(una riflessione in forma di appunti a margine dell’incontro con Pier Giorgio Ardeni autore de libro: “ Le classi sociali in Italia oggi” ed. Laterza.
Alcune note e spunti per un dibattito
- Punto di partenza il testo di Sylos Labini del 1975. NB: L’ autore includeva allora i coltivatori diretti fra le “classi medie” per motivi di ordine culturale, per l’ attaccamento ai valori tradizionali etc (una scelta.. etica?) Un aggiornamento oggi sarebbe doveroso ed una domanda va fatta: Quale è oggi la struttura sociale dell’agricoltura nel nostro paese? (quanti sono i salariati agricoli regolari”? Quanto incide il lavoro delle/nelle cooperative agricole?
- Gli altri aspetti di quella indagine: l’imborghesimento di vasti settori operai (la Fiat, i capi etc iniziò allora );idem la “ proletarizzazione” dei ceti medi” (cfr. : Gurrieri, 1972) e delle persone che si trovavano in questo segmento di strato sociale. Labini scriveva a tal riguardo, di “ individui famelici e rozzi” che lo caratterizzavano; sia come sia quel testo fu la prima analisi quantitativa delle classi sociali considerate dal punto di vista economico.
- Altra nota: Labini non dimentica la visione degli economisti classici (Smith e Ricardo soprattutto). E sintetizza: ci sono tre grandi categorie di reddito ; tre grandi classi sociali.
a) i proprietari fondiari (rendita fondiaria ) da cui oggi discende la rendita urbana;
b) i capitalisti agrari, industriali e commerciali la cui attività è finalizzata al profitto;
c) i lavoratori “dipendenti” che vivono di salario;
d) i lavoratori “indipendenti” (coltivatori diretti, artigiani) che possono essere ANCHE coltivatori diretti e artigiani, ma anche commercianti, professionisti indipendenti etc
- Nel 1971 la borghesia è rappresentata da diverse figure, collocate essenzialmente in due strati il primo è quello dei proprietari, imprenditori, dirigenti, che conta circa 500mila individui,nella parte “alta” ; il secondo è dato dalle classi medie (cioè impiegati pubblici e privati, insegnanti e piccolo lavoro autonomo valutabili ad oltre 5 milioni di unità ), mentre nelle categorie “particolari” Labini iscriveva i militari (allora esisteva la leva obbligatoria), i religiosi e “altri”.. quindi circa 680 mila persone. Alla classe operaia appartenevano 9. 400. 000 persone.
COME E’ CAMBIATA LA SITUAZIONE.
Il confronto dei dati tra il rilevamento del 1972 e l’ attuale (che troviamo nel testo del prof. Pier Giorgio Ardeni) è il seguente:
- BORGHESIA anno 1971: 442. 334 individui (2,3%) anno 2023: 2. 625. 439 (11,1%) ; la cifra comprende: proprietari, imprenditori dirigenti, professionisti.
- CLASSI MEDIE anno 1971: 8. 544. 264 individui (45,4%). anno 2023: 15. 503. 352 (65,6%)
Qui rientrano sia la piccola borghesia impiegatizia (1) sia la piccola borghesia autonoma (2). Alla prima fanno riferimento impiegati pubblici e privati, insegnanti, personale della sanità e dei servizi sociali. Alla seconda fanno riferimento i coltivatori diretti, gli artigiani, i commercianti, gli operatori dei trasporti e altri servizi.
- CLASSE OPERAIA anno 1971: 9. 845. 892 occupati (52,3%) ; anno 2023: 5. 528. 599 (23,4%) A questa voce appartengono: i salariati agricoli, i salariati dell’industria, i salariati dell’ edilizia, del commercio, dei trasporti e servizi, i domestici (vedi dati ISTAT 2023 e 2024)
DOPO CINQUANT’ ANNI se la domanda è “LE CLASSI SOCIALI CONTANO ANCORA?” la risposta è SI’ ed un metro di misura che conferma questa risposta è data da più fattori, ne citiamo uno, emblematico perché discriminante: i “beni posizionali”(non accessibili a tutti, oggetti o merci di alto valore) ; e poi certamente la precarietà o la discontinuità del lavoro, il “finto lavoro autonomo” (che puo’ essere anche intellettuale ), il fenomeno dei DSE (dependent self-employed) cioè lavoratori “autonomi”MA dipendenti. Il comando c’è anche se remoto e/o invisibile.
COME INTERVENIRE o RISPONDERE?
Una premessa è doverosa, allo scopo citiamo il testo di Paolo Perulli e Luciano Vettoretto, il primo è sociologo dell’ economia, il secondo è un urbanista. Nel loro testo (“ Elites, classe creativa, neoplebe” ed. Laterza ) si legge che bisogna rendere comprensibile il problema e occorre modificare il lessico e semplicizzare; è vero che c’è una divisione sociale del lavoro – 129 “classi” professionali -il titolo le “banalizza” ma è così- ma le discriminanti “tradizionali” restano, il comando d’ impresa l’ eterodirezione, la divisione del lavoro, la deregolamentazione contrattuale etc. e su queste discriminanti la politica deve saper intervenire.
BISOGNA SFATARE ALCUNI LUOGHI COMUNI
Il 48° RAPPORTO CENSIS parlava di “Eclissi della Società di mezzo”, il 56° evidenziava una non meglio traducibile “malinconia sociale “, magari una analisi più accurata e De Rita avrebbe scoperto come si stanno traducendo sui diversi territori di una Italia che si sta dissolvendo, quanto ad unità nazionale, le tante e diverse realtà economiche, le due/tre velocità che separano e differenziano le economie del Centronordest da quelle del Meridione e come questo fenomeno, che illumina la crisi del paese si rispecchi ed aggredisca anche l’ articolazione democratica dello Stato sui territori, tanto più dopo le continue manomissioni che il testo costituzionale ha subito. Franco Ferrarotti, dopo Labini, nel 1978 aveva indagato e raccolto materiale sull’ argomento (“ Mercato del lavoro, marginalità sociale e struttura di classe in Italia”(ed. F. Angeli ; Milano). Sconfitta sindacale negli anni 80, crisi del modello Italia, crescita di particolarismi localistici (Trieste ne sa qualcosa essendo stata fucina di quell’ esperimento di pseudomunicipalismo e di avversione dei partiti nazionali come la Lista per Trieste, ma lì l’ interclassismo era solo apparente) determinano un “salto di specie” che sconvolge la politica tradizionale e disarticola il blocco sociale che faceva riferimento (politico) al movimento operaio: a seguire fu il Veneto che già coltivava idee autonomiste, ed infine la Lombardia dove la Lega si pose da subito come antesignana di una secessione populista e di classe. Dal 1991. (Magari sarebbe il caso di ricordare che tale finalità,il separatismo, non solo stava nel manifesto politico della Lega Nord, ma che quella deriva era stata denunciata per tempo, anche attraverso un capillare lavoro di ricerca ed inchiesta sul territorio, da Vittorio Moioli, sindacalista della CGIL e allora iscritto al PDS, che però rimase inascoltato e ci fu chi minimizzò, al limite del dileggio straparlando di una lega “costola della sinistra”. . Interi settori sociali si spostarono a destra non pi ù rappresentati evidentemente da un partito che aveva scelto tutt’altra strada.
(Aperta parentesi: dopo trent’ anni siamo giunti al capolinea? No, si può scendere ancora pi ù in basso ed a destra, gli esempi oggi non mancano.
C’è chi come il sindaco di Trieste si considera in servizio permanente e la stampa spesso utilizza- inconsapevolmente?- il termine “governatore” a proposito del Presidente di Regione del Friuli Venezia Giulia, evidentemente c’ è chi pensa di esser di essere già in uno stato federale e che il sindaco abbia le cariche del podestà nel ventennio fascista.
Cosi’ si assiste senza batter ciglio a quei “ governatori” regionali come Fedriga, Zaia, lo stesso DeLuca in Campania che prefigurano esemplarmente, non solo per come si atteggiano, ma per le decisioni che prendono, una autocrazia, un nuovo ceto, mentre l’ organo consiliare si riduce (fatte le debite eccezioni) a simulacro di una classe di governo funzionale alle esigenze del mercato e delle lobbies locali, con le strutture e commissioni ridotti al mero compito esecutivo di applicazione di decisioni già prese altrove.
Sulla stessa lunghezza dì onda di chi pensa che la democrazia sia un costo e che i soli veri esperti vengono dal mondo dell’ impresa e della finanza. )
Noi pertanto ci chiediamo quanto hanno inciso le problematiche politiche e dei territori sulle dinamiche sociali nel nostro paese in conseguenza dei grandi cambiamenti post ‘89. La frammentazione sociale comincia in quelli anni ed a Trieste la sinistra candida un industriale a sindaco.
- Il Ministero delle Finanze presenta il Libro Bianco:
- 569. 272 operai …………………………….. . reddito medio annuo lire 21. 329. 000
- 107. 175 impiegati………………………….. . reddito medio annuo lire 31. 432. 000
- 430 insegnanti S. M. ……………………. reddito medio annuo lire 32. 782. 000
I lavori di indagine di Antonio Cobalti – citiamo “La classe operaia nella società postindustriale: il proletariato dei servizi”, “ 1993- allargano lo spettro dell’ indagine sulla scomposizione di classe e la nuova stratificazione che si determinava in quegli anni. Egli nota, elaborando 5016 test /questionari distribuiti sui posti di lavoro ad un quadro sociale compreso anagraficamente tra 18 e 65 anni d’ età come la mobilità intergenerazionale fosse allora ancora alta ed ascendesse verso le classi alte, mentre la mobilità individuale /intragenerazionale) fosse pi ù alta verso la classe media urbana, quella operaia specializzata e quella alta. Per evidenziare qualche numero e fare un raffronto:
Salariati agricoli (dati 1991) 705. 421; (dati 2023) 340. 317;
Salariati industria 3. 586. 958 2. 630. 698;
Salariati edilizia 1. 095. 309 716. 230;
Salariati commercio 1. 227. 973 511. 603;
Salariati trasporti/servizi 887. 556 1. 329. 751
Domestici 123. 580 ————–
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C’è quindi una mutazione sociale che trova il suo culmine nel quinquennio critico (2008 – 2015) e dove a dettar legge è l’ economia globalizzata competitiva fondata non pi ù sul laissez faire ma sul “trickle down” (percolamento) che faceva dire già nel 1997 ai leader del Labour inglese, John Prescott e Tony Blair: “We are all a middle class”. Siamo tutti classe media, uno slogan quanto mai infelice ma che fu fatto proprio anche qui da un segretario del PD estimatore di quella politica. In Italia questo processo di mutazione, che ebbe molti aspetti e ricadute dolorose sul versane occupazionale e sulla tenuta sociale del paese stesso, iniziò nei fatti col governo Prodi ed è allora che il paese entrò in un periodo buio, per la politica, e soprattutto per l’ economia, le cui leggi di ispirazione liberista, consentirono a Berlusconi ed alla destra di affermarsi, ed ai ceti proprietari di imporre al paese le loro priorità (vedi i testi di Luciano Gallino sul finanzcapitalismo ). La legge 30/2003 (Maroni, Sacconi) fece strame del Mercato del Lavoro e dei CCNL di settore elevando la precarietà a variabile dipendente o voce di costo, assecondando le esigenze dell’ impresa e perciò rappresenta ancora oggi, nonostante i rattoppi e gli aggiornamenti del testo originario, l’ epitome di una restaurazione neoliberista che toglieva diritti, dignità, sicurezza sociale e futuro alle nuove (e vecchie) generazioni. Una grande mistificazione che perdura e che ha portato acqua al mulino delle vecchie e nuove destre. La riduzione e l’ impoverimento della democrazia ha portato sia alla riduzione degli spazi di rappresentanza sia alla progressiva affermazione della destra neofascista, che avviene, qui ed estensivamente anche in larga parte d’ Europa, nel momento in cui le politiche neoliberiste sono state fatte proprie anche dagli ex partiti socialisti, socialdemocratici e centristi, consentendo alla destra di trovare, attraverso il populismo, ascolto e sponda in tessuti sociali demotivati e non pi ù tutelati da politiche fondate sul lavoro, la sicurezza e l’ inclusione sociale, l’ assistenza pubblica.
Occorre decisamente invertire la rotta. A cominciare da qui, dal Nordest. Il progetto di “autonomia differenziata” come va letto se non come il tentativo di superare l’ orizzonte della coesione sociale, della solidarietà e dell’ unità nazionale favorendo, con l’ egoismo localistico e politiche di lobbies,un processo di dissoluzione dell’ edificio democratico su cui poggia la Costituzione ? A chi giova un quadro geopolitico fondato su diversi regimi di governo, dalle diverse autonomie delle regioni, province, città metropolitane ? Concorrono o no tali tentativi a formare (o a DEformare ) il quadro sociale di riferimento su cui riversano la propria azione?
Paradossalmente assistiamo oggi ad una atonia del grande capitalismo ed alla rivincita dell’ economia del territorio in un quadro di dissipazione del capitale umano che non si trasforma in energia lavorativa.
Abbiamo tre milioni di disoccupati, un milione e 780 mila “inattivi”, tre milioni di sfiduciati e passivi, comunque senza un lavoro stabile, mentre avanzano scissioni territoriali e sociali, in un quadro di torsione reazionaria dell’attuale governo attraverso politiche, oltretutto, che si accaniscono contro i lavoratori, i pensionati ed i ceti medi. . E’ tempo di agire. SE NON ORA QUANDO?
Marino Calcinari