L’omicidio efferato di Satman Singh non è un fatto di cronaca. Non solo perché esistono gli estremi per definirlo “volontario” e non certo colposo. Il sequestro del suo cellulare e di quello della moglie, operato dai titolari dell’azienda per cui è morto, rende ancora più grave un reato compiuto in maniera raccapricciante e va analizzato in un contesto ancora più grave. Anzi va inserito in una catena di riflessioni che dovrebbero fungere da cartina di tornasole dello stato di questo Paese, riflessioni necessarie, per chi vuole cambiare lo stato di cose esistenti.
Satman Singh è morto in uno dei luoghi massimi di sfruttamento del bracciantato ma sono tanti, almeno 400 secondo l’osservatorio Placido Rizzotto, le situazioni simili già monitorate da tempo, presenti tanto nel ricco Nord che nel Meridione.
Difficile sfuggire, a fronte di un comparto come quello agroindustriale in cui la materia prima, il raccolto, è acquistata dalle grandi catene di distribuzione a prezzi irrisori: chi ha i campi, trae profitto dal lavoro nero e in condizioni di semi schiavitù. Ovvio che non va accettata la logica governativa del povero ma onesto imprenditore che non riesce a far fronte a queste spese, come è ovvio che sia comodo e ipocrita parlare unicamente di “caporalato”, l’ultima catena fra sfruttato e sfruttatore, che spesso è connazionale della manodopera immigrata assunta. Quanto accade nell’Agro Pontino è, da oltre un quindicennio, denunciato da lavoratori, sindacalisti (non tutti), ricercatori e avvocati.
Marco Omizzolo, sociologo, presidente della Cooperativa In Migrazione, autore del volume Agromafie, di quel mondo tremendo ha fatto conoscenza diretta all’inizio del suo lavoro. Fingendosi Sikh, come gran parte dei braccianti, ha lavorato, anche di notte, in ginocchio nei campi, ha vissuto le giornate interminabili di sfruttamento che non costituiscono l’eccezione, ma la regola. Alcune sfumature di quanto racconta suggeriscono di affrontare tale questione con un altro occhio, complementare a quello prettamente economico e criminale. Forse più che in altre parti d’Italia, lo schiavismo dell’Agro Pontino si lega alle basi ideologiche e culturali su cui i rapporti sociali qui dominanti, un misto di nostalgia da regime (Latina si chiamava in origine Littoria), il bacino enorme di cui gode la destra nel governare la provincia. Ricordiamo che è qui che è stata eletta nel 2019 Giorgia Meloni e da qui è uscito l’eurodeputato Nicola Procaccini di Fratelli d’Italia e qui è radicata l’idea – che del resto si è ormai espansa in gran parte del Paese – che chi lavora nei campi non deve avere diritti.
Epifenomeni? Forse. Ma se così non fosse?
In quest’area del paese si registra una concentrazione di lavoratori e di lavoratrici provenienti per lo più da un’area ristretta del pianeta, il Punjab, modalità di arrivo e di gestione della manodopera che di fatto configurano forme di organizzazione criminale, la realizzazione di ghetti in cui almeno 12.000 persone sono stipate, assenza di contratto di lavoro e spesso di permesso di soggiorno, assenza pressocché totale dello Stato. Alle istituzioni si sostituiscono quelli che si fanno chiamare datori di lavoro ma che dalla manodopera pretendono di essere appellati col termine di “padrone”. Le inchieste svolte in passato dai pochi coraggiosi che hanno provato a rompere i vincoli di omertà, presenti per paura e per ricatto fra le stesse persone che subiscono tali trattamenti, hanno portato a scoprire non solo che, per reggere la fatica, chi è nei campi accetta di essere dopato con oppiacei che deve pagare e che consentono di non sentire il dolore ai muscoli e alle ossa. Il padrone spesso pretende che chi lavora per lui si tenga a tre passi di distanza, che non alzi mai il capo, che non provi a rispondere. C’è chi ha testimoniato di essere stato costretto a fare il saluto romano prima di iniziare la giornata.
Di fronte a tali accuse c’è chi si è difeso provando a parlare di clima goliardico. Ma è questa la “cultura” che si tenta di imporre a chi è costretto a stare a schiena bassa, la paga di 4 euro l’ora non è certo ascrivibile ad un clima di scherzo fra colleghi. E, truffando lo Stato, c’è anche chi, in possesso di documenti, viene assunto con contratti da cui risultano poche ore lavorate, non le effettive 12/14 giornaliere e che permettono di essere licenziati per poi continuare a lavorare a condizione di versare al padrone parte dell’indennità di disoccupazione. E va ripetuto: “diritti zero”. In Italia, infatti, la direttiva europea 52/2009, che garantiva protezione alle persone irregolari solo in caso di tratta, è stata attenuata dalla legge 119 sul caporalato che permette di usufruire del permesso di soggiorno a chi denuncia grave sfruttamento. Poco è cambiato, rari e ininfluenti controlli, omertà diffusa perché garantire lo status quo fa comodo a molti, poche purtroppo le ribellioni. Anche quando partono singole denunce – ce ne sono state – si fatica a portarle avanti. L’azienda per cui lavorava Satnam Singh era stata già nel 2019 inquisita, fra le persone coinvolte persino un dirigente della Cisl locale, ma tutto era tornato come prima.
Ma torniamo agli elementi da regime totalitario e fascistoide che si evincono da tale contesto: apartheid, diritti negati, sfruttamento, illegalità diffusa, valore delle vite e delle voci di chi lavora meno influenti di fronte alla legge, amministrazione che rivendica con orgoglio le proprie modalità di trarre beneficio economico da tale modello di sviluppo. Come se, invece di cercare colonie si riprovasse, come avveniva in America Latina, ad importare schiavi a tempo determinato.
Mancano le denunce, sia per timore di essere bandite, sia perché il patriarcato è trasversale, sia perché si rischia di non essere credute, ma negli anni sono emerse vicende di donne, mogli o figlie dei lavoratori, che hanno subito anche stupri e violenze da parte di caporali e padroni. Potremmo definire questo un fascismo primitivo che non esiste unicamente nell’Agro Pontino. Le donne come merce, i ghetti in cui tenere distanti chi lavora, la caccia al nero fatta per divertimento, sono un lato nascosto della storia di questo Paese, si registrano episodi simili da Saluzzo a Ragusa, passando per la Piana del Sele, per la tendopoli calabrese di San Ferdinando, per il “Gran ghetto” di Borgo Mezzanone nel foggiano e tanti ancora. Situazioni in cui regna tanto la violenza padronale quanto l’assenza di qualsiasi garanzia di protezione per chi lavora e che, soprattutto, sono luoghi di separazione netta con i paesi più vicini.
Quanto è accaduto nelle campagne di Latina è quindi da considerarsi la punta dell’iceberg di un contesto che riguarda, in merito alle politiche del lavoro e del controllo repressivo delle persone migranti, l’intera area UE. Tali condizioni sono istituzionalizzate, a livello nazionale, con la Bossi-Fini e con tutta la piramide di decreti, circolari, gestioni prefettizie che si sono sedimentate in 22 anni. Si tratta di una legge che ha prodotto cultura e quella cultura ha ben attecchito in strati padronali e persino popolari. Ha creato una condizione considerata insuperabile, per cui entra regolarmente solo chi “ci serve” e alle condizioni che vogliamo noi bianchi che manteniamo il potere dominante. Questo perché si tratta di una legge pensata – male – sul controllo del mercato del lavoro, in un quadro unicamente nazionale, adeguata ad una perdita di agibilità democratica per ognuna/o di noi. A Latina, per condizioni che hanno radici storiche ma ben impiantate nel presente, le contraddizioni emergono in maniera più evidente, ma di quante situazioni simili è ormai piena l’Italia? E capita solo da noi?
E questo è un nodo da affrontare. L’affermazione delle destre estreme in gran parte d’Europa, come già scritto in passato, ha avuto come epicentro il contrasto all’immigrazione. Come scriveva Umberto Eco nel suo Il fascismo eterno, “l’UR-Fascismo cresce e cerca il consenso sfruttando la paura della differenza. Il primo appello di un movimento fascista o prematuramente fascista è contro gli intrusi”.
Solo una lettura miope può portare a pensare che in Austria o in Germania la paura derivi dagli sbarchi nel Mediterraneo. Lo scontro deriva da una presenza reale o percepita di persone “altre” che non devono godere degli stessi diritti delle persone considerate autoctone. La direttiva già citata, come il non aver mai ratificato la Convenzione Onu per i diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie, sono la base strutturale su cui questo può tranquillamente avvenire. Poi subentra il fatto che, anche nell’estrema destra come in ambienti a noi tanto vicini, si può ancora parlare, riducendone gli spazi, di diritto d’asilo, ma non di diritti sociali paritari. Che restino persone con meno opportunità, che debbano subire una selezione qualitativa estrema, per cui solo pochissimi dovranno avere accesso a condizioni di vita pari a quelle dei cittadini europei. Gli altri e le altre, con modalità diverse, in maniera gerarchica, devono restare in condizioni di subalternità, quelle che un suprematismo che ha ancora pochi decenni di vita, intende imporre anche col sangue. Sì, col sangue, come è accaduto a Satnam Singh.
Stefano Galieni e Rita Scapinelli