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L’Africa e l’amara economia politica globale del cioccolato

di Alessandro
Scassellati

Il modo di incorporazione del continente africano nel sistema economico globale è stato ed è asimmetrico. Riflette le dinamiche dei rapporti di forza sbilanciati tra nord e sud del mondo e la pesante eredità di secoli di colonialismo violento. La maggior parte dei Paesi africani continua a commerciare principalmente con i Paesi del Nord del mondo e ora, sempre più, anche con la Cina e altri Paesi BRICS. I Paesi africani esportano materie prime minerali ed agricole e importano prodotti a più alto valore aggiunto. Il valore aggiunto, quindi, viene appropriato dalle economie più avanzate, perpetuando così la disuguaglianza tra economie povere e quelle ricche. Da questo punto vista, il caso del cacao, una merce globale africana, è esemplificativo della condizione strutturale di debolezza e fragilità del continente, impegnato a produrre commodities per il mercato globale attraverso modi di produzione distruttivi per l’ambiente naturale e le relazioni sociali, creando insicurezza alimentare, esclusione sociale, conflitti violenti ed instabilità politica e finanziaria. Se l’Unione Europea vuole veramente lavorare per la salvezza della vita umana dalla catastrofe ambientale imminente, dovrebbe impegnarsi per costruire una relazione equa con l’Africa, che consenta di ridurre distorsioni e disuguaglianze ormai non più tollerabili.

La crisi economica colpisce l’Africa

La crisi e il rallentamento della crescita economica globale – dopo il 2011 e poi ancora dal 2020 con la pandemia da CoVid-19 – ha colpito duramente i Paesi poveri e, in particolare, quelli africani che nei primi anni 2000 avevano beneficiato di una crescita che aveva portato molti economisti a parlare di “miracolo africano”, ma che poi si è rivelata molto fragile, troppo legata al prezzo delle materie prime e poi frenata da fattori economico-politici strutturali.

Storicamente, il continente africano è stato incorporato nel sistema economico globale come fornitore di uomini e donne – dal traffico degli schiavi, prima dei trafficanti nordafricani e arabi e poi dei colonialisti europei verso le Americhe dal 1600 al 1800, fino ai lavoratori migranti e rifugiati di oggi – metalli e pietre preziose, avorio, e materie prime grezze sia minerali sia agro-alimentari a basso prezzo.

Il Ghana, ad esempio, ha 28 milioni di abitanti, è uno dei Paesi più stabili sul piano politico dell’Africa occidentale e uno dei soli 9 paesi dell’Africa subsahariana che avevano raggiunto il Millennium Development Goal di dimezzare la povertà estrema. Ma, ogni anno 250 mila giovani si contendono 5 mila nuovi posti di lavoro. L’assenza di prospettive e opportunità spinge molti a cercare fortuna all’estero. Il 70% dei ghanesi che vivono all’estero si trova in altri Paesi dell’Africa occidentale. Il restante 30% vive e lavora in UK, Germania, Italia, Canada e USA.

Oggi, la libera circolazione degli uomini è inibita da leggi in materia di immigrazione per lavoro che hanno di fatto chiuso le frontiere dei Paesi europei e del nord del mondo ai cosiddetti “migranti economici” africani (dei 1,3 miliardi di africani, solo 29,3 milioni hanno lasciato il loro Paese, e il 70% di questi si è semplicemente trasferito volutamente o forzatamente altrove nel continente). Ma, la chiusura degli accessi legali (i visti di lavoro) ha significato l’apertura di quelli illegali attraverso le mortali rotte del deserto e vie del mare.

In ogni caso, è soprattutto la produzione insostenibile di commodities che alimenta un capitalismo estrattivista che causa devastazioni ambientali, carestie, disuguaglianze, povertà, instabilità politica, dittature e conflitti sanguinosi. Arricchisce le global corporations e le élites nazionali, ma porta all’espropriazione e proletarizzazione della grande maggioranza delle popolazioni. Una produzione che viene disciplinata da drammatiche oscillazioni dei prezzi globali delle materie prime – l’anello più debole delle catene del valore globali – sul mercato mondiale.

L’agricoltura africana non garantisce la sicurezza alimentare delle popolazioni africane

Le caratteristiche pre-industriali di gran parte delle economie dei 55 Stati africani fanno sì che il settore agricolo sia ancora fondamentale per la vita di centinaia di milioni di africani. In Africa, il 60% della popolazione vive ancora di agricoltura e allevamento nelle campagne. Di questi, l’80% sono contadini e allevatori poveri, al limite della sussistenza.

Il livello di meccanizzazione agricola in Africa è piuttosto basso, e la maggior parte della produzione si basa ancora sul lavoro umano e animale. Ad eccezione di alcune grandi e grandissime fattorie intensive che operano per il mercato globale (molto spesso controllate da imprenditori stranieri, fondi sovrani o grandi multinazionali), i piccoli agricoltori non possono permettersi alcuna attrezzatura. Le famiglie contadine sopravvivono soprattutto per il lavoro delle donne. In Africa, come in Asia, il 40-50% dell’agricoltura odierna è in mano alle donne, con punte del 55% in certi Paesi. Queste donne e i loro bambini, sono il target naturale delle ONG e delle strategie di sviluppo locale e di empowerment che fanno leva su microcredito e formazione. Se si forniscono loro gli strumenti per emanciparsi dalla fame – secondo la FAO, nel 2017 c’erano circa 257 milioni di persone che soffrivano di denutrizione cronica in Africa -, si fornisce alla società locale l’occasione per avere un reddito, farsi un’istruzione e investire nello sviluppo territoriale, innescando un circolo virtuoso.

Tenuto conto che, a livello mondiale, in base ad una serie di analisi recentemente effettuate, è ormai chiaro che l’estensione di nuovi terreni da destinare all’agricoltura è limitata ad un possibile incremento di non più del 5% del totale attuale, a meno di provocare gravi squilibri ambientali, da qualche anno è in atto una nuova spinta al land grabbing, all’accaparramento delle terre fertili.[1] Si stima che in Africa siano stati espropriati 134 milioni di ettari di terreni tra il 2000 e il 2010 e che oltre 50 milioni di ettari di terra siano stati concessi in affitto a imprese e organizzazioni straniere, come i fondi sovrani dei Paesi arabi ed asiatici.

Il 90% della popolazione rurale africana non può vantare titoli di proprietà giuridicamente validi sulla terra in cui vive e che possiede anche da generazioni e ora, a causa degli investitori stranieri, rischia di perdere la terra che coltiva per alimentarsi.

Imprese globali e Paesi asiatici, arabi ed europei con disponibilità di capitali, ma scarsità di terra coltivabile, ottengono in concessione, affittano o acquistano milioni di ettari per produrre cibo in modo intensivo (cereali, mais, riso, soia, olio di palma, canna da zucchero, etc.), legname, fiori e materie prime per i biocarburanti per i loro consumatori.

In presenza di questi grandi “progetti di sviluppo”, milioni di contadini e allevatori africani vengono espropriati della loro terra, immiseriti, proletarizzati come meri braccianti agricoli o spinti ad emigrare verso le aree urbane o altri Paesi.

Il governo ugandese, ad esempio, per incoraggiare lo sviluppo e l’uso delle sue foreste, ha dato in locazione ottomila ettari di terreno all’azienda norvegese Green Resources, che sta riforestando l’area per produrre legna da esportare, mentre molti residenti della zona sono stati costretti ad abbandonare le loro case e coltivazioni.

Le monarchie del Golfo Persico sono molto impegnate in progetti di land grabbing per assicurarsi la propria sicurezza alimentare in Etiopia e Sudan (gli animali vivi sono una delle esportazioni più importanti del Sudan, per un valore di circa 500 milioni dollari nel 2018 e l’Arabia Saudita acquista dal Sudan più del 70% del bestiame che consuma). In Etiopia, dove è lo Stato che rimane il proprietario di ultima istanza della terra, funzionari pubblici hanno affittato (dato in concessione) a grandi società estere (saudite, emiratine, qatarine, europee, etc.) almeno 4 milioni di ettari (circa la superficie della Svizzera) negli Stati meridionali del Paese. In Sudan, per restare a galla il regime dittatoriale di Al-Bashir ha venduto vaste distese di terreni coltivabili a società saudite e qatariote. Fin dagli anni ’70, Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti hanno considerato il Sudan come una sorta di granaio e di riserva di carne (milioni di pecore, mucche, cammelli e dromedari) dal quale attingere per colmare il proprio fabbisogno alimentare e quindi hanno investito nel settore agricolo sudanese. Nel 2009, un’azienda del Qatar ha comprato per un miliardo di dollari 20 mila ettari di terre coltivabili nel fertile bacino del Nilo, da cui proviene gran parte della produzione agricola del Sudan che però viene destinata all’export. Altri 500 milioni di dollari di investimenti qatarioti nel settore agricolo e alimentare sudanese sono stati fatti nel 2018.

Molti governi africani lasciano i piccoli produttori senza terre e garantiscono concessioni terriere vantaggiose alle grandi fattorie commerciali che producono colture – come la floricoltura industriale (ad alto consumo d’acqua, fertilizzanti, antiparassitari e forza lavoro a basso costo) messa in piedi da grandi imprese olandesi in Kenya ed Etiopia – destinate principalmente all’esportazione nei mercati dei Paesi ricchi. Intorno al lago keniota Naivasha le coltivazioni di fiori in serra – quasi esclusivamente di rose – si estendono su 2.100 ettari e producono 6,4 miliardi di pezzi all’anno. Per il Kenya Flower Council oggi l’industria vale 823 milioni di dollari, ossia l’1% del PIL del Kenya, un dato che indica nei fiori il secondo prodotto di esportazione dopo il tè. L’87% della produzione finisce in Europa (la metà in Olanda) dove arriva per via aerea. Le piantagioni di rose danno lavoro a 150 mila africani pagati mediamente 89 dollari al mese.

Un processo di progressiva espropriazione delle popolazioni locali che spesso si combina con la realizzazione di grandi opere infrastrutturali ad alto impatto ambientale negativo, se non addirittura catastrofico. Nella Great Rift Valley del Kenya, una diga costruita illegalmente in una fattoria di fiori di 3.500 acri è collassata dopo settimane di piogge torrenziali il 9 maggio 2018, scatenando un “mare di acqua” e fango che ha scalato una collina e distrutto due villaggi, uccidendo almeno 47 persone e provocando migliaia di sfollati. Per produrre una rosa occorrono, oltre a pesticidi e fertilizzanti, circa 9 litri di acqua e il livello del lago Naivasha si è abbassato di 3,5 metri negli ultimi due decenni. Più della metà del lago etiope di Abijatta è scomparso negli ultimi 30 anni, lasciando una vasta distesa di saline. Tra il 1973 e il 2006 la sua superficie si è ridotta da 197 a 88 kmq e la sua profondità è scesa da 13 a 7 metri tra il 1970 e il 1989. Il pesce è scomparso a causa della maggiore salinità dell’acqua residua. Vicino al lago Abijatta, la città di Ziway è fiorente grazie alle attività agricole. Il gruppo francese Castel, il secondo produttore di birra e bevande analcoliche in Africa, ha impiantato degli estesi vigneti, mentre la multinazionale olandese Afriflora Sher ha creato la più grande fattoria di rose al mondo, impiegando 1.500 lavoratori che guadagnano 83 dollari al mese. Queste aziende non pagano nulla per l’acqua del fiume Bulbula, che sfocia nel lago Abijatta. Inoltre, i floricoltori hanno installato circa 5-6 mila pompe illegali. Una simile sorte vivono gli altri laghi nella parte centrale della Great Rift Valley (Ziway, Shalla e Langano).

Inoltre, negli ultimi due decenni, si è aggiunta la penetrazione del capitalismo cinese che in Africa sta esportando un modello di sviluppo – infrastrutture (ad esempio, la realizzazione della ferrovia tra Nairobi e il porto di Mombasa in Kenya di 470 km costata 3,2 miliardi di dollari o della ferrovia elettrificata Addis Abeba-Gibuti di 760 km costata 4,2 miliardi di dollari e l’espansione del porto di Gibuti alle porte del Canale di Suez, dove sono state create una zona di libero scambio commerciale (con una superficie pari ad un decimo del Paese) e anche la prima base militare cinese fuori della Cina, ma dove dal 2002 ci sono anche basi militari di Francia, Italia, Giappone, Arabia Saudita e la più grande base militare americana in Africa, utilizzata come piattaforma di lancio di droni ed operazioni di controterrorismo nell’Africa orientale e nella penisola arabica meridionale), assistenza tecnica e una generosa sponda diplomatica (copertura sulla questione dei diritti umani), in cambio di materie prime e derrate alimentari –, ma anche oltre 10 mila aziende agricole, industriali e dei servizi (al 90% gestite da privati) decine di migliaia di piccoli imprenditori, attivi soprattutto nel commercio, e manodopera. Sono decine di migliaia di contadini che le autorità di Pechino hanno inviato nei Paesi africani.

Il primo flusso di immigrazione cinese in Africa sudorientale (Madagascar, Mauritius e Sud Africa) risale al 1890-inizio del XX secolo. I primi cinesi arrivarono a lavorare nelle miniere d’oro del Transvaal del Sud Africa e sulla ferrovia Tananrive-Tamatave del Madagascar. Oggi, il Sud Africa rimane la principale destinazione africana per gli immigrati di lingua cinese di prima generazione (almeno 350 mila). Espatriati cinesi si trovano anche in Kenya, Sudan, Uganda, Algeria (dove i cinesi erano già 19 mila nel 2007 e ora sono 42 mila), Senegal, Ghana, Costa d’Avorio, Guinea Equatoriale, Cameroun, Zambia, Mozambico, Uganda, Angola e Tanzania. Si calcola che circa un milione di lavoratori cinesi (molti gestiscono piccole attività commerciali) risiedono o abbiano risieduto in Africa. Il principale effetto di questo interventismo cinese nell’Africa sub-sahariana è quello di rendere possibile uno sfruttamento molto più intenso delle materie prime, risorse che prima erano difficilmente accessibili e sfruttabili a causa delle carenze organizzative ed infrastrutturali.

Accanto alla Cina, in Africa ci sono poi gli interessi delle monarchie del Golfo, dell’India e di altri Paesi del Sud Est asiatico che si sono sviluppati negli anni ‘80 e ‘90, nonché una forte presenza di investimenti brasiliani, soprattutto nelle ex colonie portoghesi, Angola e Mozambico. Il progetto ProSavana – una cooperazione tripartita tra il governo mozambicano, l’agenzia di cooperazione giapponese e quella brasiliana – è stato lanciato con l’obiettivo dichiarato di replicare l’esperienza della monocoltura di soia del Mato Grosso nel corridoio di Nacala, un’area di 14 milioni di ettari nel nord del Paese. Scontratosi con l’opposizione dei piccoli contadini locali, il progetto è oggi in stallo, ma non è escluso che venga rilanciato nel prossimo futuro.

Da anni, la FAO mette in guardia contro il rischio di un neo-colonialismo agricolo. La Banca Mondiale ricorda che, pur in condizioni di arretratezza, i piccoli appezzamenti gestiti da famiglie di contadini producono più dei latifondi monocolturali (plantations) e danno più lavoro. Inoltre, a parità di risorse la piccola scala agroecologica diversificata produce 2-4 volte meno sprechi dell’agrindustria; il consumo totale di risorse è molto inferiore; è oltremodo più durevole e fornisce più fitonutrienti. Nel mondo la piccola agricoltura produce il 70% del totale di cibo con il 25% delle terre e senza l’utilizzo di sostanza chimiche di sintesi. Le filiere corte locali riducono gli sprechi pre-consumo al 5% contro il 30-50% dei sistemi industriali.

Il peso negativo degli imperi del cibo e degli accordi di libero scambio con l’Unione Europea e fra i Paesi africani

In Africa, come in altre aree del mondo a forte vocazione agricola, il peso degli imperi del cibo e dell’agrindustria è aumentato dopo la crisi del 2008, perché molti gestori di fondi d’investimento e banche d’affari, scottati dal crollo del settore azionario classico e dallo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti, hanno cominciato a puntare sulla produzione e sulla commercializzazione di beni alimentari.

Il ragionamento è stato semplice: la popolazione mondiale è in crescita; in alcuni Paesi sviluppati e molto popolati come la Cina stanno cambiando le diete, con un aumento esponenziale nel consumo di carne; le terre su cui produrre gli alimenti destinati all’alimentazione umana e ai mangimi per animali non sono infinite. L’insieme di questi fattori rende l’investimento nel settore particolarmente allettante.

L’alleanza tra grandi gruppi alimentari e fondi finanziari ha portato allo sviluppo di quelle che Stefano Liberti definisce “aziende-locusta”: gruppi finanziari interessati a produrre su larga scala al minor costo possibile, che stabiliscono con l’ambiente e con i mezzi di produzione – la terra, l’acqua, gli animali d’allevamento, i lavoratori – un rapporto puramente estrattivo.[2] Tali imprese hanno come unico orizzonte il profitto, nel più breve tempo possibile, e sfruttano le risorse in modo intensivo, fino al loro totale dissipamento; esaurite le capacità di un luogo, passano oltre, proprio come uno sciame di locuste.

Oltre che per le fluttuazioni dei prezzi e della domanda di mercato dei prodotti, il land grabbing, gli impatti distruttivi dei cambiamenti climatici in atto e l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro e delle risorse naturali (si pensi, ad esempio, che il 10% delle foreste tropicali del Ghana è stato sostituito nel corso degli anni dalla monocoltura di cacao), i Paesi africani, ed in particolare quelli sub-sahariani, dove i contadini coltivatori ed allevatori rappresentano circa il 60% della popolazione attiva totale, sono sotto pressione per la richiesta da parte dell’Unione Europea di arrivare in tempi brevi alla firma di Accordi di Partenariato Economico (APE) e di abolire le preferenze commerciali non reciproche.

Per mantenere l’esenzione dei diritti doganali sulle loro esportazioni verso l’Europa, gli africani dovrebbero eliminare entro 5 anni l’80% di quelli che applicano alle importazioni provenienti dall’Unione Europea, comprendendo anche quelli applicati sui prodotti alimentari di base come i cereali (riso escluso) e latte in polvere. Questo potrebbe non solo fare aumentare fortemente il già esistente deficit e la dipendenza alimentare, ma anche rovinare milioni di piccoli allevatori da latte e di piccoli produttori di cereali locali (miglio, sorgo, mais) e di altri amidacei (manioca, igname, platano), oltre che di zucchero, caffé, cacao, olio di palma e altre derrate alimentari, favorendo l’importazione di prodotti alimentari la cui produzione ed esportazione sono fortemente sovvenzionate dall’Unione Europea nel quadro della politica agricola comune europea.

La minaccia per la sopravvivenza dei milioni di piccoli contadini ed allevatori africani – i quali produrrebbero molto di più se fossero loro assicurati prezzi remunerativi garantiti da un’efficace protezione rispetto alle importazioni e alle drammatiche oscillazioni dei prezzi sui mercati internazionali – viene anche dalla decisione dell’Unione Africana di perseguire l’obiettivo della creazione di una zona di libero scambio continentale (ZLSC). Con la speranza di entrare a far parte delle catene globali del valore e sotto l’impulso di alcune decine di multinazionali presenti in Africa e di poche grandi imprese africane, a Niamey (16 giugno 2017) e a Kigali (21 marzo 2018), i ministri del commercio di 44 (dei 55) Paesi africani hanno deciso di sopprimere via via fino al 90% dei diritti doganali fra i Paesi del continente (Africa Continental Free Trade Area – AfCFTA), dotando questi ultimi di una tariffa estera comune verso il resto del mondo (27 Paesi hanno firmato anche un protocollo per consentire la libera circolazione delle persone). L’AfCFTA mira a creare un mercato unico di 1,3 miliardi di persone, impegnando i membri ad eliminare le tariffe sul 90% delle importazioni di merci in 5-10 anni, aprendo gli scambi di servizi e affrontando una vasta gamma di barriere non-tariffarie al commercio.

La Commissione Economica per l’Africa delle Nazioni Unite stima che, se pienamente attuata, aumenterà il commercio regionale di oltre il 50% e consentirà di dare vita a catene del valore e di approvvigionamento interne al continente, ma occorreranno nuovi imponenti investimenti per realizzare nuove infrastrutture stradali, ferroviarie e logistiche. Ulteriori vantaggi potrebbero essere ottenuti da piani separati per liberare la circolazione delle persone, i diritti di residenza e la concorrenza nel trasporto aereo. Un percorso dal quale per ora è rimasta fuori solo l’Eritrea e che richiederà decenni (per ora solo 34 Paesi hanno ratificato l’accordo), ma che, tra l’altro, l’Unione Africana vuole intraprendere senza prevedere (come avvenuto nell’Unione Europea dai tempi della Commissione presieduta da Jacques Delors) dei fondi strutturali e di coesione, ossia dei trasferimenti di risorse (almeno all’interno delle sub-regioni del continente) che possano facilitare l’adattamento degli Stati membri meno sviluppati.

L’apertura al libero scambio senza adeguate contropartite non potrà che marginalizzare le famiglie contadine e dei piccoli allevatori, le imprese e le regioni più povere, provocando conflitti sociali e politici strutturali difficili da superare, acuendo il sottosviluppo di molti Paesi e territori dell’Africa.

Il latte in polvere e di bassa qualità (mischiato all’olio di palma e ad altri grassi vegetali) europeo sovraprodotto da allevatori fortemente sussidiati oggi viene commercializzato a basso prezzo da global corporations come Danone, Lactalis, Nestlé, Arla Foods, Friesland Campina, Glanbia, Lakeland e Ornua e sta già provocando effetti disastrosi soprattutto nell’Africa occidentale, dove i dazi sono mediamente solo del 5%.

Secondo il rapporto “Feeding the problem” (2019) di Greenpeace circa 3,5 milioni di aziende agricole hanno cessato l’attività tra il 2005 e il 2013 in Unione Europea, con un calo del 26% (da 14,2 a 10,7 milioni). Questo calo è stato più accentuato nel settore zootecnico (-32%, quasi 3 milioni in numeri assoluti). La riduzione ha interessato soprattutto le piccole e medie aziende, mentre le grandi, che intercettano il grosso dei contributi della Politica Agricola Comune (PAC), sembrano prosperare e hanno aumentato di 10 milioni le proprie “unità di bestiame”, arrivando a 94 milioni (nelle più piccole la quota si è dimezzata e ora supera di poco il milione). Considerando solo i bovini, la UE alleva 23 milioni di mucche e il latte è il singolo prodotto agricolo più importante prodotto nel continente, rappresentando circa il 15% di tutta la produzione agricola. La UE nuota nel latte e i produttori sono bloccati in un circolo vizioso di sovrapproduzione che ha spinto i prezzi molto al di sotto del costo di produzione del latte e ha messo migliaia di piccoli allevatori fuori dal mercato. Questa crisi è stata innescata da tre fattori – la fine delle quote latte nel 2015 (in vigore dal 1984), il divieto russo sulle importazioni alimentari dell’UE come risposta alle sanzioni europee per la guerra contro l’Ucraina e l’annessione della Crimea (la Russia importava dai Paesi UE il 13% del latte esportato, il 32% dei formaggi e il 24% del burro prodotti) e il crollo dei prezzi del petrolio (che ha fatto contrarre la domanda di latte, formaggio e burro nei Paesi petroliferi) – e la Commissione Europea ha continuato a sostenere il settore con infusioni di miliardi di euro per coprire le perdite degli allevatori. L’abbandono delle quote nazionali di produzione del latte, un sistema che bene o male aveva stabilizzato il mercato europeo per decenni, avrebbe dovuto consentire agli agricoltori di rivolgersi gradualmente al mercato aperto e di far crescere le loro attività. Invece, i grandi allevatori hanno iniziato a produrre oceani di latte, abbattendo prezzi e margini di profitto.

Date le condizioni produttive, organizzative ed infrastrutturali del continente africano, una ZLSC potrà avere l’effetto di creare un gigantesco mercato africano con pochi prodotti africani scambiati, mentre favorirà soprattutto la libera circolazione dei prodotti industriali importati dall’Europa, dalla Cina o da altre aree mondiali di produzione. Attualmente, il commercio intra-africano rappresenta all’incirca il 15-18% del commercio totale del continente, mentre questo dato è intorno al 48% in Nord America, al 58% in Asia e al 70% in Europa. La metà del commercio a sud del Sahara si svolge tra soli cinque Paesi – Sud Africa, Botswana, Lesotho, Namibia e Swaziland -, tutti membri della Customs Union of Southern Africa. Le merci che un grande e popoloso Paese come l’Etiopia importa dai Paesi africani rappresentano solo il 4% del totale delle importazioni, mentre le sue esportazioni verso i Paesi africani sono del 20%.

Questo modello commerciale riflette le dinamiche e i rapporti di forza esistenti nel capitalismo globale e l’eredità di secoli di colonialismo violento. La maggior parte dei Paesi africani continua a commerciare principalmente con i Paesi del Nord del mondo e, sempre più, con la Cina e altri Paesi BRICS. Questo tipo di commercio globale asimmetrico assume solitamente la forma di Paesi africani che esportano materie prime minerali ed agricole e importano prodotti a più alto valore aggiunto, con il valore aggiunto che rimane nelle economie più avanzate, perpetuando così la disuguaglianza tra economie povere e in via di sviluppo e quelle avanzate.

D’altra parte, le poche grandi infrastrutture – strade, ferrovie e porti – costruite dagli europei durante il periodo coloniale sono state pensate soprattutto per l’estrazione di risorse naturali e minerali dal continente e non certo per promuovere lo sviluppo economico locale. Pertanto, l’Africa ha un grande bisogno di nuove infrastrutture se vuole creare un vero mercato interno continentale. È proprio questo tipo di crescita economica indotta dalle infrastrutture che l’Africa sta cercando in questo momento, e molti leader africani stanno guardando alla Cina, all’esperienza delle sue grandi imprese statali che sono in grado di gestire grandi progetti su cui far convogliare enormi flussi di capitali.

Il cacao, una merce globale africana

Per quanto riguarda le produzioni di materie prime agricole, se prendiamo un prodotto come il cacao, abbiamo che il primo produttore mondiale è la Costa d’Avorio con il 37% del mercato, davanti a Ghana con il 24%, Indonesia (14%), Nigeria (6,6%), Ecuador (6,4%), Cameroun (6,3%), Brasile (4%) e Togo.

Pochi Paesi dell’Africa Occidentale e dell’America Latina forniscono l’85% della produzione mondiale, coinvolgendo 5-6 milioni di piccoli coltivatori (con aziende mediamente tra 1 e 4 ettari), per cui in totale, 40-50 milioni di persone in questi Paesi si affidano alla coltivazione del cacao come principale prodotto agricolo per il mercato e fonte di sostentamento familiare. Più della metà dei coltivatori della Costa d’Avorio vive al di sotto della soglia di povertà e, non avendo accesso all’irrigazione o alle moderne tecniche agricole, fanno affidamento unicamente sulle condizioni metereologiche.

Storicamente, la trasformazione del cacao in una commodity globale risale alla Grande Depressione del 1873-1895, caratterizzata dalla crescente esportazione di capitale dai Paesi europei (Regno Unito, Francia, Olanda e Belgio, soprattutto) e dagli sforzi per ridurre i costi delle materie prime e delle derrate alimentari, quando le importazioni a basso costo dei cereali americani e russi hanno causato il tracrollo dell’agricoltura latifondistica e contadina europea. La manifestazione politica di quella Grande Depressione è stata, da una lato, l’introduzione in tutti i Paesi europei (con la sola eccezione del Regno Unito) di tariffe protezionistiche sui prodotti agricoli come sui beni manifatturieri (adottando le teorie di Alexander Hamilton, il più centralista, protezionista e militarista dei padri fondatori degli Stati Uniti, e del suo allievo, il tedesco Friedrich List, il grande sostenitore della zollverein, dell’unione doganale, come driver dell’unità nazionale tedesca), dall’altro lato, l’imperialismo, l’accresciuta competizione tra potenze europee rivali per conquistare colonie o sfere di influenza e per l’accesso a materie prime a basso costo all’estero. Intere regioni di Europa orientale, Africa, Asia, America Latina e del Pacifico sono state trasformate in aree specializzate nella produzione di alcune materie prime (oro, diamanti, cotone, lana, gomma, legname, guano, nitrati, etc.), derrate alimentari (grano, riso, carne, prodotti “tropicali” come banane, olio di palma, ananas, vaniglia, etc.) o stimolanti (caffé, tè, zucchero di canna, cacao, tabacco, oppio, etc.). Merci necessarie sia per alimentare i processi di produzione industriali sia per ridefinire gli stili di vita brillanti della nuova borghesia sia per dare modo al proletariato in formazione di“tenere il ritmo” sempre più frenetico del lavoro imposto dalle macchine industriali.

Così, è stato a partire dalla seconda metà del XIX secolo che il theobroma cacao, un albero amante dell’ombra originario del sottobosco delle foreste pluviali e che cresce a bassa quota ai piedi delle Ande e dei grandi bacini fluviali equatoriali sudamericani, il bacino del fiume Amazzonia e il bacino del fiume Orinoco, è arrivato nell’Africa occidentale dopo essere passato per le Indie Occidentali. I fagioli di cacao venivano trattati e consumati come bevanda dai Maya e dagli Aztechi e questa bevanda venne portata in Spagna da Hernan Cortés nel 1528. Con l’aggiunta dello zucchero, la bevanda divenne popolare e la Spagna creò piantagioni di cacao nelle sue colonie delle Indie occidentali per soddisfare la domanda. Alla fine del XVII secolo, quando il consumo di cacao si diffuse in tutta Europa, furono stabilite le prime piantagioni francesi, inglesi e olandesi nelle Indie occidentali e in Sud America. Come per altre piantagioni coloniali nel “Nuovo Mondo“, la produzione in queste piantagioni utilizzava schiavi dell’Africa occidentale. Nel 1828, Conrad J. van Houten inventò la pressa per cacao per estrarre il cacao in polvere dal burro di cacao e la prima tavoletta di cioccolato fu creata a metà del XIX secolo. Questi sviluppi hanno reso il cioccolato accessibile al mercato di massa e la domanda di cacao è aumentata.

Il merito di aver portato per primi l’albero di cacao dal Brasile ai tropici africani va senza dubbio ai portoghesi. Si ritiene che abbiano piantato cacao sull’isola di São Tome (al largo del Gabon francese) già nel 1822, ma fu solo intorno al 1870 che la coltivazione venne intrapresa seriamente. I portoghesi trasportarono schiavi dall’Angola alle isole di São Tome e Principe per lavorare nelle nuove piantagioni di cacao. Ma, sono stati soprattutto inglesi e francesi che, a partire dal 1880, hanno creato dal nulla grandi piantagioni nelle aree a basse e leggere elevazioni, sfruttando buoni terreni e l’umidità costante dei tropici. Schiavitù e lavoro forzato sono stati utilizzati da parte sia dei capi locali sia delle potenze coloniali in Costa d’Avorio, Liberia e Cameroun. In Ghana l’industria del cacao si è sviluppata su piccola scala e così sono stati evitati i problemi di utilizzo del lavoro forzato dei migranti. Presto divenne chiaro che il cacao si adattava bene ai tradizionali metodi di agricoltura dei piccoli coltivatori africani (per i quali rappresentava anche un cash crop alternativo all’olio di palma, i cui prezzi erano divenuti calanti a causa dell’entrata in produzione delle piantagioni in Malaysia e Indonesia). Quindi, il rapido sviluppo dell’industria, sopratutto dopo la Seconda Guerra Mondiale, non è stato legato allo sviluppo di grandi piantagioni, soprattutto in Costa d’Avorio, che è diventato il più grande produttore mondiale.

Al tempo stesso, il cacao è stato il principale fattore di deforestazione in Costa d’Avorio e oggi gran parte del cacao esportato viene coltivato illegalmente in riserve forestali protette e parchi nazionali che hanno visto i loro habitat forestali originari ridotti notevolmente. I coltivatori ripuliscono il sottobosco, piantano cacao e poi danno fuoco alle radici degli alberi più alti in modo che possano essere distrutti e più luce solare possa essere concessa alle piante di cacao. Secondo l’Unione Europea e il ministero delle foreste ivoriano, oltre l’80% delle foreste della Costa d’Avorio è scomparso tra il 1960 e il 2010.

Oggi, l’Europa importa cacao soprattutto dai Paesi africani, mentre l’Asia fa riferimento a Indonesia, Malaysia e Vietnam dove, come in Costa d’Avorio e Ghana, gli investimenti in nuove piantagioni estensive, a forte impatto in termini di deforestazione, sono molto cresciuti tra il 2002 e il 2011, allorquando la Costa d’Avorio è stata scossa da una lunga guerra civile. L’Indonesia è passata dall’avere un’industria nazionale del cacao quasi inesistente negli anni ’70 ad essere uno dei maggiori produttori sul mercato mondiale all’inizio degli anni 2000. Il Nord America importa cacao soprattutto da Ecuador e Brasile.

Si tratta di una filiera produttiva che complessivamente vale almeno oltre 120 miliardi di euro per giro d’affari e alla quale l’Africa contribuisce con circa il 75% della materia prima, ma incassa appena il 2-3% del totale del giro d’affari e solo il 4% del cioccolato consumato nel mondo viene consumato in Africa. Comunque, il cacao è il terzo principale prodotto per l’esportazione del Ghana e rappresenta l’8% dell’economia della Costa d’Avorio e circa il 40% del valore totale delle sue esportazioni (per oltre il 65% assorbite dall’Unione Europea).

Secondo l’organizzazione Fairtrade, i coltivatori di cacao del Ghana guadagnano in media 1 dollaro e 50 centesimi al giorno. Fairtrade stima che per migliorare la vita dei coltivatori e grantire standard dignitosi bisognerebbe portare i prezzi a 3,1-3,6 dollari al chilo, rispetto ai 1,8 attuali.

Circa 2,2 milioni di bambini sono coinvolti nella raccolta dei fagiorli di cacao in Africa occidentale. Per produrre del “cioccolato etico”, eliminando il lavoro infantile (spesso schiavistico o para-schiavistico), sarebbe necessario aumentare i salari del 50%.

La prima azienda per fatturato del settore, l’americana Mars, aveva annunciato che dal 2020 avrebbe utilizzato solo “cioccolato etico” tracciato. Ma, già nel 2001, grandi marchi come Nestlé, Mars e Hershey hanno firmato un accordo intersettoriale volto a eliminare il lavoro minorile. Un impegno mai mantenuto nonostante continuino a insistere sul fatto che porre fine a questa pratica illegale rimanga la loro principale preoccupazione.

Negli ultimi anni, all’ascesa dei mercati asiatici – India e Cina, soprattutto – si sono contrapposti consumi calanti in Europa e USA. Dagli anni ’60 ai primi anni 2000, il mercato mondiale del cacao è comunque quadruplicato con ampi tassi di crescita, ma le oscillazioni dei prezzi, anche molto rilevanti, sono state e sono continue e a poco valgono i tentativi dei grandi esportatori di cacao di stabilizzare le quotazioni ed evitare gli sbalzi che incidono pesantemente sulle loro economie e società nazionali.

Le oscillazioni di prezzo della merce cacao e gli impatti sociali e politici

Dal 1973 esiste l’ICCO (International Cocoa Organization) che ha sede nella capitale della Costa d’Avorio Abidjan e che tra i suoi obiettivi ha quelli di mantenere buoni margini di guadagno per i coltivatori e garantire la trasparenza nel mercato, oltre che consultare periodicamente tutti i membri per evitare fluttuazioni eccessive dei prezzi.

Alla prova dei fatti, tuttavia, questo organismo – così come altri organismi analoghi per altre materie prime, a parte l’OPEC per il petrolio in alcuni momenti storici specifici, come tra il 1973 e il 1986 – non ha funzionato, tanto che oscillazioni profonde delle quotazioni sono state la regola negli ultimi anni. Dal 2015, i prezzi del cacao si sono messi a scendere del 30%, toccando nei primi mesi del 2017 i minimi da tre anni a Londra (1.524 sterline per una tonnellata) e i minimi da quasi nove anni a New York (1.881 dollari a tonnellata) e da allora sono risaliti fino alla primavera del 2018, per poi tornare a scendere.

Due i fattori che hanno determinato la discesa delle quotazioni tra il 2016 e il 2017: l’abbondanza dei raccolti rispetto alle stagioni precedenti, 4.552 milioni di tonnellate nella stagione 2016/17 rispetto a 3.965 milioni della stagione 2015/16 (quando i forti venti di Harmattan e il tempo secco causato da El Niño avevano causato una forte diminuzione della produzione e dei livelli di qualità), e il calo della domanda, che ha portato ad un aumento delle scorte.

Le eccedenze sono state stimate in 264 mila tonnellate, mentre nel 2016 c’era stato un deficit di 196 mila tonnellate. La Costa d’Avorio (con una raccolta aumentata del 27% nel 2016) è stata costretta a ridurre del 36% il prezzo pagato ai coltivatori, mentre il Ghana ha accusato perdite di guadagni derivanti dalle esportazioni per quasi un miliardo di dollari. In Costa d’Avorio, montagne di cacao sono rimaste per mesi ferme nei porti o addirittura nei campi e si calcola che circa 400 mila tonnellate siano rimaste invendute. Una parte degli 800 mila coltivatori (che corrispondono a circa 6 milioni di persone, circa il 25% della popolazione) sono entrati in agitazione e gli esportatori sono rimasti per mesi in attesa di un risarcimento da parte del governo.

Per cercare di risolvere il problema, i regolatori preposti al monitoraggio del cacao in Costa d’Avorio e in Ghana – rispettivamente il Conseil du Cafe Cacao e il Ghana Cocoa Board – sono entrati in trattativa con la African Development Bank per ottenere un prestito da 1,2 miliardi di dollari da utilizzare per la costruzione di magazzini e impianti atti a favorire almeno una prima elaborazione locale del prodotto e la gestione di scorte da rilasciare a seconda della richiesta in arrivo dal mercato.

Il prestito doveva rivelarsi fondamentale anche per il rapporto diretto con gli agricoltori, che così hanno potuto ottenere nuovi sussidi per la sostituzione delle piante ormai datate – quando non malate (circa 300 mila ettari di alberi infetti sono stati sradicati in tutta la Costa d’Avorio) – con altre nuove. L’iniziativa ha fatto parte di un accordo di collaborazione stipulato tra le due nazioni volto a combattere la crisi.

La caduta dei prezzi aveva innescato una crisi sociale e politica nei Paesi produttori, perché il prezzo di vendita era inferiore ai costi di produzione e nelle piantagioni di cacao del Ghana e della Costa d’Avorio lavorano milioni di contadini, minori (stimati in 2,2 milioni nel 2018) e migranti africani provenienti da altri Paesi dell’Africa Occidentale (come Mali e Burkina Faso).

Sebbene la maggior parte della produzione di cacao sia effettuata da contadini su terreni di meno di tre ettari, un piccolo numero di grandi agricoltori domina il settore. In effetti, si stima che circa un quarto di tutti gli agricoltori di cacao ricevano poco più della metà del reddito totale. In Costa d’Avorio ci sono stati ammutinamenti di gruppi di militari (ex-ribelli poi integrati nell’esercito ivoriano, con i quali il presidente Alassane Outtara si era alleato per prendere il potere nel 2011, quando la sua elezione era sta contestata dal rivale Laurent Gbagbo) in diverse città del Paese per reclamare il pagamento di premi in denaro promessi dal governo, ma che a causa del crollo del prezzo del cacao, e quindi delle entrate dello Stato, il governo non era più in grado di saldare. Anche per la stagione 2017/2018, il Conseil du Cafe Cacao ha dovuto abbassare il prezzo minimo garantito del 36% all’equivalente di 1.247 dollari a tonnellata.

In Ghana, il New Patriotic Party (NPP) aveva vinto le elezioni nel dicembre 2016 dopo essersi impegnato a investire sulle coltivazioni di cacao e ad aumentare o quantomeno sostenere i prezzi che erano crollati di un terzo dalla metà del 2016. La campagna ha dato i suoi frutti e il partito ha vinto nelle quattro maggiori regioni produttrici di cacao (rispetto a una sola delle elezioni di quattro anni prima).

Il governo del presidente Nana Akufo-Addo, sostenuto dal NPP, però, si è trovato nelle condizioni di dover tagliare del 30% il prezzo alla tonnellata pagato agli 800 mila coltivatori, rispetto a quello andante nel mercato internazionale, pur garantendo un prezzo di 1.700 dollari a tonnellata per la stagione 2017/2018.

Il governo ghanese aveva e ha poco spazio per poter sostenere i prezzi anche se l’aumento della produzione dei nuovi giacimenti petroliferi ha alimentato una certa ripresa economica, almeno fino all’inizio del 2020, quando il prezzo del petrolio è crollato sui mercati mondiali. La Banca Mondiale aveva previsto un’espansione economia dell’8,3% nel 2018, il tasso più rapido in Africa, ma il Paese ha dovuto sottostare alle condizioni di contenimento della spesa previste dall’accordo siglato con il FMI in cambio di un prestito di quasi 1 miliardo di dollari ottenuto nell’aprile 2015.

Il Ghana Cocoa Board ha perso l’equivalente di circa 600 dollari per ogni tonnellata delle 850 mila tonnellate che aveva previsto di acquistare nella stagione 2018. Il Board ha finito i soldi ed è avuto poche opzioni per il finanziamento, se non vendere 559 milioni di dollari di debito a breve termine agli investitori locali a tassi superiori al 22%.

Inoltre, il passaggio da una situazione di carenza ad una situazione di eccedenza ha portato al crollo dei futures, scesi del 35% a New York nel corso del 2016, portandoli ai livelli del 2008. La discesa del prezzo è, quindi, proseguita fino ad inizio 2018, per poi salire del 27%.

L’ennesimo tentativo di stabilizzare il mercato da parte di Ghana e Costa d’Avorio

Ghana e Costa d’Avorio hanno annunciato nel luglio 2019 che, dal raccolto dell’ottobre 2020, avrebbero sospeso le vendite se il prezzo minimo del cacao non fosse stato fissato a 2.600 dollari la tonnellata. Una minaccia che ha riportato alla memoria quanto avvenuto nel 1987, quando il presidente ivoriano Felix Houphouet-Boigny, di fronte a un raccolto eccezionale, impose un embargo sulle vendite e strinse accordi con i commercianti per immagazzinare almeno un quarto della produzione del Paese con l’unico obiettivo di far salire i prezzi mondiali. La strategia, raccontata da Jean-Louis Gombeaud nel libro “La Guerre du Cacao” (“La guerra del cacao”) del 1989, fallì clamorosamente e i prezzi si più che dimezzarono durante i 18 mesi di embargo.

Nelle intenzioni dei due governi c’era l’ennesimo tentativo di creare un cartello – l’Organization of Cocoa Exporting Countries – che avrebbe dovuto funzionare in modo più stringente dell’ICCO e che avrebbe voluto imporre una nuova tassa – una addizionale da 400 dollari per tonnellata – alle aziende che avrebbero comprato il raccolto 2020-2021 (venduto in anticipo con i contratti futures), con l’obiettivo di creare un fondo di stabilizzazione per mitigare gli effetti delle fluttuazioni del prezzo internazionale del cacao, assicurando maggiori guadagni ai piccoli produttori, riducendo l’impiego di lavoro minorile e il mercato nero.

La nuova tassa è stata denominata LID – Living Income Differential, cioè “differenziale per il minimo di sussistenza” – e dovrebbe servire ad assicurare che gli agricoltori guadagnino 1.820 dollari a tonnellata, cioè almeno il 70% di un prezzo “tutto compreso” di 2.600 dollari a tonnellata. Contestualmente, i due Paesi subsahariani hanno imposto un tetto massimo alla produzione (2 milioni di tonnellate) per scongiurare il rischio di un surplus di offerta e deforestazione.

Un tentativo che finora non ha avuto successo: i due Stati africani non hanno il potere di ridurre la produzione (che anzi la promessa di prezzi maggiori ha fatto aumentare di quasi un terzo in Costa d’Avorio, a 2,1 milioni di tonnellate) e non possiedono grandi magazzini di stoccaggio per un surplus di fagioli di cacao. Inoltre, senza un accordo con Nigeria, Cameroun, Togo e gli altri produttori africani rimane difficile controllare i prezzi. La reazione immediata degli investitori non è stata positiva e, subito dopo l’annuncio del piano, i prezzi sono scesi a 2.300 dollari alla tonnellata per la consegna a dicembre 2019 e da allora sono continuati a calare.

Soprattutto, a far saltare il piano di Ghana e Costa d’Avorio è stata la pandemia CoVid-19 che ha indotto la più ripida caduta della domanda di cacao in un decennio. Il cioccolato è un prodotto di lusso che rientra tra i prodotti da regalo e da acquisto d’impulso. Con la pandemia e i lockdowns, un parte rilevante degli acquisti dei consumatori dei Paesi ricchi sono diventati online, per cui non c’è più modo di prendere la barretta o il cioccolatino dell’ultimo minuto prima di arrivare alla cassa del bar o del supermercato. Né i consumatori hanno acquistato le scatole assortite di cioccolatini normalmente regalate e consumate a Natale e a San Valentino.

Il piano di Costa d’Avorio e Ghana si basava sull’aspettativa che i prezzi (e i consumi) internazionali del cacao sarebbero rimasti entro le gamme medie. Invece, l’impatto negativo della pandemia sulla domanda li ha portati al minimo da quasi quattro anni (sotto i 2 mila dollari la tonnellata) e si prevede che rimarranno deboli per almeno un altro anno.

Per cui, ancora una volta, i governi dei due maggiori Paesi produttori al mondo di cacao non sono stati e non saranno in grado di garantire ai coltivatori l’importo inizialmente previsto. Hanno ingaggiato una lotta contro due giganti del cioccolato – Mars e Hershey – accusandoli di aver adottato misure (hanno comprato cacao sul mercato dei futures di New York e da trasformatori in Asia, dove i prezzi erano più bassi, invece che al mercato di Londra, dove i futures costituiscono la base a cui viene aggiunto il premio LID, o direttamente in Africa occidentale) per non rispettare l’accordo del 2019 progettato per aiutare i coltivatori poveri. Gli intermediari locali, itineranti tra un villaggio e l’altro, hanno pagato il 20% in meno del prezzo minimo del governo e alla fine la Costa d’Avorio ha dovuto offrire forti sconti agli  esportatori per liberarsi della produzione di questa stagione.

Meno di due anni dopo che la Costa d’Avorio, il principale produttore mondiale di cacao, ha collaborato con il vicino Ghana per costringere gli imperi del cibo, da Hershey a Nestlé, a pagare di più per i loro fagioli, il tentativo di esercitare il controllo sui prezzi è fallito. Gli acquirenti si rifiutano di pagare i prezzi promessi dai governi ai coltivatori, i fagioli si stanno accumulando nei magazzini dell’entroterra e i coltivatori sono così disperati che alcuni hanno persino dormito per giorni al di fuori degli uffici del regolatore del cacao della Costa d’Avorio chiedendo un intervento di sostegno.

I grandi beneficiari del crollo dei prezzi del cacao: un pugno di global corporations

D’altra parte, se i produttori dei Paesi esportatori hanno sofferto e soffrono, le quotazioni basse della materia prima hanno fatto e fanno guadagnare le imprese globali che comprano, fanno trading e trasformano il cacao. Se Costa d’Avorio e Ghana hanno tentato di mettere in piedi una sorta di OPEC dei produttori della materia prima, dall’altra parte c’è una sorta di ben più potente OPEC dei grandi traders e dei grandi trasformatori, formato da alcuni dei maggiori imperi del cibo globali. Quattro imprese, la svizzera Barry Callebaut, l’americana Cargill, la Olam International di Singapore e la malese Guan Chong, hanno la capacità di processare oltre i due terzi del cacao mondiale e, a seconda degli andamenti di prezzi e consumi finali, sono in grado di modulare i loro acquisti e diversificare le aree geografiche di approvigionamento della materia prima.

Barry Callebaut è il più grande fornitore al mondo di cioccolato processato e rifornisce giganti come Mondelez/Cadbury, Unilever e Hershey. Nel 2019 ha registrato ricavi per 6,4 miliardi di euro, gestendo circa 60 impianti industriali nel mondo, con oltre 12 mila dipendenti diretti. Con sede a Zurigo, in Svizzera, il Gruppo Barry Callebaut ha 175 anni di storia ed è il principale produttore mondiale di cioccolato e prodotti a base di cacao di alta qualità, coprendo ogni fase della catena del valore, dall’approvvigionamento delle materie prime alla produzione dei migliori cioccolatini. E’ il cuore e il motore dell’industria del cioccolato e la sua missione è essere il numero uno in tutti i segmenti di clientela interessanti. E’ un’azienda business-to-business, completamente integrata verticalmente con una forte posizione nei Paesi di produzione di cacao.

Cargill è uno dei quattro grandi commercianti (traders) di cereali al mondo (gli altre tre sono Archer Daniels Midland, Louis Dreyfus e Bunge), ma è anche la più grande azienda familiare del mondo con un fatturato di oltre 120 miliardi di dollari. È al centro delle catene di produzione di tutto l’essenziale per gli alimenti trasformati e impiega oltre 150 mila persone in 70 Paesi, facendo trading di tutto, dal cotone ai mangimi, alla carne, al cacao e al sale. Rifornisce di materie prime e semilavorati alimentari gli altri imperi del cibo che fanno trasformazione e commercializzazione agro-alimentare. Tutte le uova usate nei McDonald’s americani, ad esempio, passano attraverso Cargill – circa 2 miliardi di uova all’anno, il 2% del totale degli Stati Uniti.

L’italiana Ferrero – produttrice di Nutella, barrette Kinder e cioccolatini – è la seconda azienda al mondo del cioccolato confezionato, con un fatturato consolidato di oltre 11,4 miliardi di euro, una distribuzione attiva in 170 Paesi, più di 36 mila dipendenti in 53 Paesi. Nel 2018, questa azienda familiare ha acquisito i marchi americani del cioccolato della Nestlé (che nel 2016 hanno fatturato 830 milioni di euro) per 2,8 miliardi di dollari, mentre nel 2019 ha acquisito anche il business e gli impianti americani di produzione dei biscotti, degli snack alla frutta, dei gelati e delle crostate di Kellogg Company per 1,16 miliardi di euro in contanti, mentre da Campbell Soup Company ha acqusito Kelsen Group per 300 milioni di euro, proprietario dei marchi dei biscotti danesi Royal Dansk e Kjeldsens.

Il cacao dell’Africa occidentale e dell’Ecuador, insieme all’olio di palma di Indonesia e Malaysia, allo zucchero da barbabietola europeo e da canna sudamericano, e alle nocciole turche sono le materie prime cruciali per la produzione della Nutella, il prodotto globale di punta della Ferrero. E’ bene ricordare che una parte dei circa 4,1 milioni profughi siriani (un terzo dei quali minori), iracheni ed afghani bloccati in Turchia grazie alle politiche (e ai miliardi di euro) dell’Unione Europea, trova un lavoro stagionale sottopagato in agricoltura. Decine di migliaia di profughi siriani e di braccianti curdi lavorano duramente per salari minimi in migliaia di piccole fattorie turche che lungo le rive del Mar Nero producono il 70% delle nocciole del mondo per marchi come Ferrero, Nestlé e Godiva. Un’economia ora minacciata dalla diffusione di una cimice, originaria del nord-est asiatico, che ha invaso la Turchia dal 2017 e che si riproduce liberamente grazie alle temperature più calde e alla mancanza di predatori naturali (un suo antagonista è la vespa samurai).

Il peso del debito estero che schiaccia i Paesi africani

Se le global corporations che estraggono risorse dall’Africa fanno profitti, i Paesi africani sono schiacciati da una crescita esponenziale del debito estero. L’Africa sub-sahariana è passata dall’avere un debito estero nell’ordine di 170-210 miliardi di dollari dal 1995 al 2005 (quando la moratoria sul debito decisa al G8 di Gleneagles lo ha ridotto del 10%) a quasi 400 miliardi nel 2015.

La crisi economica e finanziaria legata alla pandemia di CoVid-19 ha fatto ulteriormente aumentare questo fardello. Il crollo di turismo, rimesse degli emigranti e prezzi delle materie prime – a cominciare dal petrolio, sceso sotto i 25 dollari al barile, ma anche rame, cacao, olio di palma e caffé -, ha fatto presagire l’esplodere di possibili gravi crisi finanziarie (ad esempio, in Zambia, Ghana, Gabon, Congo). Per le economie dei Paesi dell’Africa, come degli altri Paesi esportatori del sud del mondo – dove vivono i due terzi degli abitanti del pianeta – è stata ed è una situazione di devastazione. Milioni di persone che negli ultimi decenni erano riuscite a diventare parte di una classe media planetaria in formazione stanno ora ricadendo nella povertà, mentre altri miliardi di persone che erano già in condizioni di povertà ora rischiano di morire di fame, oltre che di CoVid-19.

I debiti pubblici africani sono rapidamente cresciuti dal 2000, in simbiosi con i notevoli tassi di crescita di molte economie africane dovuti alla crescita dei prezzi delle materie prime. Dopo la crisi finanziaria del 2007-2008, il debito dei Paesi africani è diventato particolarmente appetibile, perché nelle economie a basso tasso di interesse, come quelle dei Paesi industrializzati e delle economie asiatiche che stavano rallentando, difficilmente gli investimenti registravano alti rendimenti. Per mantenere margini di profitto, molti investitori sono andati in cerca di alternative, anche perché grazie all’intervento delle banche centrali occidentali c’era in circolazione un mare di denaro liquido.

Quando nel 2014 sono crollati i prezzi delle materie prime come il cacao e i minerali, l’euforia finanziaria si è però interrotta bruscamente e già nel 2016 il debito estero rappresentava una fetta sostanziale dello stock totale del debito pubblico di molti Paesi africani: il 48% in Gabon, il 32% in Namibia, il 26% in Costa d’Avorio, il 16% in Ghana, il 15% in Senegal e il 13% in Rwanda.

Il debito estero dello Zambia – terza economia dell’Africa meridionale e secondo produttore al mondo di rame (70% del valore delle esportazioni del Paese) -, stimato al 40% del suo PIL, è salito a quasi 12 miliardi di dollari nel 2020, rispetto a 1,9 miliardi nel 2011, e il governo non riusciva più a pagare gli interessi nei tempi previsti. A fine ottobre 2020, ha raggiunto un accordo per rinviare i rimborsi del debito che erano dovuti su un prestito della China Development Bank (CDB). Ma, a fine novembre lo Zambia è diventato il primo Paese africano a dichiarare il default tecnico sui propri debiti durante la pandemia da CoVid-19, facendo temere che uno “tsunami del debito” possa travolgere le nazioni più indebitate del continente a causa dell’impatto finanziario del coronavirus. I termini del default dello Zambia sono stati negoziati in dicembre con il FMI che ha concesso al Paese un prestito di 1,3 miliardi di dollari.

Nei primi mesi della pandemia, il FMI prevedeva un incremento del debito del 10% nelle economie emergenti (al 65% del PIL) e di circa il 7% nei Paesi poveri (al 50% del PIL). Aumenti che si sarebbero aggiunti ai livelli di debito che erano già storicamente elevati e che, quindi, avrebbero imposto limiti molto severi alla loro capacità di creare e sostenere debito aggiuntivo. D’altra parte, le banche centrali, soprattutto dei Paesi ricchi, si sono sentite in dovere di adottare misure precedentemente impensabili che hanno distorto il funzionamento dei mercati finanziari, aggravando in tal modo le disparità di ricchezza e incoraggiando un’eccessiva assunzione di rischi da parte sia dei debitori che degli investitori. Invece di essere parte della soluzione, l’iperattivismo finanziario delle banche centrali rischia di creare maggiori problemi – come errori nell’allocazione delle risorse, un’eccessiva dipendenza dal debito e una forte instabilità finanziaria – che potranno pesantemente condizionare la eventuale futura fase di ripresa economica.

L’ex presidente della BCE, Mario Draghi, ha avvertito che c’è debito e debito: bisogna fare debito “buono”, cioè debito che vada non in sussidi ai lavoratori e ai disoccupati, o in pensioni, ma debito che vada a sostegno degli investimenti privati, vale a dire quel debito che i mercati finanziari apprezzano e che sono disponibili a finanziare anche a tassi d’interesse più bassi. Ma, decine di Paesi poveri africani stanno già pagando di più per il servizio del debito che per l’assistenza sanitaria. Circa la metà dei Paesi poveri e diversi di quelli emergenti erano erano a rischio o ad alto rischio di una crisi del debito prima della diffusione della pandemia e l’ulteriore aumento del debito è allarmante perché potrebbe generare una nuova crisi finanziaria, innescata da insolvenze (l’incapacità di rimborsare i debiti), fughe di capitali (lo spostamento di beni e capitali da un Paese ad un altro per eludere le tasse, nascondere i soldi o evitare l’instabilità economica e politica) e politiche di austerità fiscale.

Il FMI ha anche rilevato che per i Paesi più poveri è diventato più difficile prendere in prestito denaro per finanziare investimenti pubblici e avrebbero bisogno di più aiuti, più credito agevolato e più alleggerimento (cancellazione o sospensione del pagamento degli interessi) del debito da parte della comunità internazionale per poter essere in grado di investire in ambito sanitario, ammortizzatori sociali e progetti cruciali per la lotta contro il riscaldamento globale.

Un gruppo di economisti ed esperti sanitari globali (tra cui 4 premi Nobel, come Joseph Stiglitz e Lord Nicholas Stern, e 7 principali economisti della Banca Mondiale e di altre banche internazionali di sviluppo) ha invitato i leader del G20 a fornire trilioni di dollari ai Paesi più poveri per sostenere sistemi economici e sanitari in difficoltà a far fronte a un disastro che può rimbalzare sugli Stati più ricchi attraverso crisi migratorie e sanitarie. Hanno avvertito riguardo a “impensabili impatti sulla salute e sociali“, mentre il coronavirus ha lacerato lo sviluppo globale, portando i sistemi sanitari sovraccarichi oltre il punto di rottura e causando devastazione economica e sociale.

I Paesi “stavano crollando a causa del crollo dei prezzi delle materie prime, del turismo e delle rimesse” anche prima che le devastazioni del virus stesso prendessero piede in tutto il Sud-Est asiatico, in America Latina e in Africa. E’ probabile che alla fine i Paesi più poveri vengano colpiti più duramente di quelli ricchi, poiché hanno meno capacità di assorbire lo shock e il sovraffollamento. Infrastrutture scarse e la mancanza di risorse ostacolano gli sforzi della sanità pubblica. Oltre 80 Paesi poveri e a reddito medio, molti dei quali oberati da alti livelli di debito estero (complessivamente circa 11 trilioni di dollari, con circa 3,9 trilioni in scadenza nel 2020), hanno cercato aiuto finanziario dal FMI nel giro di poche settimane mentre lottavano per far fronte alle ricadute economiche e sanitarie dell’epidemia di CoVid-19. Il FMI ha creato una Shortterm Liquidity Line, una nuova struttura per l’erogazione di liquidità di assistenza, migliorando al contempo l’accesso alle strutture esistenti, comprese alcune che consentono di concedere finanziamenti d’emergenza, senza condizioni tradizionali, ma con garanzie fiduciarie.

Il G20 e Club di Parigi (l’organizzazione informale che riunisce le istituzioni finanziarie dei Paesi creditori, ma di cui non fa parte la Cina) hanno raccolto l’invito arrivato dal G7 per concordare una moratoria a livello mondiale. I pagamenti per complessivi 20 miliardi di dollari a servizio del debito per i Paesi più poveri (77 Paesi, di cui 40 dell’Africa Sub–Sahariana, classificati come “a basso reddito” dalla Banca Mondiale) sono stati temporaneamente sospesi.

La Cina ha deciso di cancellare parte del debito dei Paesi africani. Altri 12 miliardi di dollari di pagamenti sono stati sospesi dalle istituzioni multilaterali, cioè Banca Mondiale e FMI. Il FMI ha anche approvato il taglio dei debiti per 25 degli Stati più poveri, un’operazione da circa mezzo miliardo di dollari. Ma, il direttore esecutivo del World Food Programme dell’ONU, David Beasley, ha avvertito che più di 30 Paesi poveri potrebbero sperimentare una carestia “di proporzioni bibliche” a causa della pandemia di coronavirus e che in 10 di questi Paesi (molti dei quali africani ed asiatici colpiti dalle devastazioni delle locuste) c’erano già più di 1 milione di persone sull’orlo della fame. Per fare fronte a questa crisi, secondo Beasley, servivano almeno 2 miliardi di dollari di aiuti.

I Paesi poveri con città affollate e sistemi sanitari pubblici deboli sono stati colpiti duramente. I dati della Jubilee Debt Campaign (JDC) hanno mostrato che il debito dei Paesi poveri è più che raddoppiato negli ultimi 10 anni e ha lasciato più di 50 paesi ad affrontare una crisi di rimborso. Il JDC ha affermato che i pagamenti del debito estero come quota delle entrate dei governi erano più che raddoppiati – dal 6,7% al 14,3% – dal 2010 e hanno raggiunto il loro massimo livello dal 2001. Dall’inizio della crisi più di 100 paesi hanno chiesto aiuto al FMI. La direttrice del FMI, Kristalina Georgieva, ha ripetutamente chiesto l’emissione di altri 500 miliardi di dollari di diritti speciali di prelievo (special drawing rights) per fare fronte alla crisi finanziaria dei Paesi poveri, ma l’amministrazione Trump si è opposta.

L’Unione Europea e le sfide planetarie per la sopravvivenza della specie umana

La situazione attuale di crisi planetaria richiede nuove idee di organizzazione politica e di ridistribuzione economica globale. Il mondo ha bisogno di un’Unione Europea internazionalista rivolta a contribuire attivamente a salvare la pace e a mettere in piedi una globalizzazione che sia realmente sostenibile attraverso l’abbandono del neoliberismo e la costruzione di una governance più equa, efficiente, democratica ed integrata del sistema globale.

Una governance multilaterale e multipolare, coordinata su scala nazionale con i governi dei singoli Paesi, per affrontare le sfide più impellenti, dal cambiamento climatico alla pace, dalla povertà globale alla transizione verso un’economia sostenibile dal punto di vista sia ambientale sia sociale.

Prima di lasciare il suo incarico di presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk aveva invitato Europa, Cina, Stati Uniti e Russia a lavorare insieme per cambiare in meglio “l’architettura del mondo”, evitare guerre commerciali e “prevenire conflitti e caos“. La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha affermato di voler dare una connotazione “geopolitica” al suo mandato.

Da questo punto di vista, l’Unione Europea dovrebbe impegnarsi – lavorando insieme con Stati Uniti, Giappone, Cina, India e altri Paesi emergenti, a cominciare da quelli dell’America Latina, e i Paesi poveri dell’Africa, danneggiati nei loro interessi economici, ambientali, sociali e politici da un rapporto di forze fortemente squilibrato tra Nord e Sud del mondo in favore del primo, e interessati ad assumersi la responsabilità di avviare percorsi di crescita economica sostenibile nel lungo periodo – per costruire un regime internazionale cooperativo che si ponga l’obiettivo di ridurre distorsioni e disuguagllianze ormai non più tollerabili e riorientare la globalizzazione al benessere sociale delle popolazioni coinvolte, anziché esclusivamente a quello economico-finanziario di pochissimi individui super ricchi e global corporations. Ad esempio, basta pensare che gli uomini americani ricchi tendono a vivere più a lungo della media dei cittadini di qualsiasi altro Paese e ora vivono 15 anni in più degli americani poveri che hanno una speranza di vita pari a quella degli uomini di Paesi come Sudan e Pakistan.

Questo, avendo presente che le principali sfide del nostro tempo sono le disuguaglianze sociali, economiche e territoriali, la questione ambientale (il global warming), la sicurezza alimentare, il sovrapopolamento (secondo una proiezione dell’ONU dai 7,3 miliardi attuali, gli umani dovrebbero diventare 9,7 miliardi nel 2050 e 11,2 nel 2100), le migrazion forzate, il protezionismo e nazionalismo, i conflitti regionali, il terrorismo, la decimazione di altre specie e dell’agro-biodiversità, le epidemie.

Tutti fenomeni complessi e problematici che mettono a rischio non solo la riproduzione del processo di accumulazione capitalistico, ma anche la stessa sopravvivenza della vita umana sul pianeta.

Sappiamo, ad esempio, che la distruzione umana della natura sta rapidamente erodendo la capacità del mondo di fornire cibo, acqua e sicurezza a miliardi di persone. Tale è il tasso di declino che i rischi posti dalla perdita di biodiversità dovrebbero essere considerati alla stessa stregua di quelli del cambiamento climatico. Dal 1970 l’umanità ha spazzato via il 60% di mammiferi, uccelli, pesci e rettili, portando i massimi esperti del mondo (cfr. il Living Planet Index, prodotto per il WWF dalla Zoological Society di Londra) ad avvertire che l’annientamento della fauna selvatica è ora un’emergenza che minaccia la civiltà umana (si stima che fino a 1 milione di specie siano a rischio di annientamento, molte entro decenni), perché sta distruggendo gli habitat naturali (per trasformarli in terre agricole e/o urbanizzate) che sostengono la rete della vita. Una rete che ha richiesto miliardi di anni per la sua formazione e da cui in ultima analisi l’intera umanità dipende per l’aria pulita, l’acqua, il cibo e tutto il resto.

Sappiamo, anche a seguito della pandemia da CoVid-19, che i cambiamenti che stiamo provocando nell’ecosfera ci stanno facendo diventare più vulnerabili. Nel caso di piante e animali domestici, ad esempio, la mancanza di biodiversità nei geni ci sta lasciando meno protezione contro le malattie e meno opzioni per le piante e gli animali da riproduzione che si adattano meglio al cambiamento climatico. Il declino delle popolazioni di insetti è un altro esempio chiave: dove gli impollinatori non sono disponibili, gli effetti a cascata sugli ecosistemi possono rapidamente diventare catastrofici. Una volta che queste popolazioni selvatiche sono state sradicate o gravemente esaurite, abbiamo pochi modi per cercare di riportarle indietro, e non possiamo sostituire i “servizi ecosistemici” – ad esempio, l’impollinazione delle piante di cui abbiamo bisogno per il cibo – che forniscono.

Finora l’attenzione è stata focalizzata essenzialmente sulla rapida decarbonizzazione di energia, trasporti e agricoltura, mentre non si è cercato di fare nulla (a parte che nel piccolo Costa Rica) per ripristinare le foreste (in particolare nelle aree tropicali dove sono state rase al suolo per dare spazio agli allevamenti di bestiame, a piantagioni di olio di palma, cacao o soia e al taglio di legname) e le coste naturali (il più rapido assorbimento di carbonio si verifica in habitat costieri vegetali come paludi salmastre ricoperte di mangrovie, torbiere e fondali di alghe marine, che proteggono anche le comunità umane da tempeste e tsunami) per affrontare simultaneamente il cambiamento climatico e l’annientamento della flora e fauna selvatiche.

Ricerche recenti indicano che circa un terzo delle riduzioni di gas serra necessarie entro il 2030 può essere fornito dal ripristino degli habitat naturali, ma tali soluzioni hanno attratto finora solo il 2,5% dei finanziamenti per affrontare la questione delle emissioni. Nel marzo 2019, l’ONU ha annunciato il Decennio del Restauro degli Ecosistemi perché riconosce che il degrado degli ecosistemi ha avuto un impatto devastante su persone e ambiente.

La natura è la nostra migliore scommessa per affrontare il cambiamento climatico e garantire il futuro, come afferma l’ambientalista britannico George Monbiot: “Gli scienziati hanno appena iniziato a esplorare come il recupero di certe popolazioni animali potrebbe cambiare radicalmente il bilancio del carbonio. Ad esempio, elefanti e rinoceronti della foresta in Africa e Asia e tapiri in Brasile sono silvicoltori naturali, che mantengono ed estendono i loro habitat mentre inghiottono i semi degli alberi e li diffondono, a volte per molte miglia, nel loro sterco. I rinoceronti bianchi possono svolgere un ruolo importante nella prevenzione degli incendi nelle savane africane: il loro pascolo impedisce la formazione di erba secca. Se ai lupi fosse permesso di raggiungere le loro popolazioni naturali in Nord America, un articolo suggerisce che la soppressione da parte loro delle popolazioni di erbivori fermerebbe una quantità di carbonio rilasciata ogni anno pari a quella prodotta da 30-70 milioni di automobili. Popolazioni salutari di granchi e pesci predatori proteggono il carbonio nelle paludi salmastre, in quanto impediscono a granchi e lumache erbivori di spazzare via le piante che tengono insieme le paludi”.[3]

Le popolazioni di pesce sfruttabili nella regione più popolosa del mondo – l’Asia-Pacifico – sono sul punto di declinare a zero entro il 2048; la disponibilità di acqua dolce nelle Americhe si è dimezzata dagli anni ’50 e il 42% delle specie di terra in Europa è diminuito negli ultimi dieci anni. Ogni aumento di 1° C della temperatura media annuale è accompagnato da un maggior rischio di effetti drammatici sull’agricoltura globale. Oceani più caldi, ad esempio, sono un fattore importante nell’aumento della gravità delle tempeste, degli uragani, dei cicloni e delle piogge estreme (favorite dalla maggiore umidità nell’aria). I rendimenti agricoli diminuiranno tra il 5% e il 50% (o più) nel prossimo secolo, a seconda del periodo di tempo, della coltura, della posizione geografica e della quantità di carbonio che continuerà ad essere ancora pompato nell’aria.

Le migliori prove disponibili raccolte dai maggiori esperti mondiali ci indicano una singola conclusione: dobbiamo agire per fermare e invertire l’uso insostenibile della natura o rischiare non solo il futuro che vogliamo, ma anche le vite che conduciamo attualmente. In molte regioni del mondo, le attuali tendenze in materia di biodiversità stanno mettendo a repentaglio gli obiettivi di sviluppo globale delle Nazioni Unite tesi a fornire cibo, acqua, vestiario e alloggio alle popolazioni più povere del pianeta come quelle africane, oltre ad indebolire le difese naturali contro eventi meteorologici estremi, che diventeranno più comuni a causa dei cambiamenti climatici. E’ tempo che i responsabili politici agiscano a livello locale, nazionale, regionale e globale.

[1] Focsiv, I padroni della terra. Rapporto sul land grabbing, Focsiv, Roma, 2018, https://www.focsiv.it/wp-content/uploads/2018/04/i-padroni-della-terra_OK2.pdf.

[2] Liberti S., I signori del cibo, Minimum fax, Roma, 2017.

[3] Monbiot G., The natural world can help save us from climate catastrophe, The Guardian, 2019. https://www.theguardian.com/commentisfree/2019/apr/03/natural-world-climate-catastrophe-rewilding.

Africa, cacao, cambiamento climatico, Ue
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