunta coscienza di classe, ad un tentativo di fuga dalla classe stessa, con tutto che questo comporta come terreno fertile per l’estrema destra. Syriza, con la sua azione ha, per il momento, evitato tale rottura in Grecia ma la questione è ben più ampia. Recuperare il terreno perduto in termini culturali negli ultimi 4 decenni è un’impresa ardua perché inerente alla perdita di credibilità progettuale da parte della Sinistra. Quello che manca non è tanto l’adesione ideale ad una visione del mondo diversa dall’attuale bensì la fiducia nella sua realizzabilità la quale, a sua volta, dipende dai rapporti di forza reali presenti.
In questo senso le persone, tanto in termini individuali, quanto collettivi, hanno probabilmente una maggiore consapevolezza dei rapporti di forza in campo di quanto non l’abbia una buona parte della Sinistra. Se non teniamo presente questa cosa non riusciremo a spiegarci neppure l’esiguità di consenso e di risultato elettorale ottenuto in Grecia da parte di coloro che hanno portato avanti una critica da sinistra al governo di Syriza. Questo impone però una presa di coscienza e forse cambio di paradigma tanto nella progettualità quanto nell’azione politica: la differenza non la fanno più tanto le diverse dosi di radicalità progettuale e programmatiche quanto la loro correlazione con i rapporti di forza reali in campo.
Entrano in crisi, in questo modo in termini di credibilità, entrambi gli opposti poli di riferimento e prospettive della Sinistra classica: quella socialdemocratica che attraverso il riformismo raggiunge il potere perpetuando però lo status quo e quella di matrice che, semplificando, potremmo definire rivoluzionaria: in entrambi i casi i rapporti di forza reali rimangono tali e quali e oggi, in questo preciso momento storico, entrambe vengono punite per questo motivo. Il cambiamento di paradigma per la Sinistra si concretizzerebbe, in questa visione, con l’uscita dalla dicotomia riforma-rivoluzione per approdare ad una progettualità che metta al centro il cambiamento dei rapporti di forza reali. Solo concentrandosi su tale obiettivo potranno ricevere fiducia e consenso le proposte e le progettualità più radicali che oggi appaiono tanto più necessarie quanto irrealizzabili. Se non riusciremo a fare questo anche un’esperienza come quella di Syriza non sarà altro che un estremo tentativo di rallentare un disastro comunque imminente. Se non riusciamo a capire questo non capiremo neppure mai che quella che molti ritengono una sconfitta o addirittura un tradimento da parte di Syriza, nella realtà è la sconfitta e, per molti il tradimento storico, dell’intera Sinistra che, nel caso specifico della Grecia, al di là dei buoni propositi o, talvolta, semplicemente un tifo da stadio, non ha saputo incidere per nulla sul destino della Grecia. In questo senso e in questi termini la discussione dall’esterno pro o contro Syriza risulterebbe al proletario greco – recuperando un termine solo apparentemente desueto – alquanto salottiera.
Certo, cambiare i rapporti di forza reali è facile solo a dirsi e, sostanzialmente, è più o meno l’assillo costante della Sinistra in termini generali e globali.
Nessuno pretende di dare una risposta alla questione cardine di tutto il problema ma anche in questo caso, a partire dall’esperienza greca possiamo attingere ad un altro insegnamento.
In una recente intervista[8]David Harvey racconta:
“Quando Bill Clinton è stato eletto nel 1992, ha stilato un programma economico. Il suo consigliere politico Robert Rubin – che veniva dalla Goldman Sachs, e dopo è diventato segretario del tesoro – gli disse: «Non lo puoi attuare». Clinton: «Perché no?». E Rubin: «Perché gli azionisti non te lo permetteranno». Allora Clinton, presumibilmente, rispose: «Vuoi dire che la mia intera politica economica e qualsiasi chance per la rielezione dipendono da una manica di fottuti operatori di borsa?». E Rubin rispose di sì. Allora Clinton implementò misure neoliberiste come il Nafta e nuove misure di welfare, e non fece quello che aveva promesso – rendere gratuito il sistema sanitario.”
Harvey mette in evidenza come anche uno stato-nazione come gli USA siano, sostanzialmente a sovranità limitata. È persino banale insistere sul fatto che pretendere la rivoluzione europea a partire dalla Grecia era forse anche più difficile che realizzare una rivoluzione socialista in Italia a partire dall’affermazione di una qualsiasi sinistra radicale in Molise.
Nella stessa intervista Harvey sul tema della sovranità afferma anche[9]:
“…per tornare alla questione della sovranità, quando immagini di poter diventare autonomo da altre giurisdizioni, resti comunque col problema di come affrontare il potere degli azionisti e il potere del capitale finanziario. Non sono sicuro che ci sia una vera autonomia politica nell’essere semplicemente politicamente indipendenti.”
Se l’opzione sovranista non funziona, anche al di là della prospettiva di un’eventuale scomposizione e ricomposizione degli attuali stati-nazione (Harvey inseriva questo ragionamento all’interno di una domanda che faceva riferimento alla questione catalana), non rimane che affrontare il nemico nella dimensione spaziale e geopolitica dove va affrontato per poter sperare di ottenere un cambiamento dei rapporti di forza e la dimensione minima per l’Europa è quella continentale stessa. Questo non significa affatto e necessariamente difendere l’UE o pensare di cambiarla dall’interno. Europa e Unione Europea non sono la stessa cosa e non coincidono neppure geograficamente. Significa concepire una progettualità condivisa almeno transnazionale che abbia come riferimento il cambiamento del sistema e delle sue strutture anche e soprattutto, in termini radicali nella dimensione e nei luoghi reali del potere tanto istituzionale quanto economico. In questo senso, per la specificità del continente e per la dimensione stessa dei suoi stati-nazione è difficile immaginare una dimensione minima diversa: nessuno stato–nazione europeo, neppure la Germania può paragonarsi agli USA o alla Russia, alla Cina o All’India e neppure nessuno di questi può definirsi oggi pienamente sovrano.
Se un progetto transnazionale condiviso è difficilissimo da realizzare, dobbiamo però sapere che le alternative che abbiamo a disposizione sono davvero poche anche in termini di credibilità e consenso: non basta, ad esempio enunciare un Piano B, ma bisogna realisticamente averlcelo e, nello stesso tempo, avere un percorso credibile di cambiamento dei rapporti di forza in essere. Al contrario, al di là delle nostre ristrette cerchie e conventicole, nessuno considererà la nostra esistenza e per alcuni non rimarrà che continuare a prendersela con la Grecia e il suo mancato supporto alla rivoluzione mondiale.
[1]Fernand Braudel – La storia dell’Europa e la lunga durata – intervista a cura di M. Antonietta Macciocchi da Il Messaggero, 29 novembre 1985
[2]https://ilmanifesto.it/la-verita-sul-debito-greco/
[3]Ibidem
[4]Michele Nobile, Le lezioni della Grecia e le Prospettive, http://utopiarossa.blogspot.it/2015/03/le-lezioni-della-grecia-e-le.html
[5]Cfr. R. Lambert, S. Leder, Lo scenario di un braccio di ferro con i mercati, Le Monde Diplomatique, ottobre 2018.
[6]Marco Noris, Le dimensioni dell’alternativa. Spazi e tempi per un altro mondo necessario, Imprimatur 2017
[7]https://transform-italia.it/sinistra-e-movimenti-nella-grande-regressione-le-convergenze-necessarie/
[8]https://jacobinitalia.it/urbanizzare-il-marxismo/?fbclid=IwAR0zS05PitSV2XnbNsaJfiLjyvrgKj9ag1D_AzQr20HQhM6ggwCi5n-3zuU
[9]Ibidem