La città e le dinamiche relative all’esigibilità del diritto alla casa sono un buon punto di osservazione per comprendere i processi di mutamento della composizione sociale della società. A questo riguardo, il libro Le nuove recinzioni. Città, finanza e impoverimento degli abitanti (Carocci Editore, Roma 2023) offre un’analisi e delle riflessioni importanti. Gli autori – Stefano Portelli1, Luca Rossomando2 e Lucia Tozzi3 – sono tre ricercatori, attivisti e giornalisti che da anni lavorano su questi temi in diretto contatto con i soggetti sociali più fragili che sempre più spesso la casa la perdono, perché non più in grado di pagare affitti e mutui, e di conseguenza vengono sfrattati (con sgomberi e pignoramenti) ed espulsi dal territorio che abitano verso sempre più lontane e squallide periferie ai margini delle aree metropolitane.
Il libro ha inaugurato una collana dell’editore Carocci dedicata a “territorio e società”, un segnale del fatto che la questione dell’ingerenza della finanza (grande e piccola) nella vita urbana e nella vita sociale in generale, sta diventando un tema rilevante, soprattutto per quanto riguarda il diritto alla casa.
I tre autori, infatti, concentrano la loro analisi sui rapporti tra finanza e mondo immobiliare con lo sguardo puntato sui processi e sulle conseguenze che l’avanzare spedito e turbinoso di questo binomio ha sulla vita, sull’abitare nei quartieri delle città, sulla proprietà della casa e soprattutto sul cosiddetto “mercato” degli affitti. Il libro ha una introduzione il cui titolo – “La povertà delle persone come conseguenza della ricchezza del territorio” – riprende una frase dello storico latinoamericano dei processi di espropriazione Edoardo Galeano e cerca di ricondurre ad un unico comun denominatore le analisi specifiche sviluppate nei tre capitoli successivi su Milano, Roma e Napoli, tre grandi aree metropolitane investite apparentemente da processi molto diversi. Sostengono che c’è una linea di continuità tra quella che viene più generalmente chiamata gentrificazione (un processo attualmente in corso nei Quartieri Spagnoli di Napoli), diverse forme di privatizzazione del welfare (come quelle relative alle trasformazioni dell’edilizia convenzionata/agevolata a Roma attraverso privatizzazioni e cartolarizzazioni) e la grande finanziarizzazione dell’immobiliare e dell’abitare sociale (quella che si vede nella luccicante Milano) che ha che fare con forme di appropriazione di beni comuni (le “nuove recinzioni”) e con la loro trasformazione in strumenti di profitto. Processi che nelle analisi mainstream fin dagli anni ’90 del secolo scorso passano normalmente sotto l’etichetta della “valorizzazione” di spazi urbani, di forme di vita, di strumenti di welfare (della cura e riproduzione sociale), dell’associazionismo fino ad arrivare anche al pensiero critico della vita sociale (che prevedono la partecipazione attiva degli abitanti e delle organizzazioni di volontariato e terzo settore).
L’intenzione dei tre autori è quella di mettere insieme fenomeni sociali apparentemente diversi per ricondurli ad un fenomeno unico che hanno chiamato, appunto, le “nuove recinzioni”, che consente un enorme accaparramento di risorse immobiliari da parte di una ristretta èlite economico-politica che le mette a valore per trasformarle in strumenti di rendita e profitto4.
Alla progressiva concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e al conseguente impoverimento del resto della popolazione5 corrisponde ovunque il tentativo di “valorizzare” parti delle città e delle risorse collettive per trasformarle in strumenti di profitto. Gli autori sostengono che «l’accumulazione di profitti sulle città avviene soprattutto trasformando gli usi e il senso di alcune risorse prima considerate collettive, gestite dalla popolazione, tutelate dallo Stato, o comunque non votate principalmente al profitto. Per rendere redditizie queste risorse, si inventano nuove rappresentazioni delle città e della società, che spesso vengono fatte proprie, con scarsa consapevolezza, anche da alcuni abitanti e associazioni locali» (pag. 10).
Come avvenne con le enclosures agli albori del capitalismo (tra i secoli XVI e XVII), quando signori e nobili inglesi (e non solo) recintarono terre e beni comuni, trasformandole in proprietà private per accumularne la rendita e costringere i contadini all’esodo e/o al lavoro salariato6, oggi le classi dirigenti – dagli imprenditori locali alle élite finanziarie che possiedono la maggior parte della ricchezza – ambiscono ad appropriarsi di tutto ciò che ancora rimane fuori dal mercato come patrimonio collettivo: non solo gli spazi urbani (come anche le terre comunitarie delle popolazioni indigene del Sud Globale), ma anche il welfare, l’associazionismo, il terzo settore, addirittura il pensiero critico. Processi di progressiva appropriazione/espropriazione spesso realizzati in modo aperto e pienamente visibile (con il sostegno attivo delle istituzioni all’interno di una narrazione basata sulla “valorizzazione” del territorio) e in altri casi sottotraccia, mimetizzandoli anche attraverso la cattura e strumentalizzazione o la mediazione di progetti nati da un protagonismo “dal basso” da soggetti del privato sociale, dell’università e della piccola imprenditoria radicati nel locale che vengono finanziati dalla cosiddetta “finanza etica” e dalla nuova “finanza d’impatto” (Social Impact Investing).
Proprio a seguito delle diverse strategie e tattiche utilizzate, abitanti e analisti tendono a non vedere questi processi come parte del lavoro delle “nuove recinzioni”, per cui fenomeni come la cartolarizzazione dell’edilizia in convenzione di proprietà degli enti previdenziali sembra un tema per esperti, difficile da associare al processo di recinzione del welfare che è molto più visibile nella sanità, la scuola o l’assistenza domiciliare agli anziani. L’importanza di questo libro è di offrire una narrazione che identifica un nucleo comune a tanti processi urbani che sembrano radicalmente diversi e che quindi consente di mettere in comune le battaglie su ogni singolo processo che investe il diritto alla casa. Ad esempio, dimostrando che il fronte di lotta e resistenza deve essere allargato mettendo insieme il problema dell’inquilino, diverso e apparentemente anche contrapposto a quello del proprietario che paga il mutuo (un proletario trasformato in proprietario), come il problema dell’assegnatario delle case popolari apparentemente contrapposto a quello dell’occupante delle case popolari. Tutti questi soggetti sociali si confrontano con processi che sono guidati da una ristretta élite di grandi operatori finanziari (come i fondi immobiliari statunitensi Blackstone e Blackrock o francesi come BNL-BNP Paribas) che mira alla loro espulsione ed espropriazione e assai spesso usufruisce del supporto attivo delle istituzioni (lo Stato, la Regione, il Comune) che dovrebbero tutelare le forme di welfare e di edilizia pubblica, invece di consentirne la cannibalizzazione per creare profitto per operatori privati.
Per questo, secondo gli autori, per combattere le “nuove recinzioni” «abbiamo bisogno di trasformare la narrazione su cos’è la città, cos’è lo Stato e cos’è la società» (pag. 17), ossia ricostruire un quadro di senso più ampio. «Contrastare la finanziarizzazione richiede strategie diverse e combinate, già rivendicate da diversi movimenti e collettivi in tutto il mondo: la rinazionalizzazione dell’edilizia pubblica, l’introduzione di nuove forme di controllo dell’affitto, gli ostacoli alla speculazione immobiliare, la tassazione degli immobili tenuti fuori a fini speculativi e la decriminalizzazione della loro occupazione, e naturalmente un riordinamento dei sussidi pubblici non mirato a finanziare principalmente la proprietà» (pagg. 19-20). Per opporsi all’espropriazione dello spazio e dei servizi comuni si devono coordinare le battaglie, mettere in relazione gli avvenimenti e costruire un movimento unitario che impedisca le recinzioni, perché «questi beni, queste terre, questi quartieri, sono di chi li abita» (pag. 20).
La finanziarizzazione di Milano
Nel capitolo su Milano, Lucia Tozzi individua e analizza quali sono i meccanismi economici e politici che rendono possibili le recinzioni e come riescano a parcellizzare e dividere le persone espropriate. L’immagine della città che ci viene restituita è quella di un territorio fortemente disuguale, dove i flussi dei capitali finanziari si appropriano della ricchezza, lasciando gli abitanti sempre più impoveriti. «Milano persegue da anni una politica di valorizzazione selvaggia della rendita e incoraggia consapevolmente la sostituzione dei suoi abitanti più fragili con abitanti più ricchi e più mobili» (pag. 23). Un’omologazione dei processi di finanziarizzazione immobiliare che avvengono in altre “città globali” come Londra, New York, Berlino e Tokyo, accompagnata dall’obiettivo perseguito per anni dalla classe dirigente di inserire la città nella competizione tra le capitali finanziarie.
Fondamentale, perché ciò avvenisse, è stato il ruolo dei finanziamenti dei governi nazionali concentrati sulla città, a svantaggio del resto del paese, senza che questo contribuisse a migliorare servizi pubblici, spazi collettivi, uffici comunali, scuole o edilizia popolare. La ricchezza prodotta resta nelle mani di chi la estrae, i cittadini «si vedono sfuggire ogni possibilità di godere almeno in parte del profitto estratto dallo spazio in cui vivono» (pag. 24). La fiera di Fuksas, Citylife, Porta Nuova con le Torri Unicredit, il Bosco Verticale e un’altra miriade di operazioni immobiliari (in particolare sulle aree industriali dismesse) ad alto rendimento di rendita firmate da archistar hanno segnato la metamorfosi estetica e finanziaria degli interventi sulla città. L’amministrazione comunale è stata totalmente remissiva rispetto alla volontà degli investitori privati, fino ad adeguare gli strumenti urbanistici alle loro scelte. La regola unica dell’urbanistica è diventata rendere tutta la città disponibile alla rendita, attraverso la contrattazione di una incredibile quantità di strumenti urbanistici di intervento, la raccolta e distribuzione di fondi nazionali ed internazionali, e la rimozione di vincoli. In questo modo, il Comune ha rinunciato del tutto alla programmazione o direzione dell’urbanistica.
Neanche le tre giunte di centro sinistra che si sono avvicendate negli ultimi anni sono state in grado di contenere la rendita, calmierare il mercato degli affitti e incrementare i servizi pubblici. «Al contrario hanno operato una saldatura fra il mondo finanziario e il terzo settore che ha neutralizzato gran parte dei contenuti politici e dell’autonomia gestionale e lavorativa dei circuiti dell’associazionismo e dell’attivismo, irreggimentandoli in protocolli fortemente burocratici, rendendoli più precari e soprattutto orientando le loro attività allo stesso fine perseguito dai grandi capitali: la valorizzazione immobiliare» (pag. 30).
Vittima di queste politiche è anche l’edilizia pubblica, attraverso la privatizzazione del patrimonio di case popolari che da 100mila unità degli anni ’70 si sono ridotte a 64.900 nel 2021. Il patrimonio ancora disponibile viene spesso concesso a privati per usi temporanei, emergenziali, innovativi. Tozzi descrive la trasformazione del quartiere ERP a piazzale Ferrara al Corvetto, ultimo residuo di città pubblica denso di case popolari e di persone in difficoltà, che considera esemplificativo del modo in cui è stato applicato “il degrado programmato” (con il taglio delle risorse per la manutenzione) e si è poi intaccata la sua compattezza, frammentando e dividendo le persone via via espropriate (una “espropriazione molecolare”).
Viene illustrato l’utilizzo di una “urbanistica tattica” per la realizzazione di una “Piazza aperta” con panchine, piantumazioni e disegni colorati sull’asfalto e un Patto di collaborazione fra cittadini e associazioni per la cura delle aiuole, quasi che queste pratiche possano realmente rafforzare i legami di comunità e coinvolgere gli abitanti delle case popolari. Finanziamenti dispersi in piccoli interventi, spesso intercettati dal terzo settore che per sopravvivere è costretto a competere sul fronte della creazione di valore. Attraverso i bandi europei e della Fondazione Cariplo vengono incanalate risorse per favorire l’imprenditorializzazione dell’associazionismo e del mutualismo, nonché l’”attivazione” eterodiretta degli abitanti.
Il capitolo si chiude con la descrizione dell’accordo fra Fondazione Cariplo, COIMA Srg e il Consorzio Cooperative Lavoratori stipulato a fine marzo del 2023 che prevede la creazione di un nuovo modello di sviluppo immobiliare che gestisca il governo del welfare abitativo, inglobando il patrimonio di edilizia popolare nel sistema del cosiddetto housing sociale (un modello di “mutualismo finanziarizzato”). La volontà dell’amministrazione (espressa dall’assessore alla Casa, Pierfrancesco Maran) è quella di liquidare il patrimonio di edilizia pubblica e affidarne la gestione ai privati del terzo settore, alle cooperative e alla finanza (presentata come “etica e responsabile”). Migliaia di appartamenti saranno sottratti alle famiglie fragili in lista d’attesa per destinarle al ceto medio. «Una vertiginosa accelerazione della redistribuzione della ricchezza verso l’alto, presentata come lotta alle diseguaglianze» (pag. 48). «Il grande capitale così non solo riesce a far crescere il valore degli immobili manipolando le retoriche urbane, o ad appropriarsi degli appartamenti tutelati, ma arriva addirittura a inserirsi nella produzione e nella distribuzione dell’edilizia pubblica, cioè del dispositivo che doveva limitare i suoi profitti» (pag. 12).
Il triste epilogo dell’edilizia convenzionata e agevolata a Roma
Stefano Portelli si occupa del problema della casa a Roma, una questione che dall’immediato dopoguerra in poi le classi dirigenti cittadine e nazionali hanno inquadrato come un’emergenza della città e non come un fenomeno “strutturale” mai volutamente e adeguatamente affrontato e risolto. In particolare, l’analisi riguarda l’edilizia destinata al ceto medio costituita dal grande patrimonio immobiliare degli enti previdenziali e dall’edilizia convenzionata e agevolata (lo sguardo è concentrato su un quartiere di immobili INPS come Cinecittà-Don Bosco). Portelli nota che «La costruzione di due cinture periferiche – la prima poco fuori dalla città storica grazie agli enti previdenziali, la seconda intorno o fuori dal Grande Raccordo Anulare grazie ai piani di zona – ha sancito l’allontanamento definitivo della città popolare dal centro storico, che negli stessi anni si trasformava in una macchina di produzione di valore per l’industria turistica» (pag. 51). Uno sviluppo urbanistico che si espande a macchia d’olio in favore della rendita, divorando quello che rimane della campagna romana, e che ha avuto la sua ultima legittimazione con il piano regolatore voluto dalla giunta di centro-sinistra Veltroni nel 2008 che ha previsto ulteriori 70 milioni di metri cubi.
Portelli sottolinea che nello studio dell’edilizia pubblica a Roma c’è la tendenza a concentrare l’attenzione sulle case popolari (ossia gli alloggi sovvenzionati dallo Stato e di proprietà di Regione o Comune) che però sono solo 74mila unità abitative, pari a meno del 6% di tutti gli appartamenti della capitale7. È la cosiddetta edilizia sovvenzionata che rappresenta una parte molto più grande di edilizia pubblica costruita con convenzioni pubblico-private o con agevolazioni previste dalla legge 18 aprile 1962, n. 167, che fa capo agli enti previdenziali o è compresa nei “piani di zona”. Ben 90mila famiglie abitano nelle case degli enti previdenziali e circa 240mila nelle case create con i piani di zona. Quindi, complessivamente stiamo parlando di oltre 200mila persone nelle case degli enti e di quasi mezzo milione di persone nei piani di zona in una città con una popolazione complessiva di circa 2 milioni e mezzo di abitanti. Una componente enorme della popolazione romana abita in strutture di edilizia semipubblica sorte per calmierare il mercato della casa che negli ultimi decenni invece sono state via via trasformate in strumenti di rendita privata.
Tra gli anni ‘60 e ‘80 gli enti previdenziali, sia pubblici che privati, hanno dovuto per obbligo di legge, investire almeno il 30% dei loro capitali in beni immobili e locare buona parte delle unità immobiliari a uso residenziale a favore di fasce sociali disagiate. In quegli anni i costruttori realizzavano milioni di metri cubi con la certezza della vendita di quegli immobili proprio a questi enti. Fino agli anni ‘90, il patrimonio immobiliare degli enti previdenziali ha garantito, di fatto, l’accesso al diritto alla casa per milioni di famiglie del ceto medio8.
Dal governo Ciampi (1996) in poi, dismissioni e cartolarizzazioni hanno favorito solo la speculazione finanziaria e gli accumulatori della rendita9. A partire dai primi anni Duemila quasi tutti gli enti hanno avviato la dismissione dei loro immobili, ormai bisognosi di costosi interventi di ristrutturazione, vendendoli agli inquilini, mettendoli sul mercato o trasferendoli in fondi immobiliari. Sono le “operazioni di cartolarizzazione” che hanno riguardato gli enti pubblici che hanno riportato a bilancio i valori dei beni e gli enti privati che hanno trasformato gli asset immobiliari in beni economici. Di fatto si è creata una disparità di trattamento tra gli inquilini degli enti pubblici e gli inquilini degli enti privatizzati. Gli affittuari degli enti privatizzati non hanno usufruito delle leggi e dei benefici previsti per quelli degli enti pubblici nonostante il patrimonio immobiliare degli enti privatizzati sia stato acquistato quando questi erano pubblici.
Così le case di Enasarco (arrivata a possedere più di 15mila appartamenti), Enpam (6mila alloggi), Enpaia (1.100), Cassa Forense (3mila), Cassa Geometri (430), Cassa Ragionieri (quasi mille)) e altri enti (società di assicurazioni come Fondiaria-SAI e INA-Assitalia) vengono vendute a prezzi di mercato, superiori a quelli proposti nel tempo dagli enti rimasti pubblici (INPS, INPDAI, INPDAP, etc.), che sono stati vincolati alle quotazione di ottobre 2001, e che hanno consentito ai locatari di acquistare a prezzi realmente vantaggiosi. In ogni caso, la vendita di questi immobili, che avevano garantito la possibilità di accedere al mercato della locazione con prezzi calmierati per molti cittadini, ha portato a sfratti, trasferimenti forzati e aumenti del canone di affitto per molte delle famiglie che non potevano acquistare. Portelli analizza dettagliatamente la finanziarizzazione avvenuta attraverso la creazione di società incaricate di gestire le dismissioni così come racconta le lotte di resistenza di chi rischiava di finire in mezzo alla strada.
Nei “piani di zona” si è realizzata edilizia convenzionata, attraverso finanziamenti pubblici erogati dalla Regione Lazio e dal Comune (oltre 1,5 miliardi di euro in venti anni), con circa 150 complessi residenziali costruiti grazie a questi accordi. Una convenzione stipulata fra l’amministrazione e le cooperative edili stabilisce che il prezzo di cessione non deve superare i limiti di legge e fissa l’impegno da parte della cooperativa edile o del costruttore a realizzare tutti i servizi necessari a rendere abitabili le case. L’occasione è apparsa subito da prendere al volo. Le imprese hanno avuto terreni pubblici in concessione e finanziamenti pubblici per costruire case (in alcuni casi fino al 90% dei costi di costruzione), che poi hanno potuto vendere o affittare, spesso bypassando illegalmente la questione del prezzo di acquisto o di affitto vincolato (a prezzi massimi di cessione che dovevano essere regolati e approvati dal Comune). Le case di edilizia agevolata dovevano rimanere per sempre fuori dal mercato, a disposizione di persone che avevano i requisiti di basso reddito e nessuna proprietà, proprio grazie all’investimento di soldi pubblici.
Purtroppo, come spiega Portelli, un intervento nato per andare incontro alle tante famiglie con un reddito medio insufficiente per trovare soluzioni abitative a prezzi di mercato, si è tramutato in un affare solo per gli operatori imprenditoriali. Gli obblighi di legge spesso non sono stati rispettati. In molti casi gli acquirenti hanno pagato prezzi anche del 30% superiori a quelli dovuti perché le cooperative non hanno mai fornito la documentazione obbligatoria (i “piani finanziari”) con cui si sarebbero dovuti fare i calcoli finali su canoni di affitto e prezzi di acquisto, oltre che ottenere il rilascio dei certificati di abitabilità. C’è stata una complicità costante delle amministrazioni pubbliche – Regione e Comune – che avrebbero dovuto vigilare. Solo il tardivo intervento della magistratura a seguito di denunce presentate da ASIA-USB ha svelato la truffa e ottenuto alcune revoche delle concessioni, ma molti degli inquilini che sono stati truffati (come quelli dei complessi residenziali di Pian Saccoccia e di Ponte Galeria) hanno subito sfratti o minacce di sfratto o pignoramenti. Portelli racconta, anche attraverso il materiale raccolto con interviste, le estenuanti battaglie che negli anni gli inquilini hanno sostenuto per difendere il loro diritto alla casa. La dismissione del patrimonio degli enti previdenziali e la rielaborazione in senso privatistico dei piani di zona sono state «la conseguenza delle scelte politiche posteriori al ‘compromesso storico’, che ha comportato il progressivo ritiro della sinistra istituzionale e dei sindacati confederali, comprese le associazioni degli inquilini a essi collegate, di fronte agli interessi dei costruttori e delle banche» (pag. 51).
Turismo di massa e privato sociale motori del processo di trasformazione dei Quartieri Spagnoli a Napoli
Nel terzo capitolo, Luca Rossomando racconta cosa sta succedendo a Napoli, e in particolare in un quartiere popolare del suo centro storico, i Quartieri Spagnoli, dove è in atto una vertiginosa trasformazione (ma analoghe trasformazioni investono anche altri quartieri popolari del centro storico come la Sanità ), iniziata negli anni ’90 con i primi piani di risanamento urbanistico e sociale (Urban nel 1996-2001; programma SIReNA).
Gli abitanti del quartiere cambiano negli anni, per il basso costo degli affitti, agli abitanti storici si aggiungono gli studenti universitari, i giovani lavoratori e le famiglie dei migranti. Ma la reale trasformazione si ha con l’arrivo del turismo di massa negli ultimi dieci anni, i valori immobiliari salgono e gli affitti sono destinati alle locazioni brevi.
Anche le attività produttive, costituite soprattutto da laboratori artigiani (lavorazione del pellame per calzature, guanti e borse), si trasformano in attività ricettive ad uso turistico a breve termine (con il quartiere che tende a divenire una sorta di “albergo diffuso” gestito attraverso Airbnb), di somministrazione di cibi e bevande (bar, spritzerie, trattorie, enoteche), di commercio di oggetti ricordo e di prodotti enogastronomici tipici. «Al centro di queste dinamiche non sono però gli investimenti del grande capitale finanziario, e nemmeno i piani di riqualificazione delle amministrazioni pubbliche, come in tanti altri casi di riconversione turistica dei centri storici. Il profilo dei nuovi imprenditori, nel caso dei Quartieri Spagnoli, coincide ancora in gran parte con quello degli abitanti, sia storici che di recente provenienza» (pag. 93). Un fervente protagonismo micro imprenditoriale “dal basso” che ha dato vita ad “una riproposizione turbo-capitalista dell’economia del vicolo” che si avvale di una sostanziale deregolamentazione per accumulare profitti in modo frenetico e disordinato, anche se, ci dice Rossomando, si registra la tendenza a una progressiva concentrazione degli operatori. Una evoluzione che, però, ha portato ad una impennata dei canoni degli affitti degli inquilini e del valore al metro quadro delle case.
Molto dettagliata è la ricostruzione della storia del quartiere e della composizione sociale degli abitanti, così come la descrizione delle politiche messe in atto dalle amministrazioni che si sono succedute attraverso progetti sociali e recupero edilizio. Alle scarse e discontinue azioni pubbliche di sostegno, accompagnamento o supervisione del processo di cambiamento10 si è sostituita la presenza di artisti (che hanno realizzato più di 200 dipinti/murales, emblematico quello che ritrae Diego Armando Maradona, diventato negli ultimi anni un luogo di pellegrinaggio popolare e turistico), artigiani (come Salvatore Iodice di Riciclarte Miniera), gruppi informali, comitati e associazioni per portare avanti lotte e rivendicazioni, ma anche per dare vita a momenti di aggregazione e di festa. In particolare si è dedicata alle difficoltà sociali, che riguardano una larga fascia della popolazione del quartiere, l’Associazione Quartieri Spagnoli attiva da molti anni, alla quale si deve la nascita del progetto Maestro di Strada realizzato insieme a Marco Rossi Doria nel 1995. Accanto a queste realtà radicate nel quartiere si è consolidata la presenza di una Fondazione imperniata sulle attività educative ma capace di muoversi su numerosi altri piani e con ambizioni che vanno al di là dei Quartieri Spagnoli.
«In questo contesto, frastagliato ma operoso, agisce da circa dieci anni la fondazione FoQus, un soggetto che incarna molte delle potenzialità e anche delle ambiguità dell’intervento del terzo settore in aree urbane sottoposte a rapide trasformazioni» (pag. 132). La Fondazione, diretta da Rachele Furfaro (una sorta di ircocervo capace di essere un’educatrice, un’imprenditrice/manager del sociale e un’amministratrice comunale), è nata nel 2014 su iniziativa dell’impresa sociale Dalla Parte dei Bambini nell’istituto Montecalvario, un monastero gestito dalle Suore Vincenziane che, prima di ritirarsi, svolgevano attività scolastiche.
Negli anni la Fondazione ha ospitato vari progetti sociali, accanto ai quali si sono sviluppate iniziative commerciali e artistiche, rivolte non più solo al quartiere11. Le attività scolastiche diventano il nucleo attorno al quale prendono vita molte altre iniziative a pagamento, rivolte non più solo al quartiere: l’affitto degli spazi per corsi, presentazioni, spettacoli e servizi di ristorazione. Gli investimenti privati e i finanziamenti pubblici, decisamente fuori scala rispetto agli altri attori economici del territorio, diventano il motore di questo progetto di rigenerazione, che descrive FoQus come un’isola felice dentro un quartiere abbandonato a sé stesso dalle istituzioni.
Si costruisce una narrazione di un quartiere degradato, assecondando la vulgata stigmatizzante dei Quartieri Spagnoli, alla quale contrapporre un intervento di rigenerazione da parte dei privati. Il timore espresso da Rossomando è che questo diventi un modello, da riprodurre anche in altri quartieri al di fuori di qualsiasi cornice di partecipazione e controllo pubblico. «Privati disponibili a mobilitare ingenti risorse e capaci di attivare pervasive strategie di comunicazione, ma non necessariamente portatori di interessi condivisi dalla comunità locale» (pag. 141).
A questa prospettiva, Rossomando contrappone la necessità di «un’azione politica esplicita che pretenda un adeguato intervento pubblico e si adoperi per un reale protagonismo popolare» (pag. 142). Anche perché restano le domande di fondo a cui deve ancora essere data una risposta: «se l’impatto del turismo di massa in un quartiere popolare di una metropoli meridionale – con l’innalzamento del costo della vita, il cambio di destinazione d’uso degli immobili, l’erosione degli spazi pubblici e altre conseguenze che esso comporta – possa costituire uno stimolo per l’economia locale, generando nuove opportunità occupazionali e una redistribuzione delle ricchezze, o sia solo l’occasione per intensificare il peso della rendita, lo sfruttamento della manodopera, la mistificazione dell’identità locale, lasciando inalterati, se non approfondendo, precarietà e processi di esclusione; inoltre, se l’intervento del terzo settore, sostenuto da media e da finanziamenti di imprese e fondazioni bancarie, sia davvero in grado di promuovere miglioramenti duraturi e condivisi dalla popolazione, o si limiti a utilizzare certi territori, e l’aura che li circonda, come un fondale su cui proiettare l’immagine di una “rigenerazione” non priva di ricadute puntuali ma slegata da un reale processo di emancipazione dei suoi abitanti e foriera di nuovi interventi sempre meno partecipi delle esigenze della comunità» (pagg. 142-143). Per questo Rossomando sollecita un articolato intervento pubblico e uno stimolo alle iniziative autonome capaci di porre un argine all’attuale deriva dei rapporti di forza, sempre più orientati verso il dominio del profitto e delle narrazioni addomesticate.
Alessandro Scassellati
- Stefano Portelli è ricercatore in antropologia urbana affiliato all’Università di Leicester e attivista per il diritto alla casa. Ha scritto La città orizzontale (Monitor, Napoli 2017) sulla demolizione di un quartiere di edilizia pubblica a Barcellona. È anche un attivista dell’Assemblea di autodifesa dagli sfratti e del Collettivo Casa in rivolta che utilizzano uno strumento prezioso per fermare gli sfratti: il ricorso alla Commissione ONU per i diritti umani che può richiedere al tribunale che ha ordinato lo sfratto la sospensione finché la inquilina o l’inquilino non ottiene una casa dignitosa. Si veda il nostro articolo qui.[↩]
- Luca Rossomando coordina le attività editoriali di Napoli Monitor. Tra le sue pubblicazioni, Le fragili alleanze. Militanti politici e classi popolari a Napoli (1962-1976) (Monitor, Napoli 2022).[↩]
- Lucia Tozzi è giornalista, vive a Milano e ha da poco pubblicato un libro importante, L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane (Cronopio Edizioni, Napoli 2023), in cui spiega molto chiaramente l’immaginario che sta dietro le trasformazioni di Milano negli ultimi decenni e che l’hanno resa la città con il settore immobiliare più finanziarizzato in Italia.[↩]
- Nancy Fraser sostiene che la creazione di profitti non avviene solo attraverso i processi produttivi, ma anche attraverso la continua appropriazione di aspetti della vita sociale rimasti fuori della produzione, o volutamente tenuti fuori, che però possono essere “cannibalizzati” per estrarne nuovo valore (Capitalismo cannibale: come il sistema sta divorando la democrazia, il nostro senso di comunità e il pianeta, Laterza, Bari 2023). Il geografo David Harvey ha parlato anche di «accumulazione per spoliazione» (accumulation by dispossession), ossia di un meccanismo che ha continuato ad operare fino ai giorni nostri attraverso la creazione e la successiva gestione di grandi e piccole crisi finanziarie che consentono ai capitalisti e alle organizzazioni che controllano di appropriarsi e centralizzare beni e risorse a prezzi da saldo, ad esempio rilevando i crediti non performanti (Cronache anticapitaliste. Guida alla lotta di classe per il XXI secolo, Feltrinelli, Milano 2021).[↩]
- Sul tema della distribuzione ineguale della ricchezza in Italia e nel mondo si veda il nostro articolo qui.[↩]
- Un processo descritto nel capolavoro di Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974[↩]
- In dieci anni di bando per la casa popolare nel comune di Roma (2013-2023) è stata superata la soglia delle 16.600 domande, in decisa crescita negli ultimi anni, con il 44% che è in attesa da 10 anni, mentre nelle prime mille posizioni il 64% è composto da single. Di fatto la media delle assegnazioni a Roma è sui 350 alloggi – 450 nel 2023 – mentre le domande che pervengono sono più di mille, in questo stato di cose l’emergenza abitativa è destinata ad una crescita costante.[↩]
- Roma è la città italiana dove ci sono state e ci sono ancora più case appartenenti agli enti dei fondi previdenziali. Sin dal 1973, qualunque organizzazione che gestisse i risparmi della popolazione aveva l’obbligo di assegnare metà del suo patrimonio agli sfrattati, o comunque a famiglie che non potevano accedere al mercato immobiliare. La maggior parte degli investimenti immobiliari degli enti fu a Roma, considerato un mercato solido. A Roma vive il 6% della popolazione italiana, ma c’è almeno un quarto di tutte le case acquistate con fondi previdenziali dei lavoratori di tutto il paese, almeno 90mila su 350mila.[↩]
- La riforma delle pensioni elaborata dal governo Ciampi prevedeva per gli enti previdenziali l’obbligo di vendere entro 5 anni le case acquistate con i risparmi dei lavoratori. I destinatari principali di queste vendite dovevano essere gli stessi inquilini assegnatari, che avrebbero avuto agevolazioni per gli acquisti, mentre chi non poteva acquistare sarebbe stato coperto da tutele legali. Contemporaneamente, la legge 560 del 1993 prevedeva la dismissione degli alloggi pubblici, compresi quelli degli enti previdenziali INPDAI e INPDAP che tutelavano i risparmi dei dipendenti e dei dirigenti pubblici. Questi beni – 90 mila appartamenti – sarebbero stati venduti attraverso processi di cartolarizzazione, cioè emissione di titoli finanziari a carico dello Stato, che si sarebbero poi coperti con la progressiva vendita degli immobili. Ma, l’operazione fallì clamorosamente perché gli inquilini non accettarono i prezzi di vendita (calcolati sul valore catastale) e non volevano lasciare le case. Gli immobili cartolarizzati e invenduti tornarono agli enti, che ne avrebbero dovuto gestire la vendita autonomamente.[↩]
- Rossomando nota come nell’ultimo decennio l’azione dell’amministrazione comunale è ruotata «sempre intorno alle classiche priorità neoliberali – il decoro degli spazi pubblici, la promozione dei “grandi eventi”, la concessione ad aziende private di parti del territorio – declinate (e mimetizzate) in un discorso nutrito dai classici stereotipi sulla città, ma allo stesso tempo abbastanza indefinito da potersi condensare in uno slogan anodino, la cosiddetta “anomalia napoletana”, da agitare con orgoglio nei comizi pubblici e rivendicare come programma meridionalista, “rivoluzionario” e di sinistra» (pag. 103).[↩]
- La Fondazione FoQus oggi comprende 5 istituti parificati, dislocati in diversi quartieri della città, dove lavorano più di 200 tra educatori e docenti, più di 50 tra amministrativi e ausiliari, e che sono frequentati da circa 1.300 alunni. Negli ultimi anni la fondazione ha ottenuto cospicui fondi dall’impresa sociale Con i Bambini, controllata dalla Fondazione con il Sud, e che è il soggetto attuatore del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile istituito con legge del dicembre 2015.[↩]