Passati i primi 100 giorni dall’insediamento di Joe Biden alla Presidenza degli Stati Uniti non poteva mancare la tradizionale occasione per i media e gli osservatori di trarre un primo bilancio della nuova Amministrazione americana. In generale, i giudizi più diffusi hanno sottolineato come l’avvio della Presidenza abbia segnalato una inaspettata capacità di iniziativa da parte della Casa Bianca. Biden è sempre stato rappresentato, correttamente, come un politico fondamentalmente centrista, amante della ricerca della mediazione e del compromesso, in nome di quello spirito bipartisan che prevede che gli Stati Uniti siano governati al centro, emarginando le ali dei due schieramenti.
La campagna elettorale di Biden era stata nel complesso piuttosto incolore1. Aveva vinto le primarie perché tutto l’establishment democratico aveva visto nell’ex vice di Obama l’unica figura che poteva fermare la temuta ascesa di Bernie Sanders. Forse l’unico evento significativo della sua azione preelettorale, per ciò stesso del tutto ignorato dalla stampa italiana, era stato il complesso e dettagliato accordo programmatico tra il campo di Biden, guidato da un politico molto tradizionale come John Kerry, e il campo di Sanders, guidato invece dalla brillante stella ascendente del campo progressista, Alexandria Ocasio-Cortez. Benché l’accordo di oltre 100 pagine (ne avevamo parlato su Transform! Italia a suo tempo)2, contenesse diverse concessioni importanti alla sinistra, poteva apparire come una semplice mossa propagandistica, destinata ad essere rapidamente dimenticata una volta conquistata la Presidenza. La stessa Amministrazione Obama, iniziata con molte aspettative, era poi risultata del tutto deludente per il campo progressista e radicale.
Le prime importanti decisioni di Biden in politica interna (ed è importante sottolineare l’aggettivo) hanno piacevolmente sorpreso la sinistra, “superando le aspettative come ha riconosciuto Alexandria Ocasio Cortez3. Il nuovo Presidente ha posto al centro della sua attenzione temi socio-economici (giustizia sociale, equità fiscale, il cosiddetto “big government”) che il Partito Democratico aveva da tempo abbandonato. Con la Presidenza Clinton era prevalsa la tesi dello spostamento al centro, e del perseguimento di una politica che, mentre restava progressista sul terreno dei diritti civili, diventava sempre più liberista e “pro-business” sul piano economico. Il Partito Democratico si proponeva come forza politica del ceto medio più agiato e dei settori economici e finanziari post-fordisti. Con la convinzione, che si è rivelata un’illusione, che i processi di globalizzazione economica potessero favorire la costruzione di una nuova maggioranza sociale, diversa da quella che si era costruita negli anni ’30 attorno al new deal rooseveltiano.
L’evoluzione degli ultimi anni ha posto il Partito Democratico di fronte alle conseguenze del fallimento di quella politica, di cui il successo di Trump e la radicalizzazione a destra del Partito Repubblicano erano state tra le conseguenze. L’establishment centrista pensava probabilmente che Biden si sarebbe più o meno collocato sulla stessa linea che era stata perseguita dai Clinton e da Obama.
Il nuovo Presidente si è reso conto che questa linea non avrebbe più funzionato e ha dovuto sterzare a sinistra. Diversi fattori, interni ed internazionali, hanno influito su questo che lo stesso Biden ha definito come un “cambio di paradigma”.
Il ritorno del nemico
Il condizionamento esterno deriva da quello che potremmo definire come “il ritorno del nemico”. Verso la fine della leadership sovietica di Gorbaciov, finita come sappiamo piuttosto disastrosamente, nel corso di un incontro con la controparte statunitense, uno stretto collaboratore dell’ultimo Presidente dell’URSS disse che i sovietici stavano per fare agli americani il peggiore dei “regali”: “vi priveremo del nemico”.
Se per lungo tempo gli Stati Uniti sono sembrati uscire trionfalmente dalla fine della guerra fredda come l’unica potenza mondiale rimasta e in quanto tale capace di dettare le leggi del nuovo assetto mondiale e di beneficiare interamente del controllo degli strumenti monetari e finanziari grazie ai quali il sistema si mantiene e si riproduce, progressivamente la situazione è cambiata. L’idea di fare della Russia un partner subordinato e minore nell’assetto europeo, fornitore di materie prime e niente più (mentre si cavalcavano le tendenze russofobe nell’est Europa e negli Stati derivati dalla disgregazione dell’ex Unione Sovietica) ha prodotto una reazione nazionalista di cui Putin si è fatto interprete. Ma il vero cambiamento è avvenuto con l’ascesa economica della Cina. In questo caso gli Stati Uniti pensavano di poterla mantenere in un ruolo subalterno di fornitore di mano d’opera a buon mercato, grazie alla quale poter esternalizzare la produzione manifatturiera americana, continuando però a garantire i profitti delle multinazionali statunitensi.
La Cina, in tempi molto più rapidi di quelli che si potevano prevedere, si è trasformata in una nuova potenza economica globale, con un ruolo di potenziale leadership nell’innovazione tecnologica e in tutti i settori di punta. Non più quindi l’ultima fabbrica fordista del mondo, ma il primo paese ad entrare pienamente nell’era dell’economia digitale e in grado anche di condizionare in tale percorso gli stessi Stati Uniti.
Un commentatore di sinistra come Max Sawicky, sul sito di “In These Times”, ha sottolineato il carattere contradditorio dei primi 100 giorni della nuova Presidenza4. “Sorprendentemente progressista” sul piano economico e su altri temi come la giustizia razziale, molto meno in politica estera. Ma anche in questo caso Sawicky richiama la timidezza nel riprendere la trattativa con l’Iran e tornare all’accordo dal quale era uscito Trump, la poca incisività dell’azione destinata a fermare la tragica guerra nello Yemen o altre scelte di continuità come la conferma del riconoscimento dell’autoproclamato Guaidò come sedicente Presidente del Venezuela. Ma anche Sawicky non mette in discussione la politica nei confronti della Cina o della Russia. Soprattutto non evidenzia il nesso che intercorre tra una politica interna progressista e una politica estera che invece punta a ridefinire i contorni di una nuova “guerra fredda”.
Lo ha ben spiegato David Sanger, analista del New York Times, in un articolo del 29 aprile scorso, intitolato “L’appello di Biden agli USA per entrare in una nuova lotta fra superpotenze” 5. Per il nuovo Presidente e i suoi collaboratori, gli Stati Uniti rischiano di perdere la leadership mondiale di fronte all’ascesa della Cina, non solo come potenza economica e tecnologica ma anche come modello alternativo alle democrazie capitaliste, considerate in declino e incapaci di rispondere ai bisogni fondamentali dei propri cittadini, come avrebbe dimostrato anche la fallimentare gestione della pandemia del Covid19.
Un Paese in preda a sempre più forti ingiustizie sociali, profondamente diviso e lacerato all’interno, incapace di dare una risposta soddisfacente alla questione razziale, con un sistema infrastrutturale allo sfascio, sarebbe destinato a non poter reggere il confronto con la nuova potenza cinese. Per far fronte a tutto ciò è necessario ricostruire la “classe media” che si è andata assottigliando, ridurre le differenze sociali, restituire credibilità a quella che un tempo si chiamava “l’american way of life”. All’interno di questa prospettiva è necessaria una forte iniziativa statale e grandi investimenti, mettendo da parte la preoccupazione del debito, che consentano di mantenere (o recuperare dove è stata persa) la leadership americana dell’innovazione tecnologica e contemporaneamente riportare negli Stati Uniti alcune produzioni manifatturiere. In realtà quest’ultima è forse la parte più debole della prospettiva delineata da Biden che lo indirizza anche al sostegno di politiche protezionistiche destinate ad entrare in contrasto con la ricostruzione di uno schieramento di Stati allineati nel confronto anti-cinese.
Non è del tutto inedito questo intreccio tra una politica interna socialmente progressista e una proiezione esterna aggressiva e potenzialmente gravida di pericoli. Fu così ad esempio con la Presidenza di Lindon Johnson, passato alla storia per il ruolo svolto nella guerra del Vietnam, ma che all’interno promosse l’idea della “grande società” caratterizzata dalla lotta alla povertà, l’estensione del welfare e il rafforzamento dei diritti civili.
Nell’idea di una parte dell’establishment statunitense, soprattutto quello democratico, la guida americana del mondo (con tutti i benefici economici che ne derivano) va di pari passo con la credibilità ideologica del sistema americano come modello di democrazia e di pari opportunità. Per questo non si può parlare di Presidenza bifronte, come la definisce Max Sawicky, senza sottolineare l’intreccio che esiste tra le due facce, quella “buona” all’interno e quella “cattiva” per il resto del mondo.
Il peso della sinistra interna
Se i mutamenti nel quadro internazionale hanno un peso importante, anche i cambiamenti intercorsi nell’assetto politico degli Stati Uniti in questi anni, sull’onda di una serie di trasformazioni sociali, giocano un ruolo importante nel ripensamento in atto nella cerchia dei collaboratori di Biden e dello stesso Presidente.
Lo spostamento a destra del Partito Repubblicano, già avviato prima di Trump ma che la sua presidenza ha consolidato ed estremizzato, rende più difficile ipotizzare una convergenza bipartisan. Persino un conservatore tradizionale come Mitt Romney, mormone dello Utah, Stato che vota regolarmente repubblicano, è stato accolto ad una riunione di militanti repubblicani al grido di “comunista” per essersi smarcato dalle scelte più oltranziste di Trump6. La spinta della base repubblicana rende difficile ai parlamentari di questo partito assumere posizioni più moderate, avendo il fiato del collo del rinnovo dell’intera Camera e di un terzo del Senato con molti posti occupati da repubblicani alla scadenza del rinnovo nel novembre del 2022. In un panorama elettorale che si è andato polarizzando, il pericolo per molti eletti proviene più dalle pressioni interne nel proprio campo che si mostrano al momento delle primarie che non nel voto vero e proprio.
D’altra parte gli stessi democratici, anche quelli centristi, sono consapevoli che senza riuscire a consolidare la Presidenza e allargare il consenso in settori di elettorato di ceto medio o popolare che hanno continuato a votare a destra, potendo mostrare risultati significativi in tempi brevi, le prospettive del partito sarebbero difficili. Gli elettori che si sono mobilitati per cacciare Trump potrebbero restarsene a casa fra due anni, come accadde durante le prime elezioni di mid-term successive all’elezione di Obama e allora Biden non avrebbe più margini di iniziativa.
Il sistema istituzionale e rappresentativo negli Stati Uniti è attualmente sbilanciato a favore dei repubblicani che hanno insediato le proprie maggioranze nella Corte Suprema, sono favoriti sia dalla composizione del Senato, che equipara i grandi stati delle due coste con i piccoli e poco popolati Stati dell’interno, che in diversi Parlamenti locali grazie anche all’abuso del gerrymandering (il ridisegno truffaldino dei distretti elettorali) che consentono al Partito Repubblicano di controllare Stati decisivi per le elezioni presidenziali.
Dopo la sconfitta subita a novembre, alcune assemblee legislative in mano alla destra oltranzista hanno modificato le norme elettorali per rendere più difficile il voto delle minoranze e delle zone orientate verso i democratici (particolarmente clamoroso è l’intervento effettuato sulla legge elettorale della Georgia, dove il successo dei due candidati democratici al Senato è risultato determinante per consentirne il controllo da parte del Partito Democratico).
L’altro elemento importante che condiziona la politica di Biden è l’ascesa dell’influenza della sinistra che fa riferimento a Bernie Sanders (soprattutto) o a Elizabeth Warren (che a differenza del primo non ha dato vita ad un vero e proprio movimento). Non tutte le richieste dell’ala progressista sono state accolte, ad esempio la cancellazione dei debiti studenteschi o le parti più radicali del Green New Deal7 e alcune delle iniziative prese sotto l’influenza della componente più avanzata sono destinate a rimanere sulla carta perché le attuali regole sul filibustering consentono alla metà repubblicana del Senato di bloccare diverse leggi importanti sia economiche che relative ai diritti civili e all’accesso al diritto di voto.
Al Senato, Biden deve equilibrare le pressioni della sinistra con il ruolo di freno dei membri democratici più conservatori. Alla Camera la maggioranza c’è anche se non così consistente come si sperava prima del voto di novembre. L’influenza del Caucus progressista è comunque importante e finora anche i centristi hanno dovuto accettare lo spostamento verso le richieste di Sanders e dei suoi.
Secondo quanto dichiarato dal Congressista newyorchese Jamaal Bowman in un’intervista al settimanale The Nation8, un altissimo funzionario della Casa Bianca avrebbe trasmesso il seguente messaggio all’ala sinistra: “se volete di più, spingeteci a fare di più”. Una richiesta che ha un precedente storico in Roosevelt che incoraggiava gli attivisti sindacali, sociali e per la giustizia razziale a fare pressione sulla sua Amministrazione per superare le opposizioni conservatrici.
Non c’è dubbio che la sinistra si muove per rendere più incisive le scelte politiche del Presidente anche se questo avviene in una situazione sociale che non vede in campo grandi movimenti di lotta (con la parziale eccezione di Black Lives Matter che ha iniziato ad ottenere qualche risultato). La stessa sconfitta nel referendum chiesto per poter aprire una sede di Amazon alla presenza sindacale, nonostante il sostegno piuttosto esplicito dello stesso Presidente. Ma gli eletti al Congresso e al Senato sono entrati conquistando le proprie posizioni contro l’establishment democratico grazie alla spinta dal basso e non per cooptazione. Per questo possono garantirsi di non essere solo una “sinistra ornamentale”.
- https://transform-italia.it/joe-biden-loste-nella-locanda-spagnola-2/.[↩]
- https://transform-italia.it/patto-programmatico-tra-biden-e-sanders/.[↩]
- https://www.inquirer.com/opinion/commentary/president-biden-progressive-agenda-bernie-sanders-20210502.html.[↩]
- https://inthesetimes.com/article/biden-first-100-days-progressive-speech-congress-infrastructure-economy-war.[↩]
- https://www.nytimes.com/2021/04/29/us/politics/biden-china-russia-cold-war.html.[↩]
- https://www.rollingstone.com/politics/politics-news/mitt-romney-booed-republican-convention-utah-1163961/.[↩]
- https://www.nytimes.com/2021/04/29/us/politics/biden-democrats.html.[↩]
- https://www.thenation.com/article/politics/biden-jamaal-bowman-response/.[↩]