«L’Unione Sovietica ha distrutto fra il mio popolo, il valore della parola “socialismo”, gli Usa hanno ucciso il senso della parola “democrazia”». Con queste parole l’attivista ed ex parlamentare afghana Malalai Joya, descriveva, mesi fa, in un intervista pubblicata su Left, la situazione del proprio paese. Un’affermazione che acquista ancora più senso in questi giorni per varie ragioni. Il 7 ottobre di 19 anni fa, alle 20.45 iniziavano i bombardamenti angloamericani sulle postazioni dei talebani in quel disgraziato paese. L’attacco venne effettuato partendo da due pretesti: il supporto alla “Alleanza del Nord”, il cui nome reale era “Fronte islamico unito per la salvezza dell’Afghanistan”, guidata dal generale Massoud che intendeva scalzare dal potere gli studenti jahedisti noti come talebani e il tentativo di catturare Osama Bin Laden, il potente fondatore di Al Qaeda ritenuto non a torto il mandante degli attacchi alle Twin Towers dell’11 settembre. Tanti elementi fanno comprendere come l’attacco all’Afghanistan fosse stato programmato ben prima dell’attentato più grave mai subito in Usa; nei giorni precedenti ma anche in quelli successivi all’attacco Usa ci furono tentativi diplomatici di giungere ad una consegna di Bin Laden o ad almeno ad un processo in un paese terzo con giudici indipendenti. Ma erano tentativi destinati sin dall’inizio a non produrre risultati. Lo strapotere militare che coinvolse via via anche altri paesi della Nato, fra cui l’Italia era così enorme che in una prima fase i talebani batterono in ritirata. In pochi mesi le principali città afghane, da Kabul a Kandahr a Kunduz, caddero nelle mani delle forze di occupazione.
Ma non si giunse certo ad una pace, concetto ormai sconosciuto da troppi anni in quell’area.
Era infatti il 27 dicembre del 1979 quando i carrarmati sovietici, che avevano lanciato l’attacco alla vigilia di Natale, entrarono a Kabul per prendere il potere a seguito di profondi scontri politici interni. Fu una vera e propria guerra civile, da una parte la Repubblica democratica dell’Afghanistan sostenuta da Mosca, dall’altra le milizie dei mujaheddin (i combattenti) fra loro divisi ma sostenuti dagli USA. 10 anni dopo, nel febbraio 1989, i sovietici se ne andarono sconfitti ma non giunse la pace. Ci furono vendette sanguinose da parte dei vincitori che continuarono a scontrarsi in una faida perenne. Nel 1996 entrarono a Kabul le milizie talebane e fra i primi atti compiuti per affermare il proprio dominio ci fu il processo all’ultimo presidente eletto, che per alcuni anni controllava solo la capitale. Mohammad Najibullah, questo il suo nome, venne torturato in maniera brutale e appeso nel centro della capitale, il messaggio era chiaro. Da quel momento in tutto il Paese diventava legge totale la sharia.
Fu dichiarata la “Repubblica islamica” ma gli scontri proseguirono, con le minoranze etniche e contro alcuni signori della guerra importanti anche perché controllavano le zone del Paese più adatte alla coltivazione dell’oppio e quindi più importanti per un traffico internazionale già in ascesa.
Gli Usa, in chiave antisovietica, avevano finanziato quegli stessi gruppi che anni dopo avrebbero portato il terrore per il mondo e che avrebbero riportato l’Afghanistan indietro nel tempo. Negli anni Settanta il paese sembrava avviato verso una modernizzazione e una secolarizzazione estremamente interessante in quanto non indotta, in pochi anni tornarono tutte le più atroci limitazioni alle donne– anche alle bambine venne proibito studiare – ci fu una generale crescita della povertà e dell’analfabetismo, aumentarono fame e malattie ad essa correlata, il tutto in un contesto di continuo e totale pericolo.
L’invasione occidentale non portò pace e democrazia come promesso. Negli anni, nonostante i tentativi di restaurare almeno apparentemente una normalità, continuarono a crescere tensioni e scontri, solo nel 2019 furono oltre 10000 le persone uccise o gravemente ferite durante attacchi o semplicemente perché incappate in una mina. In alcuni periodi e in alcune aree addirittura le persone preferivano spostarsi nelle aree controllate dai talebani, integralisti nella vita quotidiana ma in grado di far rispettare ordine e legge – la loro – piuttosto che vivere nei territori in cui si scontravano i trafficanti di eroina.
Dal 2001 ad oggi almeno 4,7 milioni di persone sono ufficialmente o fuggite dal paese (il 90% distribuito fra i confinanti Pakistan e Iran) o sfollati interni, ma il numero è da considerare per difetto perché in quasi venti anni molte persone sono nate in quei paesi o in Europa da genitori afghani.
Da febbraio sono ufficialmente iniziati i colloqui di pace fra governo afghano, sostenuto dagli occupanti occidentali e talebani, per giungere ad una pace. Il 12 settembre, alla presenza del Segretario di Stato Usa, Mike Pompeo gli avversari si sono incontrati a Doha in Qatar. È ormai certo un disimpegno militare Usa, in parte già iniziato non avendo più l’amministrazione americana interessi nell’area e dopo che nel 2011 in Pakistan era stato eliminato Osama Bin Laden.
I talebani si presentano oggi come moderati e sono in aperta concorrenza con l’Isis che anche lì ha stabilito nuove basi. Ma il moderatismo talebano non arretra rispetto ad alcune richieste. L’Afghanistan dovrà restare uno Stato islamico in cui la religione avrà un ruolo fondamentale nella vita politica. Disponibili ad aperture formali nella vita pubblica non accettano minimamente le prospettive di un paese secolarizzato. Ma c’è un necessario lavoro di ricostruzione e di riconciliazione di cui è difficile prevedere l’esito. Un solo esempio. I paesi che hanno accolto rifugiati afghani, tanto il Pakistan quanto quelli europei, considerano oggi fondamentale rimandare indietro i profughi, ad avviso dei loro governi non corrono più rischi. Ma chi è scappato lo ha fatto spesso perché ha lavorato con l’esercito, è considerato colpevole di reati verso qualche signore della guerra o qualche mullah, difficile pensare che non restino esposti a vendette. Si aggiunga che la crescita esponenziale della produzione tanto di oppio che di eroina nelle raffinerie, ha creato una tossicodipendenza diffusa che riguarda il 10% della popolazione, bambini compresi.
La speranza a cui aggrapparsi è in una società civile, soprattutto, ma non solo, femminile, che vuole un futuro diverso. C’è un partito laico Hambastagi che non può ad oggi presentarsi come tale ma che raccoglie consensi, ci sono giovani che cercano di svolgere un lavoro capillare di istruzione e di sganciamento dalle imposizioni patriarcali e dalla corruzione. Possono essere loro il futuro del Paese se non ci saranno, ancora una volta, interferenze esterne.