articoli

Le politica estera degli Stati Uniti e le sue contraddizioni tra ideologia e realtà

di Alessandro
Scassellati

In previsione delle elezioni presidenziali del 5 novembre è imperativo comprendere la storia recente e le motivazioni della politica estera americana, per contestualizzarla e per ricostruire gli interessi, gli obiettivi e la visione del mondo di coloro che fanno parte dell’amministrazione Biden e probabilmente di una futura amministrazione Harris. Come inquadrano i propri scopi e obiettivi? Come stanno dando la priorità alla valutazione di questi obiettivi l’uno rispetto all’altro? Cosa pensano di fare e cosa stanno effettivamente facendo? Un contributo per discernere le contraddizioni tra l’ideologia alla base della politica estera USA e la realtà della situazione.

Ciò che l’amministrazione Biden – in particolare, Jake Sullivan, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Antony Blinken, il Segretario di Stato, e l’intero team della politica estera statunitense – ha cercato di fare non è solo mantenere l'”ordine mondiale” guidato dall’America, ma anche cercare di trovare un nuovo punto d’appoggio dopo quattro anni di Trump, l’invasione russa dell’Ucraina, la tragica crisi di Gaza e il crescente confronto con la Cina (su tecnologie digitali, import/export, riarmo nucleare, Taiwan, Mar cinese meridionale, espansione della rete di alleanze militari statunitensi in Asia e il rafforzamento dei legami tra la NATO e l’Indo-Pacifico1). L’intero progetto del “Bidenismo” (la “dottrina Biden”) è stato: come possiamo mantenere l’America in cima in un mondo afflitto dalle crisi che Biden ha dovuto affrontare dal momento in cui è entrato in carica?

Ci sono due affermazioni articolate in modo piuttosto astratto come slogan che l’amministrazione Biden ha utilizzato e utilizza per condensare tutte le sue azioni e per cercare di decidere cosa fare in materia di politica estera:

  1. un principio guida è “una politica estera per la classe media“, il che significa che gli Stati Uniti non dovrebbero intraprendere obiettivi e progetti di politica estera a meno che non possano plausibilmente essere “venduti” al pubblico americano come materialmente a beneficio della classe media. Questo è diventato un elemento chiave degli sforzi intrapresi dall’amministrazione Biden per convincere il grande pubblico del ritiro dall’Afghanistan (dove, come in Iraq, gli Stati Uniti e i loro alleati, volevano “esportare la democrazia” con la guerra) nel 2021: perché continuare a buttare via soldi per una guerra impossibile da vincere quando sarebbero potuti essere spesi in infrastrutture o in un’industria verde in patria? Anche il sostegno militare fornito all’Ucraina può essere inquadrato all’interno di questo schema dato che i fondi stanziati dal Congresso sono andati solo nominalmente all’Ucraina, mentre per la gran parte sono rimasti negli USA per pagare le imprese del complesso-militare-industriale che producono armi. Attraverso gli aiuti militari all’Ucraina è stata finanziata una parte importante della politica industriale statunitense, quella orientata al settore militare, creando nuova occupazione e rimettendo in moto le catene del valore e la domanda per componenti e materie prime. Inoltre, la crisi Ucraina ha significato che molti paesi europei – come Germania, Polonia, Finlandia, Svezia, Italia, etc. – hanno aumentato le loro spese militari, con un conseguente rilevante incremento di acquisti da parte loro di sistemi militari statunitensi;
  2. la questione della lotta della democrazia contro l’autocrazia, ossia l’idea che gli Stati Uniti e i suoi alleati, a cominciare dai paesi dell’Unione Europea e della NATO, rappresentano “il mondo libero”, la democrazia globale, la libera impresa, e si confrontano con un asse autoritario globale. I due nodi importanti di quell’asse, ovviamente, sono Russia e Cina, ma anche Iran e Corea del Nord: il cast standard di avversari americani (che include anche Cuba, Venezuela e Nicaragua). L’obiettivo politico è quello di posizionare Trump e i suoi sostenitori come parte di un asse autoritario globale che include anche Putin, Xi e Kim Jong-Un: non si può difendere e rivitalizzare la democrazia in patria (e il 6 gennaio aveva chiarito che una tale difesa era necessaria) senza confrontarsi con i leader che lavorano per erodere la democrazia all’estero.

Queste sono le due idee che dovrebbero essere i principi guida della politica estera di Biden. Quindi, quando Putin invade l’Ucraina, mobilitare l’Europa in difesa dell’Ucraina e inviare enormi quantità di armi è considerato parte della difesa della democrazia globale dall’autocrazia. Sebbene il destino dell’Ucraina continui a essere in bilico dopo quasi tre anni di guerra, gli Stati Uniti sono tornati al loro posto a capotavola nel sistema di alleanze occidentale e sono anche riusciti a mandare un importante competitor economico come la Germania in recessione dal 2023, mettendo a rischio la sopravvivenza del suo apparato industriale e facilitando l’avanzata di partiti politici di estrema destra sia in Germania2 sia nel resto d’Europa (si veda il nostro articolo qui). La Germania è al centro della tempesta perché è il centro nevralgico dell’industria europea, ma l’allarme della crisi industriale/economica è ovunque in Europa. Molti gruppi industriali sono costretti a grandi ristrutturazioni. Un fenomeno che trova la sua origine nel disordine globale derivante dalla crisi sanitaria e geopolitica degli ultimi anni.

Per quanto riguarda un avversario come la Cina, Biden ha effettivamente mantenuto molto del programma tariffario di Trump, che era convinto che la Cina stesse “fregando” gli Stati Uniti3. Trump ha imposto tariffe su una vasta gamma di prodotti cinesi, tra cui televisori, armi, satelliti, pannelli fotovoltaici e batterie, mentre Biden le ha ampliate e anche inasprite in base all’idea che si deve iniziare a escludere la Cina dalla parte dell’economia mondiale dominata dall’America, o almeno rallentarne la crescita e renderle la vita più difficile nel continuare ad operare (sulle tensioni egemoniche fra USA e Cina si vedano i nostri articoli qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui e qui). E questo è giustificato, secondo l’amministrazione Biden, come difesa delle fondamenta economiche della classe media statunitense.

Secondo molti analisti mainstream, dopo il caos della politica estera di Trump, con Biden sono stati messi al centro alcuni principi attorno ai quali è stata orientata la politica estera degli USA, e quei principi suonano buoni e difendibili. Ma cerchiamo di capire cosa ha significato l’applicazione di quei principi per coloro che li applicano.

Una cosa da sottolineare è che i due slogan erano idee che Jake Sullivan, Anthony Blinken e altri che sono arrivati a ricoprire posizioni apicali all’interno dell’amministrazione della politica estera di Biden avevano elaborato mentre Trump era in carica. Si aspettavano di entrare in carica nel 2016, quando Hillary Clinton avrebbe dovuto diventare presidente. L’elezione di Trump è stata per loro una sorpresa devastante e umiliante. Si sono ritrovati “nel deserto” e hanno passato i quattro anni della presidenza Trump a chiedersi come si potesse vincere un’elezione e sviluppare una politica estera in grado di resistere agli attacchi del populismo di destra, isolando così uno sforzo a lungo termine per rafforzare la posizione globale dell’America contro la turbolenza della politica interna del paese. Il principio organizzativo fondamentale è rimasto quello tradizionale: la difesa, il mantenimento, l’adeguamento, il ripristino della leadership economica globale degli Stati Uniti d’America. Questo è il fondamento del suo status di superpotenza solitaria, unilaterale. Questo è ciò che l’amministrazione Biden sta effettivamente cercando di proteggere.

Jake Sullivan viene considerato l’architetto della politica ucraina, della politica tra Stati Uniti e Cina e della politica industriale americana, ma non è uno con idee nuove su cosa gli Stati Uniti dovrebbero effettivamente fare in politica estera. Parte del motivo per cui ha avuto così tanto successo a un’età così giovane è perché la generazione precedente, persone come Hillary Clinton e qualcuno come Joe Biden, lo hanno visto fin dall’inizio della sua carriera come un “talento unico”. Ora, quando tutti quelli che hanno 30 o 40 anni più di te pensano che tu sia un talento unico, quello che intendono è che lui la pensa come loro e che sia soprattutto bravo nell’individuare modi di “impacchettare” e “vendere” la solita vecchia politica estera (la supremazia americana per sempre) agli elettori. Nel corso di una recente visita a Pechino, Sullivan ha ottenuto un incontro con il presidente Xi Jinping per affrontare il tema delle elezioni. Sullivan avrebbe garantito a Xi che se Kamala Harris verrà eletta, gestirà i rapporti con la Cina “in modo responsabile”. Ma nel discorso pronunciato dopo l’investitura alla Convention Nazionale Democratica di Chicago, Harris ha dichiarato: “sarà l’America, e non la Cina, a vincere la battaglia del ventunesimo secolo”.

Tre illusioni

I decisori politici dell’amministrazione Biden, oltre ai due principi, hanno sottoscritto anche una serie di illusioni o fantasie:

  1. l’idea che gli Stati Uniti potessero svincolarsi dal Medio Oriente, senza essere davvero coinvolti nella questione Israele-Palestina e senza cedere una certa misura di controllo sulle dinamiche di potere della regione;
  2. l’idea che l’America rimaneva l’unica vera protagonista negli affari internazionali e che il resto del mondo sarebbe rimasto fermo e avrebbe aspettato di essere rifatto, piuttosto che cercare di far accadere qualcosa da solo;
  3. la fantasia che la politica estera americana potesse essere rivitalizzata e un nuovo secolo di egemonia statunitense potesse essere assicurato semplicemente escogitando nuovi modi di fare il marketing della vecchia politica estera.

Prima del 7 ottobre 2023, ciò che Biden stava cercando di realizzare (e anche il frettoloso e caotico ritiro dall’Afghanistan nel 2021 ha giocato un ruolo in questo) era di allontanare gli Stati Uniti dal Medio Oriente, di mettere il Medio Oriente in secondo piano, che in termini concreti significa che gli Stati Uniti vogliono davvero de-enfatizzare la supervisione militare ed economica diretta della regione. Per fare ciò, il ritiro dall’Afghanistan doveva essere realizzato, ed è anche per questo che Biden ha ripreso gli Accordi di Abramo stabiliti da Trump che escludevano i palestinesi. Era molto entusiasta della prospettiva che l’Arabia Saudita normalizzasse per la prima volta le relazioni diplomatiche con Israele. L’idea era che gli Stati Uniti potessero davvero rafforzare le loro alleanze con i regimi reazionari in tutto il Medio Oriente, dare loro tutte le armi di cui avevano bisogno per tenere in riga l’Iran, la Palestina e altri “attori maligni”, poi gli Stati Uniti avrebbero potuto concentrarsi sulle due sfide per loro davvero importanti, che sono la Cina e la Russia, e in misura minore dal punto di vista dell’amministrazione, anche se ovviamente più importante dal punto di vista di tutti gli altri, il cambiamento climatico.

Quindi, l’amministrazione Biden non aveva un piano per risolvere la questione palestinese su cui avrebbe speso energie. Avrebbe fornito la linea standard quando gli veniva chiesto come gli Stati Uniti sostenessero la soluzione dei “due Stati” (ormai assai logora), ma ha fatto meno di niente per avvicinare la soluzione dei “due Stati” alla realtà. Allo stesso tempo, il suo piano si basava sul presupposto che i palestinesi non avrebbero fatto nulla da soli, che avrebbero sostanzialmente acconsentito a continuare decenni di occupazione, espropriazione e apartheid, e tutto ciò è andato per aria il 7 ottobre dell’anno scorso.

Non essere davvero immischiati nella disputa Israele-Palestina era l’intenzione di tutti gli addetti alla politica estera dell’amministrazione. Ed è molto chiaro che non solo Israele, e non solo gli alleati dell’America, ma gli Stati Uniti stessi sono stati presi completamente alla sprovvista il 7 ottobre4, e quello che è successo da allora è la disperata corsa per contenere l’azione militare di Israele, per cercare di impedirle di diffondersi altrove nella regione, senza fare nulla di concreto per frenare Israele militarmente5. La belligeranza di Israele non è, secondo l’amministrazione Biden, particolarmente uno svantaggio una volta che si valuta ciò che conta. Causa problemi qua e là, ma la sua funzione più importante è quella di garante del controllo degli Stati Uniti sulla regione. Gli Stati Uniti vedono Israele come una specie di cane da guardia ringhiante, e non vogliono davvero tirare troppo forte il guinzaglio, perché se lo facessero, perderebbero i benefici deterrenti dell’aggressione abituale e regolare di Israele verso i suoi vicini (Iran, Siria, Iraq e Libano).

Ma, allo stesso tempo, quello che è successo dal 7 ottobre ha creato un serio problema politico per Joe Biden e ora anche per Kamala Harris. Stanno usando il vecchio copione per difendere Israele. Vale a dire, l’idea che la critica allo Stato d’Israele è antisemita, che “Israele ha il diritto di difendersi”, che è “l’unica democrazia in Medio Oriente” e che ha l’esercito più morale del mondo. Quest’ultima affermazione viene contraddetta dal fatto che ogni settimana arrivano nuove fotografie e filmati di soldati israeliani che compiono allegramente crimini contro i civili palestinesi. Israele è sostanzialmente riluttante a fare il minimo che l’amministrazione Biden vorrebbe che facesse, come fingere di preoccuparsi un po’ di più di dire che crede nella soluzione dei “due Stati”, o qualcosa del genere, o forse nemmeno quello, ma almeno in un percorso di trattativa. Ma invece, il governo israeliano sta dicendo, che deve spazzare via, radere al suolo Gaza e fare la pulizia etnica dei palestinesi dalla Cisgiordania6. Queste posizioni del governo israeliano hanno creato e creano dei problemi per l’amministrazione Biden. Ha dovuto fronteggiare mesi di proteste contro il sostegno politico e militare fornito dagli Stati Uniti ad Israele da parte degli studenti delle università e del segmento più progressista della comunità ebraica che generalmente vota per il Partito Democratico. Queste due componenti del movimento pacifista statunitense hanno messo in discussione la narrazione mainstream che equipara coloro che criticano Israele e l’ideologia sionista ai campioni dell’antisemitismo razzista.

Si è visto il tentativo dell’amministrazione Biden di contenere le ricadute politiche in patria della guerra. È cambiato l’approccio con il passare del tempo, dove nell’immediato del 7 ottobre e durante i primi due mesi di guerra, veniva seguito il copione retorico standard: Hamas e la resistenza palestinese non sono attori politici a pieno titolo, e sono semplicemente un’orda di selvaggi barbari terroristi a cui piace uccidere gli ebrei a causa della loro adesione a un antisemitismo trans-storico (inquadrando la crisi come una guerra tra civiltà e barbarie); Israele è una nazione assediata impantanata in un mare di ostilità che cerca solo di difendere l’esistenza della patria ebraica; ha l’esercito più morale del mondo. Inoltre, ci sono state le continue esagerazioni propagandistiche di ciò che la resistenza palestinese ha fatto il 7 ottobre in termini di crimini di guerra, violenza sessuale e altro genere di cose. Questa narrazione non è stata sostenibile oltre qualche mese perché tutti gli schermi di telefoni e computer sono stati semplicemente riempiti ogni giorno con immagini delle atrocità commesse dall’esercito israeliano a Gaza e dai coloni in Cisgiordania. Quindi, abbiamo assistito ad un cambiamento nel tempo della narrazione con il riconoscimento che troppi palestinesi sono morti (oltre 41mila). Ogni settimana un nuovo orribile incidente ha spinto uno dei portavoce del Dipartimento della Difesa a dire che avevano sottoposto la questione al governo israeliano e che questo stava conducendo un’inchiesta interna, ma che non spetta agli americani dire agli israeliani come combattere la loro guerra anche perché era impossibile giudicare cosa era successo (“siamo così lontani, come potremmo saperlo?”)

Abbiamo visto l’amministrazione Biden cercare di modificare la narrazione un po’ alla volta con il passare del tempo, facendo sentire ciò che vorrebbe che accadesse di più. Questo è un po’ come probabilmente si svolgerà il resto del 2024, almeno fino a quando si arriverà ad un punto in cui Israele potrebbe affermare di aver ottenuto la vittoria a Gaza, e Netanyahu potrebbe essere cacciato dalla carica di primo ministro. Lo sarà quasi certamente una volta che la fase davvero intensa della guerra contro Gaza sarà finita (ma ci sono sempre le possibili escalation in Cisgiordania e Libano e la controreplica ad un eventuale attacco dell’Iran), e poi un attore politico ad ora sconosciuto potrà prendere il suo posto, sebbene condividerà quasi interamente la politica di Netanyahu (forse sarà solo bravo nel fingere di preoccuparsi dei civili palestinesi). Potrebbe essere qualcuno su cui l’amministrazione statunitense potrà proiettare le sue fantasie sul tipo di leader israeliano che vorrebbe che Israele avesse.

Quindi, una delle contraddizioni che l’amministrazione Biden ha incontrato di recente è che Netanyahu non mostra alcun segno di andare da nessuna parte prima delle elezioni (può sempre sperare che vinca il suo amico Trump), il che è una cattiva notizia per le prospettive di Harris in Michigan e Minnesota, tra gli altri Stati, dove vivono estese comunità arabo-palestinesi-islamiche americane. Oltre al fatto che sia rimasto, ci sono stati tentativi poco convinti di dipingerlo come una specie di leader unicamente amorale o sanguinario e non rappresentativo del progetto sionista nel suo insieme. Sfortunatamente, Netanyahu è un rappresentante perfetto del progetto sionista nel suo insieme. D’altra parte, i sondaggi degli ebrei israeliani mostrano che non pensano che a Gaza venga usata troppa forza. Può esserci una disapprovazione per la moralità personale di Benjamin Netanyahu, ma la brutalità della guerra ha un’approvazione diffusa in Israele. Probabilmente, la disapprovazione nella società israeliana verso Netanyahu – espressa con imponenti manifestazioni e uno sciopero generale – non è tanto dovuta alla questione della moralità, quanto alla rabbia per aver permesso che accadesse il raid del 7 ottobre. I documenti emersi negli ultimi mesi sembrano avvalorare la tesi che l’IDF sapeva del piano di attacco dei palestinesi in un certo grado di dettaglio. Quindi, è rabbia per aver permesso che questo accadesse e per la morte e la mancata liberazione degli ostaggi a seguito del rifiuto di Netanyahu di raggiungere un accordo per il cessate il fuoco con Hamas (moltiplicando gli ostacoli al negoziato guidato dagli statunitensi).

Le differenze tra la politica estera di Trump e quella di Biden

Possiamo chiederci in che misura ci sono delle disgiunzioni tra la politica estera del presidente Biden rispetto ad una continuità complessiva della politica estera statunitense. In che modo i progetti sono diversi o la politica estera di Biden è parte di un unico progetto? Le persone nell’amministrazione Biden pensano a sé stesse in una discontinuità rispetto all’amministrazione Trump. Sottolineano quanto Trump possa essere volubile, senza principi e imprevedibile. Ma, effettivamente, in che misura la politica estera dell’amministrazione Biden è stata un allontanamento da quella dell’amministrazione Trump piuttosto che essere in continuità con essa?

La differenza più grande ha a che fare con l’Europa e con la NATO (si veda il nostro articolo qui). Lo sforzo di riparare le relazioni con l’Europa dopo quattro anni di caos indotto da Trump è stato motivato quasi interamente dalla visione di Biden secondo cui gli Stati Uniti non potevano permettersi di affrontare la Russia come una superpotenza solitaria. Dovevano farlo come leader di un sistema mondiale, un “ordine internazionale basato su regole“, per usare l’eufemismo preferito del nostro momento storico per “impero“. Se l’intervento americano nei Balcani (nella ex Jugoslavia) aveva certificato la continua utilità della NATO in un mondo non più definito da conflitti tra grandi potenze, una risposta collettiva all’aggressione di Putin avrebbe confermato che la NATO rimaneva ancora utile in un mondo in cui tale conflitto era tornato. Gran parte delle forze politiche al potere in Europa hanno assecondato il disegno di Biden, evitando di lavorare ad una iniziativa diplomatica europea finalizzata ad aprire un negoziato che ponga fine ai massacri in atto (come hanno fatto Cina, Turchia, Brasile e alcuni paesi africani), limitandosi ad accodarsi agli USA e alla NATO, inviando armi e aiuti finanziari all’Ucraina.

La cosa importante da ricordare è che la politica estera di Trump non è mai realmente esistita come una strategia. Trump non pensa in modo strategico e non ha un piano per quale sarà la posizione dell’America nella politica mondiale tra 25 anni. Non è una questione che gli interessa. Essendo un politico puramente transazionale, quello che interessa a Trump è che se gli Stati Uniti stanno spendendo di più per la difesa rispetto agli alleati della NATO, questo significa che gli Stati Uniti vengono derubati. Se Trump avesse vinto un secondo mandato e poi Putin avesse invaso l’Ucraina, probabilmente la grande differenza sarebbe stata che avremmo visto il sostegno materiale degli Stati Uniti alla difesa dell’Ucraina a un livello molto più basso di quello che Biden è stato in grado di fornire. Probabilmente, non avremmo visto l’uso della retorica della difesa della civiltà contro il militarismo maniacale di Putin7.

Al di fuori dell’Europa e della NATO, la storia è più di continuità che di disgiunzione. Ed è probabilmente vero che nemmeno le persone all’interno dell’amministrazione Biden si considerano di avere posizioni così diverse da quelle dell’amministrazione Trump nei paesi al di fuori dell’Europa. Di questo, però, preferiscono non parlare. Certamente, buona parte del piano di Trump di contrasto della Cina è stato apprezzato, ma il punto di vista dell’amministrazione Biden è stato che il modo in cui Trump perseguiva l’obiettivo fosse stupido, confusionario e casuale, per cui ne hanno semplicemente elaborato una versione più sistematica, tecnocratica e “intelligente”8. Anche il piano di Trump per il Medio Oriente – imperniato sugli Accordi di Abramo – è stato accolto con entusiasmo da Biden e dai suoi collaboratori.

Un punto di disgiunzione tra Biden e Trump è che quest’ultimo aveva in un certo senso consegnato l’America Latina al neoconservatore John Bolton che ha trascorso alcuni mesi a fantasticare sul ridimensionamento dei governi di sinistra in tutto il continente, dicendo che la “dottrina Monroe” del 1823 era viva e vegeta, e cercando di fomentare un colpo di Stato in Venezuela. Biden ha fatto un passo indietro rispetto a queste posizioni. Ma né Trump né Biden hanno fatto molto per cercare di competere con la Cina in termini di partnership economica e fedeltà politica in America Latina e in Africa (proprio in questi giorni si svolge a Pechino il nono Forum di Cooperazione Cina-Africa). Entrambi hanno arrancato9, mentre la Cina ha continuato a lavorare per costruire un mondo multipolare e ad andare avanti nell’approfondire le connessioni con i paesi del Sud del mondo attraverso accordi finanziari e commerciali, nonché il finanziamento di sontuosi progetti infrastrutturali nell’ambito della Belt and Road Initiative (BRI), lanciata nel 2013 e finanziata con oltre un trilione di dollari. Come ha twittato Larry Summers nell’aprile 2023, “Qualcuno di un paese in via di sviluppo mi ha detto: ‘Quello che riceviamo dalla Cina è un aeroporto. Quello che riceviamo dagli Stati Uniti è una lezione’”. La Cina è anche il principale donatore in Africa, dove molti paesi stanno lottando con un debito crescente. C’è poi l’espansione della rete dei BRICS e di quella della Shangai Cooperation Organization. Senza considerare che durante la crisi del CoVid-19, la Cina ha messo a disposizione vaccini e altre forniture sanitarie in tutto il mondo, mentre gli Stati Uniti (e i loro alleati europei) non solo non l’hanno fatto, ma si sono impegnati – con una campagna dell’esercito americano – a screditare l’efficacia dei vaccini cinesi nelle Filippine (un paese che ha avuto una risposta al CoVid-19 davvero disastrosa con le persone che non si fidavano dei vaccini).

Una delle misure che l’amministrazione Biden ha intrapreso negli ultimi mesi è stata l’imposizione di tariffe protezionistiche del 100% sulle auto elettriche cinesi (si vedano i nostri articoli qui e qui), oltre che cercare di impedire di fare entrare in Cina i semiconduttori di ultima generazione in modo che non possano essere utilizzati nella fabbricazione di auto e di altri beni. Ma il fatto è che la Cina produce le migliori e più economiche auto elettriche al mondo. Lo fa da alcuni anni e oggi 6 delle 10 auto elettriche più vendute al mondo sono prodotte da aziende cinesi. Macchine che sono state escluse dal mercato statunitense. Le imprese cinesi producono veicoli elettrici economici e ben fatti e, considerando l’importanza di togliere rapidamente dalla strada i motori a combustibili fossili, si sarebbe potuto pensare che Biden avrebbe potuto accogliere a braccia aperte le esportazioni cinesi. Invece, Biden e i suoi funzionari parlano di queste auto come di “minacce alla sicurezza nazionale” e dicono che non permetteranno a queste piccole utilitarie elettriche digitalizzate di inviare “dati sensibili” dei cittadini americani al Partito Comunista Cinese.

È solo un esempio di come tutto ciò che Biden vuole fare in politica estera sia pieno di contraddizioni. Se Biden ha intenzione di vietare tutte le auto elettriche economiche cinesi e allo stesso tempo di impegnarsi a ridurre le emissioni, finisce nella strana condizione in cui sta cercando disperatamente di fermare l’unica cosa che potrebbe aiutarlo molto seriamente nella sua missione di contrasto ai cambiamenti climatici.

Il vero problema con l’approccio di Biden al cambiamento climatico è che lo sta vedendo in termini nazionalisti. La descrizione più succinta che si può dare del piano di Biden per affrontare il cambiamento climatico (con l’Inflation Reduction Act – IRA e altre misure) è di un “keynesismo verde militarista, protezionista e nazionalista”. Un approccio sostenuto dalle organizzazioni sindacali, per cui Biden può orgogliosamente sostenere che la sua è “l’amministrazione più pro-sindacale nella storia americana”10. L’idea è che questa impostazione faccia parte di una ricerca continua di ciò che riporterà la crescita economica globale ai livelli che abbiamo visto negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, quando le cose andavano davvero bene per gli Stati Uniti. L’ondata di produzione che ha spinto gli Stati Uniti in cima alla gerarchia del potere globale ha raggiunto il culmine alla fine degli anni ’60 e da allora sta svanendo. La crescita globale sta rallentando da decenni a causa di una persistente sovracapacità produttiva, con conseguente aumento di bassi salari, disoccupazione e sottoccupazione strutturale, lavoro migrante, crescente disuguaglianza economica e maggiore instabilità politica tra le crescenti popolazioni in surplus del mondo (si veda il nostro articolo qui).

Incapaci di risolvere il problema della sovracapacità produttiva innescando una nuova ondata di crescita globale, gli Stati Uniti hanno tentato più volte di aumentare la performance economica attraverso altri mezzi, in particolare l’inflazione dei prezzi degli asset finanziari (le bolle speculative per i ricchi) ottenuta attraverso l’iniezione di liquidità nel sistema finanziario che determina l’aumento dei prezzi delle azioni e obbligazioni e dei prezzi degli immobili. Dalla bolla delle dot-com degli anni ’90 al boom immobiliare degli anni 2000, alla decisione della Federal Reserve di mantenere i tassi di interesse il più bassi possibile dal 2008 al 2022, nessuna versione dell’inflazione dei prezzi degli asset finanziari ha mai prodotto più di una soluzione temporanea, e alcune di esse sono culminate in crisi distruttive a loro volta. Tuttavia, gli Stati Uniti non possono abbandonare del tutto l’inflazione dei prezzi degli asset, come dimostra l’attuale eccessiva dipendenza del mercato azionario da una manciata di giganti della tecnologia11. Ogni volta che una nuova start-up annuncia di aver sbloccato il potenziale della blockchain, delle criptovalute, dei prodotti digitali indossabili o (più di recente) dell’intelligenza artificiale, investitori e decisori politici sono ansiosi di dargli ascolto, e non è difficile capire perché. Per gli investitori inondati di capitale in eccesso, ogni annuncio del genere significa un’altra manna speculativa, e per i decisori politici ogni innovazione nascente offre l’allettante possibilità di crescita. Se una delle invenzioni della Silicon Valley dovesse mai effettivamente realizzare quel potenziale, gli Stati Uniti potrebbero essere in grado di guardare avanti a una nuova era di dominio continuo.

Quale sarà il prossimo driver dell’accumulazione? Una risposta ovvia è l’energia rinnovabile e la tecnologia verde. Quindi con Biden, durante la campagna e in carica, c’è stata una continua retorica su come gli Stati Uniti vinceranno la transizione verde. Si affermeranno come i principali produttori della tecnologia che li aiuterà a decarbonizzare l’economia globale e che garantirà il potere americano fino alla fine del 21° secolo12.

Il problema è che il cambiamento climatico non è una crisi che può essere affrontata in modo produttivo in termini nazionalisti. Per definizione, questo non è un problema che può essere affrontato attraverso la competizione tra Stati nazionali e una “globalizzazzione selettiva” regolata sulla base degli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti (ossia al di fuori e contro le regole del WTO). Ciò che serve è coordinamento e cooperazione, su scala globale, per decarbonizzare la produzione il più rapidamente possibile. Al contrario, l’amministrazione Biden sta perdendo tempo nel tentativo di sostenere aziende nazionali che sono chiaramente inferiori alle loro controparti internazionali (soprattutto cinesi), ritardando ulteriormente uno sforzo di decarbonizzazione che è già irrimediabilmente in ritardo. Per cui, il modo in cui Biden sta inquadrando la soluzione è del tutto incoerente rispetto all’obiettivo che afferma di voler raggiungere.

La perdita di egemonia

Al di là di tutti gli slogan e sotto l’apparente discontinuità tra Biden e Trump, c’è una potenza egemone – gli Stati Uniti – che cerca e fallisce nel preservare il suo potere mentre questo gli scivola via tra le mani. O, meglio, stiamo assistendo ad una potenza egemone che non riesce a mantenere la sua egemonia. Per presidenti come Trump e Biden che vivono con l’illusione di poter controllare il mondo, le loro misure per cercare di mantenere quel controllo, di fatto, sono controproducenti e potenzialmente suicide.

Nel suo libro “Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo” (Il Saggiatore, Milano 2014 [1994]), Giovanni Arrighi discute la sequenza di egemoni che hanno guidato l’economia da quando è nato il capitalismo prima mercantile e poi industriale. Inizia con le città-Stato italiane, poi ci sono stati gli olandesi, poi gli inglesi, e poi gli americani. Arrighi definisce l’egemonia come basata sostanzialmente sulla forza coercitiva, ma che, per essere egemonia, deve anche essere semi-consensuale. L’egemone deve essere in grado di sostenere con una qualche credibilità che il suo potere, la sua supremazia, fornisce abbastanza benefici ai paesi non egemonici che vale la pena tollerarla. E durante gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, quando la crescita globale era semplicemente esplosiva, quell’argomentazione era plausibile. Anche negli anni ’70, quando è emersa l’attuale crisi strutturale in cui si trova l’economia guidata dagli Stati Uniti, la crescita era ancora abbastanza elevata. L’industria stava crescendo in Giappone, Germania, Corea del Sud e altri Stati alleati americani, e gli Stati Uniti potevano sostenere che gli si dovesse permettere di rimanere in cima.

Arrighi aveva affermato che la crescita era ormai rallentata abbastanza e, alla fine del XX secolo, gli Stati Uniti non potevano più mantenere la loro posizione di supremazia globale attraverso mezzi economici (la crescita), fornendo al Giappone o alla Germania una potente economia industriale. Ciò che si è ottenuto con la guerra al terrore dopo l’11 settembre 2001, essenzialmente, è stata la transizione verso un affidamento principalmente sull’esercito e sulla forza coercitiva militare e finanziaria (dollaro, debito, sanzioni unilaterali, dazi, sequestro e congelamento di riserve valutarie…) per consentire agli Stati Uniti di rimanere in cima alla piramide.

Inquadrando il conflitto con l’islamismo in termini globali e sottolineando la natura amorfa del nemico, gli Stati Uniti hanno avanzato una giustificazione per militarizzare la propria relazione con gran parte del mondo, schierando Forze speciali e droni Predator per sorvegliare le sacche di disordini nei paesi poveri e a medio reddito, proprio come le agenzie di polizia nazionali pattugliano le comunità povere in patria. Con il suo potere militare diffuso in tutte le regioni critiche del mondo in via di sviluppo (grazie alle oltre 800 basi militari di cui dispongono) piuttosto che concentrandosi su un fronte particolare, gli Stati Uniti hanno cercato di assicurarsi di poter gestire e contenere le conseguenze globali dell’ordine economico sempre più frammentato che supervisionavano. Non era una soluzione alla crisi che si stava sviluppando dagli anni ’70, ma era la migliore alternativa disponibile: una militarizzazione più approfondita delle relazioni globali ha potuto almeno far guadagnare a Washington un po’ di tempo mentre aspettava che si materializzasse la successiva ondata di crescita e di accumulazione.

Parte dell’egemonia, inoltre, non consiste solo nel convincere le persone di altri paesi, ma anche nel convincere i propri cittadini che è un bene per il mondo se gli Stati Uniti sono il paese più potente. Dal 7 ottobre, tutta questa retorica sull’”eccezionalismo americano”, su come gli Stati Uniti sostengano la libertà e i diritti umani sembra essere diventata assolutamente ridicola. L’amministrazione Biden sperava di ottenere una grande spinta morale dalla sua difesa dell’Ucraina dall’attacco di Putin, ma solo una cinquantina di paesi li hanno seguiti nell’imposizione di sanzioni contro la Russia.

Ciò che Biden ha ottenuto dal 7 ottobre è che un nuovo sempre più ampio segmento del pubblico americano e globale si rende conto che il potere statunitense non si basa sui suoi ideali, principi o sul fatto che rende la vita migliore per il resto del mondo, mentre invece il suo fondamento a questo punto è principalmente militarismo, basi militari, coercizione e violenza esercitati direttamente o attraverso dei proxy.

Il risultato è che sembra probabile che Biden lasci l’incarico nel 2025 avendo intensificato proprio quei fattori di crisi dell’egemonia americana che ha cercato di risolvere. Gran parte del Sud del mondo – in particolare i paesi in via di sviluppo che la Cina sta corteggiando in modo aggressivo – guarda agli Stati Uniti con disprezzo. Nove paesi hanno sospeso o tagliato i rapporti diplomatici con Israele a causa della guerra, e un diplomatico africano ha detto ai giornalisti che il veto americano alla risoluzione del cessate il fuoco delle Nazioni Unite “ci ha detto che le vite ucraine sono più preziose di quelle palestinesi”. “Abbiamo sicuramente perso la battaglia nel Sud del mondo”, ha detto un diplomatico del G7. “Dimenticatevi delle regole, dimenticatevi dell’ordine mondiale. Non ci ascolteranno mai più”.

Da Biden a Harris, cambia qualcosa?

Ora, la domanda è se la politica estera di Kamala Harris si discosterà da quella di Biden. Il presidente Biden ama dire che gli Stati Uniti sono a un “punto di svolta” nella storia mondiale, sia per quanto riguarda la lotta al cambiamento climatico e alla disuguaglianza razziale, la protezione dell’Ucraina e della democrazia globale, la navigazione in una nuova era di relazioni tra Stati Uniti e Cina o il ripristino di un’economia che avvantaggia la classe media. Se Kamala Harris sconfiggerà Donald Trump a novembre, erediterà questi punti di svolta, insieme a una politica estera sempre più anacronistica e non efficace per affrontarli. La “dottrina Harris” estenderebbe semplicemente la “dottrina Biden”?

Sul fronte di Kiev, Harris promette di “essere al fianco dell’Ucraina” aggredita dalla Russia e “dei nostri alleati NATO” che la sostengono con aiuti militari ed economici13. E aggiunge “non mi accordo con tiranni e dittatori” come il nordcoreano Kim Jong-un. Ovvero, l’Ucraina deve essere difesa e non si fanno sconti alle autocrazie. Secondo un “falco” pro-USA e pro-Israele ben informato come il direttore della Repubblica Maurizio Molinari (1º settembre 2024, pp. 1-25), “insomma, quale che sia la conclusione della guerra in Ucraina, per Harris deve passare attraverso una sconfitta del tentativo di Mosca di ridefinire la sicurezza europea ai danni dell’Alleanza”.

Harris ha scelto come consulente internazionale Philip Gordon, un veterano della Brookings Institution, del Dipartimento di Stato e dell’amministrazione Obama che dal 2009 si occupa di Europa e Eurasia, sempre con la priorità di rafforzare la NATO. Quella di Gordon è una visione pragmatica e cauta, “centrista”, sugli affari internazionali. Il suo libro più recente, “Losing the Long Game: The False Promise of Regime Change in the Middle East” (2020), racconta la storia degli sforzi degli Stati Uniti per deporre i leader in Medio Oriente. È anche una parabola per i decisori politici. Nel tentativo di rovesciare i dittatori, documenta Gordon, gli Stati Uniti hanno perennemente valutato male le proprie capacità, hanno agito impunemente e sostituito le buone intenzioni a una strategia attenta e ben sviluppata. “Il dibattito politico degli Stati Uniti sul Medio Oriente soffre dell’errore che esista una soluzione americana esterna a ogni problema, anche quando decenni di dolorosa esperienza suggeriscono che non è così”, scrive. E il cambio di regime è la peggiore “soluzione”.

In ogni caso, per quanto ha detto finora, anche sul Medio Oriente Harris esprime una linea di continuità con Biden. Ha delineato tre priorità:

  1. la sicurezza di Israele, per cui si impegna a “sostenere sempre il diritto di Israele di difendersi” e a “fare in modo che Israele abbia la capacità di difendersi”, ossia ribadisce che esiste un legame indissolubile tra USA e Israele;
  2. i diritti dei palestinesi ma all’interno di un chiaro obiettivo che privilegia la difesa e sicurezza di Israele, per cui occorre “porre fine alla guerra in modo che Israele sia al sicuro, gli ostaggi siano liberati, le sofferenze a Gaza finiscano e il popolo palestinese possa realizzare il suo diritto a dignità, sicurezza, libertà ed all’autodeterminazione”. Come nota sempre Molinari, “è un linguaggio in piena continuità con gli accordi di Camp David del 1979, le intese di Oslo del 1993, la pace Israele-Giordania del 1994 e gli accordi di Abramo del 2020 perché rinnova l’impegno ad una pace in Medio Oriente che le amministrazioni Carter, Clinton, Bush, Obama e Trump hanno perseguito – sebbene con inevitabili differenze politiche – basandosi su garanzie di sicurezza di Israele e rispetto dei diritti dei palestinesi. Ecco perché, aggiunge Harris, ‘non esiterò mai a intraprendere qualsiasi azione necessaria per difendere le nostre forze e i nostri interessi dall’Iran e dai terroristi sostenuti dall’Iran’. Per il semplice motivo – aggiunge Molinari – che è Teheran ad opporsi alla pace, al fine di garantirsi l’egemonia sull’intero Medio Oriente”. Pertanto, Harris, pur esprimendo solidarietà nei confronti delle sofferenze dei civili palestinesi a Gaza e pur non nascondendo disaccordi politici con Netanyahu, evita di accusare lo Stato di Israele di “politiche criminali”, “genocidio” o “violazione della legge internazionale”, né condivide le proposte di boicottaggi o sanzioni di vasta portata;
  3. la lotta all’antisemitismo basata sul legame fra antisionismo ed antisemitismo: “quando Israele viene additato a causa di odio antiebraico, si tratta di antisemitismo” ha dichiarato Harris nel 2021.

Alessandro Scassellati

  1. Negli ultimi anni, gli Stati Uniti hanno ottenuto alcuni successi nel Sud-est asiatico. L’amministrazione Biden ha rafforzato i legami in particolare con le Filippine, assicurandosi l’accesso a quattro nuove strutture militari nel 2023. In risposta al continuo impegno diplomatico di alto livello culminato nella visita di Biden ad Hanoi nel settembre dello scorso anno, anche il Vietnam ha formalmente migliorato di due livelli il suo rapporto con gli Stati Uniti, trasformandolo in una “partnership strategica globale”, sebbene la misura in cui ciò si tradurrà in una maggiore cooperazione in materia di difesa e sicurezza e in legami economici più profondi resti da vedere. Oltre alle Filippine, i principali alleati degli Stati Uniti sono Singapore, Corea del Sud, Giappone e Thailandia (tutti fortemente interconnessi con la Cina sul piano degli scambi economici), dove gli USA hanno strutture militari che sarebbero particolarmente importanti in caso di conflitto aperto con la Cina. Poi, ci sono sempre l’Australia (parte del patto AUKUS, con USA e UK, e della rete QUAD, con USA, Giappone e India) e la Nuova Zelanda. Ma con la maggior parte degli altri paesi nel Sud-est asiatico (a cominciare dall’India), tuttavia, gli Stati Uniti non hanno fatto progressi sul piano delle alleanze militari.[]
  2. Dal 2018, la Germania è stata l’economia a crescita più lenta nel G7, con un’espansione media dello 0,4% all’anno. Mentre il resto dei quattro grandi paesi dell’eurozona – Francia, Italia e Spagna – hanno mostrato segnali di ripresa dal rallentamento causato dallo shock energetico indotto dalla guerra in Ucraina, la Germania ha continuato a lottare e sta ancora danzando al ritmo della recessione tecnica. La Germania è stata particolarmente esposta all’aumento del costo del gas sui mercati globali innescato dall’invasione russa nel 2022, non da ultimo a causa della sua elevata concentrazione di industrie ad alta intensità energetica. Ma ci sono anche cause strutturali, la principale delle quali è la determinazione ad aggrapparsi al modello industriale che ha portato tanto successo dal secondo dopoguerra, ma che ormai è scaduto. Il mondo analogico sta rapidamente diventando digitale – con i nuovi settori in crescita: smartphone, veicoli elettrici, intelligenza artificiale (IA) – e la Germania è stata dolorosamente lenta a rendersene conto. In un certo senso, la Germania è diventata vittima del suo stesso successo. Non ha visto alcun motivo per cambiare il modello industriale e ha investito troppo poco in infrastrutture fisiche, umane e digitali. Né la Germania ha mantenuto la sua reputazione di lungimiranza quando si tratta di transizione verso i veicoli elettrici. Al contrario, le grandi case automobilistiche sono state tristemente miopi quando hanno affrontato la minaccia esistenziale posta dai modelli cinesi a basso costo. Ora, la Volkswagen sta valutando la chiusura di due stabilimenti tedeschi per risparmiare miliardi di costi. Si vedano il nostri articoli qui e qui.[]
  3. “Le guerre commerciali sono una cosa positiva”, aveva twittato Trump, “e facili da vincere”. Ciò si è rivelato non vero. Come strumento politico specifico, i dazi sono stati un fallimento. Vari rapporti hanno stimato che hanno ridotto il PIL statunitense di circa mezzo punto percentuale e potrebbero anche essere costati all’economia statunitense circa 300.000 posti di lavoro. Invece di ridurre il deficit commerciale complessivo dell’America, i dazi lo hanno semplicemente spostato dalla Cina verso altre economie dell’Asia orientale e sudorientale.[]
  4. La nozione che i Palestinesi fossero un attore politico non ha avuto alcun ruolo nella strategia globale del Dipartimento di Stato, un punto cieco illustrato in modo più vivido dal fatto che Jake Sullivan ha scritto quanto segue in un saggio su Foreign Affairs andato in stampa il 2 ottobre 2023: “Sebbene il Medio Oriente rimanga afflitto da sfide perenni, la regione è più tranquilla di quanto non lo sia stata per decenni”.[]
  5. Dal 7 ottobre, un’amministrazione statunitense che ha preso il potere promettendo di guidare una difesa mondiale dell’umanesimo democratico ha gettato tutto il peso della sua potenza diplomatica e dell’industria manifatturiera delle armi dietro un governo israeliano di destra che sta portando avanti una delle campagne di punizione collettiva più brutali della storia. Biden ha posto il veto a diverse risoluzioni delle Nazioni Unite che chiedevano un cessate il fuoco a Gaza, Blinken ha definito “infondato” il caso del Sudafrica contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia e il portavoce del Dipartimento della Difesa John Kirby ha ripetutamente affermato che gli Stati Uniti si rifiutavano di tracciare “linee rosse” sulla condotta di Israele a Gaza, condotta che ha incluso l’uccisione di massa di persone in fila per ricevere aiuti alimentari.[]
  6. Dal 7 di ottobre in Cisgiordania ci sono stati oltre 650 morti e 10 mila arresti tra i palestinesi. Gli attacchi dei coloni sono stati 1.200 con più di 120 morti. Secondo l’organizzazione Peace Now in pochi mesi Israele si è impadronito di 24 chilometri quadrati di territorio palestinese, più di quanto ne abbia sottratto negli ultimi 20 anni. L’esercito israeliano e i coloni da ottobre scorso hanno distrutto oltre 1.400 case e infrastrutture lasciando senza abitazione e un rifugio almeno 3.200 palestinesi. A loro posto in meno di un anno sono stati creati 44 avamposti di coloni, cinque volte di più che negli anni precedenti.[]
  7. Putin potrà essere paranoico, ma non è un “pazzo” e non avrebbe invaso l’Ucraina per bloccare la continua espansione della NATO verso est, se non avesse deciso che gli Stati Uniti, e, per estensione, il sistema di alleanze che funge da fondamento del loro potere transoceanico, erano più deboli che in qualsiasi altro momento degli ultimi trent’anni grazie alla combinazione dell’invasione dell’Iraq, della crisi finanziaria globale e di una posizione militare generalmente sovra-estesa. E in Cina, gli Stati Uniti affrontano un rivale credibile per lo status di superpotenza per la prima volta in quarant’anni (si veda il nostro articolo qui). Queste sfide alla supremazia degli Stati Uniti sono arrivate in un momento in cui la capacità dell’America di tenere sotto controllo sia i suoi alleati sia i suoi nemici è notevolmente diminuita.[]
  8. La strategia di sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden dell’ottobre 2022 non lascia dubbi sul fatto che la competizione con Pechino sia ora il principio organizzativo della politica estera degli Stati Uniti. “La Repubblica Popolare Cinese”, afferma, “nutre l’intenzione e, sempre più, la capacità di rimodellare l’ordine internazionale a favore di uno che inclini il campo di gioco globale a suo vantaggio”. I prossimi dieci anni, avverte, saranno il “decennio decisivo”, una frase che ripete cinque volte. Impedire alla Cina di superare gli Stati Uniti come economia più forte del mondo e di affermarsi come potenza egemone regionale nell’Asia orientale “richiederà agli Stati Uniti nell’Indo-Pacifico più di quanto ci è stato chiesto dalla Seconda guerra mondiale”, un’affermazione accattivante se si considerano le risorse che gli Stati Uniti hanno dedicato ai loro conflitti in Corea e Vietnam. Mentre gli scambi dell’amministrazione Biden con la Cina non hanno comportato tante minacce come quelle di Trump, è anche chiaro che un conflitto militare è sul tavolo nel caso in cui la competizione economica non vada bene per gli Stati Uniti. Nei primi due decenni del ventunesimo secolo, gli analisti mainstream erano quasi tutti concordi nel ritenere che l’economia cinese avrebbe superato quella americana in termini di PIL. Oggi, nonostante il ritmo della crescita sia rallentato e si debba confrontare con gli stessi problemi di sovracapacità e di elevati oneri del debito, in particolare nel settore immobiliare, che hanno a lungo turbato il Nord del mondo e che hanno reso i consumatori e le aziende cinesi cauti, la Cina continua a trarre vantaggio dall’approfondimento delle relazioni commerciali con il mondo emergente e i suoi vantaggi in termini di costi nella produzione di beni di consumo durevoli come le auto elettriche rappresentano una seria sfida per gli Stati Uniti. Questa non è una situazione che gli americani conoscono: gli Stati Uniti hanno avuto la più grande economia del mondo dalla fine del diciannovesimo secolo e sono stati lo Stato nazionale più potente del mondo dalla Seconda guerra mondiale. Ora, per la prima volta da generazioni, la supremazia americana non può essere data per scontata e, secondo alcuni parametri, la sua supremazia economica è già finita. Quando si tiene conto della parità del potere d’acquisto, il PIL della Cina ha superato quello degli Stati Uniti intorno al 2016.[]
  9. Nel 2021, l’amministrazione Biden ha deciso che era giunto il momento di trovare un’alternativa alla BRI cinese e il G7 ha lanciato formalmente Build Back Better World, o “b3w”, una controparte di investimento internazionale al programma di stimolo industriale nazionale di Biden. Promettendo di ottenere fondi del settore privato per i paesi a basso e medio reddito, l’amministrazione ha affermato che “b3w catalizzerà collettivamente centinaia di miliardi di dollari di investimenti infrastrutturali… nei prossimi anni”. Al momento, l’impegno totale dell’America per il programma, che nel frattempo è stato rinominato Partnership for Global Infrastructure and Investment, si attesta sui 30 miliardi di dollari.[]
  10. In questo senso, un caso emblematico è quello della US Steel. Harris si è espressa contro l’imminente acquisto di US Steel da parte di Nippon Steel, sostenendo che l’iconica azienda siderurgica della Pennsylvania dovrebbe rimanere nelle mani di proprietari americani. “US Steel è un’azienda americana storica ed è fondamentale per la nostra nazione mantenere forti aziende siderurgiche americane. E non potrei essere più d’accordo con il presidente Biden: US Steel dovrebbe rimanere di proprietà americana e gestita da americani”. Il sindacato United Steelworkers, che rappresenta circa 10mila dipendenti della US Steel, si oppone all’accordo da 14,9 miliardi di dollari, contestando le presunte violazioni dei diritti del sindacato da parte della Nippon Steel in merito al cambio di controllo ai sensi del loro accordo di base quadriennale firmato nel 2022. Il sindacato e le aziende sono in trattative di arbitrato. Harris ha espresso il suo sostegno al Protecting the Right to Organize (PRO) Act, un ampio insieme di riforme del lavoro che stimolerebbero l’organizzazione sindacale. Biden ha più volte dichiarato che “Wall Street non ha costruito l’America. La classe media ha costruito l’America e i sindacati hanno costruito la classe media”. Biden è il primo presidente in carica a partecipare ad un picchetto sindacale, sostenendo l’United Auto Workers nella sua disputa con le principali case automobilistiche nel settembre 2023. “Voi ragazzi, la UAW, avete salvato l’industria automobilistica nel 2008 e prima”, ha urlato Biden attraverso un megafono sulla linea di picchetto nel Michigan. “Avete fatto molti sacrifici, rinunciato a molto. Le aziende erano nei guai. Ora stanno andando incredibilmente bene e indovinate un po’? Dovreste andare incredibilmente bene anche voi”. Shawn Fain, presidente della UAW, è stato sia una voce potente che ha rinvigorito il movimento sindacale americano sia un accanito oppositore di Trump. “Donald Trump è tutto chiacchiere e Kamala Harris cammina”, ha detto Fain alla Convention nazionale democratica ad agosto, mentre indossava una maglietta con la scritta “Trump è un crumiro”. Sulla vicenda della vertenza dei lavoratori dell’auto si vedano i nostri articoli qui e qui.[]
  11. Proprio in questi giorni, i mercati finanziari in Asia e negli Stati Uniti sono crollati a causa delle preoccupazioni che l’economia statunitense potrebbe dirigersi verso una recessione. Le azioni del gigante americano dei chip Nvidia sono crollate di quasi il 10% poiché le preoccupazioni per l’economia hanno smorzato l’ottimismo sul boom dell’intelligenza artificiale (IA). Nvidia, quotata al Nasdaq, è scesa del 9,5%, cancellando 279 miliardi di dollari dalla sua valutazione di mercato azionario. Anche altri giganti della tecnologia statunitense, tra cui Alphabet, Apple e Microsoft, hanno visto le loro azioni crollare.[]
  12. Da notare che l’IRA, presentato dalla Casa Bianca come il più grande pacchetto di politiche verdi della storia, non prevede un solo dollaro di investimenti per il trasporto pubblico negli Stati Uniti, dove i trasporti sono responsabili di quasi un terzo delle emissioni totali di carbonio.[]
  13. In ogni caso, è probabile che qualcosa cambi nel rapporto tra Stati Uniti ed Europa. Il presidente Biden è l’ultimo della generazione di politici americani formatisi durante la Guerra Fredda, visceralmente legati ai paesi europei nel bene e nel male, che hanno considerato la partnership transatlantica con un dogma semi-religioso. Con Harris, l’Europa dovrà abbracciare nuovi Stati Uniti, più sulla costa occidentale, profondamente legati all’Asia e all’America Latina, forse a spese della partnership con l’Europa.[]
Articolo precedente
Algeria e Tunisia: elezioni presidenziali ma a quali condizioni?
Articolo successivo
Nuove divisioni nella sinistra radicale in Europa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.