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Lampedusa non è diventata un campo da golf

di Stefano
Galieni

2011, primavera calda, non solo dal punto di vista climatico, durissima se guardata dal punto di vista di chi vedeva l’Europa a poche miglia. Come birilli i regimi di Tunisia, Libia, Egitto, stavano crollando, spinti dal vento delle primavere arabe. Un vento di libertà che portò decine di migliaia di persone, a partire dall’inizio dell’anno, soprattutto giovani, a cercare fortuna dall’altra parte del Mediterraneo, verso l’Europa sognata e immaginata come paradiso in cui tutti potevano diventare facilmente ricchi. L’Italia che giungeva nelle tv di Paesi così vicini, induceva a pensare che la crisi economica che da tre anni stava travolgendo il pianeta, da noi non aveva prodotto effetti, che da noi si continuava a consumare, lavorare, fare affari e godersi la vita senza restrizioni familiari, religiose, tradizionali e senza l’incubo dei dittatori che venivano abbattuti per essere rimpiazzati. In quella “primavera / autunno italiano, governo Berlusconi, con agli Interni il leghista Maroni, si determinò quella che venne chiamata Emergenza Nord Africa (Ena) un acronimo ormai dimenticato. Accadde di fatto che mentre, si fuggiva, soprattutto dalla Tunisia verso Lampedusa, ultimo lembo d’Europa, 22 km quadrati, in parte cementificati in parte brulli e la cui popolazione era spesso isolata dal resto del Paese, arrivarono in pochi mesi decine di migliaia di fuggitivi. Già a marzo era scattato il primo allarme. 6000 persone, più degli abitanti dell’isola, erano rimaste intrappolate in questa zattera in mezzo al mare, bloccati i trasferimenti con i traghetti o con gli aerei verso la terraferma, continuavano a giungere barchini di persone disperate a cui le persone, non certo benestanti, dell’isola offrirono all’inizio generi di prima necessità e conforto. Ma l’aria era tesissima quando giunse, accolto da folle di estimatori, il Cav. Silvio Berlusconi, 12 anni fa molto più prestante e pronto a ergersi come salvatore del popolo. Un comizio oramai dimenticato portò a fare promesse che inevitabilmente non vennero mantenute: “Stanno per arrivare navi chiamate da me che porteranno via gli immigrati”, “Ho parlato con il nuovo leader tunisino, da ora in poi non partirà più nessuno”, “La gente di Lampedusa è stata straordinaria, l’isola avrà il premio Nobel per la Pace” e ancora, “Ho dato ordine, una volta ripulita l’isola, di costruire un grande campo da golf che porterà lavoro e turismo” per poi chiudere confessando quasi in tono confidenziale “ho acquistato una villa da 2 mln di euro e verrò a vivere con voi”. Inutile dire che nessuna delle promesse è stata mantenuta. Per mesi le persone hanno dormito per terra o in strada, presto la paura e il rifiuto si sono imposte rispetto ai sentimenti di accoglienza, ci sono stati scontri e incidenti fra isolani e migranti. Dopo uno dei tanti naufragi, avvenuti al largo dell’isola, il 7 aprile, il ministro dell’Interno, che una settimana prima aveva già preso accordi in conferenza Stato – Regioni, per una distribuzione proporzionale delle persone giunte nel territorio nazionale, col potenziamento dell’allora Sprar, (Sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati) e in seguito all’ennesimo tragico naufragio, con un’informativa urgente, aveva preso alcune discutibili ma significative disposizioni. Entrò in campo la Protezione civile nazionale, molte Regioni non accettarono di accogliere chi proveniva da Lampedusa tant’è che gran parte delle strutture emergenziali di accoglienza vennero realizzate in Sicilia (la più grande a Mineo in provincia di Catania), in Puglia, a Manduria e nel resto del Meridione. Maroni, che all’inizio dichiarava che avrebbe “respinto tutti i clandestini”, poi, nell’impossibilità di realizzare tale annuncio propagandistico, preferì una gestione emergenziale, parlando di invasione, annunciando 50 mila persone da redistribuire (ne giunsero 28 mila), contribuendo a far divenire l’accoglienza un appetitoso business. Provò anche in sede europea a chiedere l’applicazione della direttiva 55/2001, quella che ha reso possibile la salvezza per i profughi ucraini, ma incontrò l’opposizione ferma di gran parte dei governi UE e l’appoggio dei soli Paesi interessati da nuovi arrivi: Malta, Spagna e Grecia. Ebbe a dire, durante una seduta alla Camera il 12 aprile, il giorno dopo aver incontrato gli altri colleghi europei a Lussemburgo: “L’attivazione della direttiva è, come tutte le questioni europee, una procedura molto lunga. Mi sono davvero rammaricato ieri che il Consiglio affari interni, contrariamente alla richiesta mia e anche del Commissario Malmström abbia deciso per ora di non attivarla”. Una lentezza che fortunatamente, non si è verificata con la crisi ucraina, ma a cui l’Italia ovviò con uno stratagemma. Il ministro fece approvare per decreto che, chi poteva dimostrare di essere giunto dal 1° gennaio al 5 aprile del 2011, aveva diritto ad un permesso di protezione straordinario, dalla durata limitata a sei mesi (che vennero poi rinnovati). Maroni sapeva perfettamente che gran parte delle persone arrivate nelle isole Pelagie avrebbero cercato di andarsene dall’Italia e così avvenne. Ottenne fondi dall’UE e chi arrivava cominciò ad essere smistato in centri di raccolta da cui, ottenuto il permesso, si allontanava per cercare di raggiungere la Francia. Il 5 aprile è una data significativa perché in quel giorno venne stipulato un accordo con la Tunisia che facilitava i rimpatri di persone provenienti da detto Paese.

Il caos a Lampedusa continuò, diminuì per alcune settimane l’arrivo di persone dalla Tunisia ma divenne più forte quello dalla Libia mentre la Francia cominciò presto a rispedire in Italia, parte di coloro che avevano varcato “illecitamente” il confine, utilizzando il regolamento Dublino. La situazione a Lampedusa rimase critica per tutto il 2011 e parte dell’anno successivo, soprattutto nel settembre si verificarono rivolte, incendi del Centro di Primo Soccorso e Accoglienza di Contrada Imbriacola, scontri anche violenti fra persone illecitamente trattenute nel centro e cittadini lampedusani. Anni dopo nel settembre 2015, la Corte Europea per i Diritti Umani (CEDU), con la sentenza Khlaifia e altri c. Italia, condannò l’Italia a risarcire coloro che erano stati illegalmente trattenuti e rimpatriati e che erano riusciti ad impugnare le decisioni subite. Per ogni trattenimento ed espulsione giudicata illecita e compiuta causando trattamento inumano e degradante, lo Stato italiano dovette sborsare 10 mila euro.

A distanza di 12 anni la storia si ripete ed è difficile prevedere quale sarà la gestione della fase che si apre. La Tunisia è nel caos, con una crisi economica pesantissima, grossi problemi politici e sociali che stanno spingendo sempre più giovani a tentare la fuga. Il centro di accoglienza di Lampedusa (oggi si chiama hotspot), dalle capacità di accoglienza ridotte rispetto al 2011 è da tempo al collasso, rimpatri e ricollocazioni temporanee non sembrano sufficienti a risolvere la crisi. Allora si utilizzarono anche navi per detenere persone, ennesima procedura illegale, oggi si parla ancora dell’intervento del ministero della Difesa e della Marina Militare, non solo a Lampedusa. Secondo il cruscotto statistico del ministero dell’Interno, dal 1° gennaio al 4 aprile sono giunte, su territorio italiano, circa 28 mila persone, di cui almeno 3028 minori. L’hotspot di Lampedusa non regge né si riesce, o forse si vuole riuscire, a trasferire le persone in altre regioni in cui poter chiedere protezione, mentre il governo non fa altro che restringere gli spazi e i fondi per l’accoglienza. Dal 2017 con le misure fondate unicamente sul tentativo di esternalizzare le frontiere e di impedire l’arrivo di persone sul sacro suolo nazionale, dal Memorandum con la Libia di Minniti ai decreti Salvini e oggi Piantedosi, il sistema di accoglienza già carente e che in trent’anni non è mai uscito fuori dall’emergenza, è stato scientemente demolito. L’attuale governo lascia trapelare la proposta di chiedere ai prefetti di requisire i locali sfitti per farli divenire luoghi temporanei e straordinari di accoglienza, ha messo in legge di bilancio 42 milioni di euro per potenziare gli inutili e disumani Centri Permanenti per il Rimpatrio (ex CIE), che neanche riescono nel compito per cui sono stati creati. Ci si affanna a trovare accordi premiali con i Paesi capaci di blindare le frontiere, informare i propri cittadini dei rischi che si corrono venendo in Italia illegalmente, in cambio di “quote di ingresso legali” per chi vuole venire in Italia, sostegno militare per sigillare le frontiere, progetti di cooperazione. Si finanziano sistemi di sicurezza ultramoderni per il controllo dei confini e si donano a governi instabili come quello libico, ulteriori motovedette per andare a riprendere chi cerca di partire, si rinnova la missione Irini per 2 anni, sempre per il controllo delle frontiere, si lascia che l’agenzia Frontex, invece che intervenire con assetti navali a salvare le persone, si doti unicamente di aerei e droni per segnalare le imbarcazioni di chi fugge alle autorità dei paesi di partenza che a volte li vanno a riprendere, più spesso li lasciano allo sbaraglio. Una storia infinita che sembra volersi ripetere mentre è da una parte aumentato il cinismo istituzionale, si veda quanto accaduto a Steccato di Cutro, dall’altra, almeno per ora, il timore della fantomatica quanto inesistente invasione, non sembra essere in cima alla lista delle preoccupazioni dell’opinione pubblica nostrana, affannata da ben altri problemi in primis un impoverimento generalizzato.

L’attuale governo sembra capace di prendersela con l’attore non presente nel 2011, le navi umanitarie delle Ong, che quando va bene riescono a salvare il 10% delle persone in arrivo. In compenso diminuiscono le operazioni di soccorso in mare, gli interventi della nostra Guardia costiera e diventano quotidiani i naufragi al largo, magari in zone dove ci si dovrebbe aspettare interventi che mancano da parte delle autorità di Malta, della Libia o della Tunisia. Alle operazioni di search and rescue (ricerca e salvataggio) si prediligono quelle di law and enforcement, (operazioni di polizia), le prime sono condotte con imbarcazioni adatte a operazioni di soccorso anche in situazioni estreme, le seconde unicamente a respingere. Se il marzo 2011 fu foriero di quanto poi sarebbe avvenuto nella bella stagione, quello appena terminato lascia presagire scenari simili in contesti diversi e con, se possibile, maggiore incapacità istituzionali ad affrontare i problemi. Lampedusa torna, insieme ad altre località dello Jonio e della Sicilia, a divenire area nevralgica ma tutto in assenza di piani attuabili e, in quanto tali, impopolari per il governo più a destra della storia repubblicana. L’UE risponde continuamente picche alle richieste italiane di cooperazione, non si fida di chi non è in grado di sistematizzare la gestione delle frontiere, di chi non è in grado di regolarizzare, come sta avvenendo in vari paesi europei, coloro che sono presenti in condizioni di invisibilità, di rispondere con tempi celeri alle richieste di chi prova a chiedere protezione umanitaria. Anzi il cosiddetto “decreto Cutro”, perché proposto in un Cdm che si è tenuto nella località calabrese dove si era verificata, poche settimane prima la strage di cui si continua, per fortuna, a parlare, restringe gli spazi di manovra per chi vuole trovare soluzioni e contemporaneamente fa leva su ingressi limitati per sopperire alla carenza di manodopera in alcuni settori vitali dell’economia. E anche qui si dovrebbe aprire un filone enorme. Da sempre chi arriva attraverso simili vie, non incontra poi datori di lavoro disponibili a sottoscrivere i contratti, si ritrova in breve tempo ad essere, suo malgrado, “clandestino”, a lavorare al nero, a rischiare l’espulsione nonostante lo sfruttamento a cui si viene sottoposti.

L’estate che si prospetta rischia di essere un duro banco di prova per il governo, i muscoli tanti volte mostrati in tv sono inutili e dannosi, la prospettiva è quella di una volontà di far divenire qualcosa di gestibile con altre modalità, elemento di crisi per rafforzare l’immagine di esecutivo forte e che non si piega, provando a dirottare sui migranti, l’incapacità di risolvere i reali problemi del Paese. Potrebbe anche non funzionare, è un film trito e ritrito, già visto, come i cinepanettoni che non attraggono più pubblico. Servirebbe un respiro più lungo, una visione di Europa che non sembra più esistere, in una fase dove trionfano, ultima la Finlandia, le destre xenofobe che hanno come uniche avversarie, pseudo sinistre guerrafondaie. La guerra sottrae risorse anche per affrontare problemi di questo tipo altrimenti di facile soluzione, basterebbe la scelta di attivare la direttiva 55/2001 per chi arriva da aree di crisi militare, climatica, economica, per dare al vecchio continente una prospettiva diversa, ma gli egoismi nazionalisti, le scelte neoliberiste, l’incapacità congenita a pensare ad un futuro condiviso, rendono questo un’utopia, su cui forse è possibile ricostruire una prospettiva realmente di sinistra d’alternativa.

I problemi a Lampedusa torneranno probabilmente ad aumentare, ma senza la villa berlusconiana, mai acquistata e senza alcun campo da golf. E almeno questo non è un male. Per irrigare un campo da golf servono almeno 50 milioni di litri d’acqua l’anno, lo Stato italiano porta a Lampedusa circa 15 mila metri cubi di acqua al mese appena sufficienti per i 6000 residenti e anche per il carico turistico estivo. Per un solo campo da golf, servirebbe un terzo di quest’acqua. Anche per questo il campo da golf non si è fatto e nessun lampedusano ha trovato lavoro come caddies, ma non si è neanche investito nelle strutture necessarie per rendere migliore la vita nella piccola isola, sovente priva di contatti con la Sicilia per settimane a causa delle cattive condizioni del mare. Carenza di collegamenti, di strutture sanitarie, di servizi fondamentali. E, ironia della sorte, il governo si trova a dover subire l’ennesima sentenza della Corte Europea. La vicenda per cui si è condannati risale all’ottobre 2017, quando 4 cittadini tunisini vennero prima detenuti nell’hotspot isolano e poi rimpatriati senza identificazione. L’Italia è stata condannata a risarcire ognuno degli espulsi con 8500 euro più le spese processuali. E i ricorrenti, per quel periodo e per gli anni successivi, stanno già aumentando. Ma tutto questo non conta per gli abitanti di Lampedusa, a volte raccontati come eroi, altre denigrati, in realtà colpevoli unicamente di vivere nell’ultimo avamposto d’Europa senza esserne considerati sostanzialmente parte. Ma la loro opinione sembra non contare e se si lamentano, che se la prendessero con i migranti. Tanto è colpa loro. O no?

Stefano Galieni

 

 

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