Tra un mese si vota, in Svezia. Gli ultimi sondaggi vedono i Socialdemocratici in crescita, con quasi il 32% dei voti, il Partito della sinistra in lieve aumento (tra l’’8 e il 9%) e i Verdi in calo, con il 3,5%. I partiti di centrodestra manterrebbero grosso modo i consensi del 2018, con i Conservatori al 19,6%, i Liberali al 5% e i Cristianodemocratici al 6,7%. In controtendenza il Partito di centro, che scenderebbe al 5,4%.
Fino al 2018 questi erano i due schieramenti tradizionali (il rosso-verde e il centrodestra), che tuttavia sono saltati: anche quello che era uno dei sistemi politici più stabili dell’Occidente ha dovuto affrontare, infatti, molte turbolenze. A sconvolgerlo soprattutto due fattori: lo sdoganamento da parte dei Conservatori e dei Cristianodemocratici dei Democratici di Svezia, populisti di destra con radici neonaziste (dati al 17,5%, lo stesso risultato del 2018) e la conseguente scomposizione del centrodestra. Proprio per impedire un governo comprendente i populisti, nel gennaio 2019 il Partito di Centro ha sottoscritto, insieme con i Liberali (che però nel 2021 si sono sfilati), un accordo con i Socialdemocratici, i quali hanno così potuto guidare, prima con Stefan Löfven e poi con Magdalena Andersson, un governo di minoranza.
In breve: lo schieramento rosso-verde rischia di frantumarsi perché i Verdi (che, per inciso, hanno interrotto l’alleanza di governo con i socialdemocratici nel novembre 2021), non supererebbero – nel paese di Greta! – la soglia di sbarramento, fissata, in un sistema proporzionale puro come quello svedese, al 4%. Da soli Socialdemocratici e Partito della sinistra totalizzerebbero circa il 40% dei seggi. Se vuole governare, il partito di Andersson ha quindi disperatamente bisogno che il Partito di Centro rinnovi il suo appoggio (esterno o interno si vedrà, ma comunque condizionato all’attuazione di una serie di riforme – neoliberali) e che alla fine i Verdi passino la soglia. Anche il centrodestra ha un grosso problema: senza i centristi, metterebbe insieme meno del 32% dei voti. L’unica possibilità che ha di andare al governo sta appunto nell’alleanza con i Democratici di Svezia, rompendo così un tabù: fino al 2019 gli xenofobi sono stati isolati dal salotto buono della politica per effetto del “cordone sanitario” applicato contro di loro da tutti i partiti, centrodestra compreso. La malefica alleanza con il partito di estrema destra (una formula ampiamente collaudata negli altri paesi nordici) garantirebbe una maggioranza molto ampia, o perfino assoluta, ma potrebbe spaventare gli elettori più moderati.
Come si posiziona il Partito della sinistra (Vänsterpartiet, V)? Il ricambio generazionale e di genere compiutosi nel 2020, quando Jonas Sjöstedt, leader molto apprezzato anche al di fuori del partito, ha annunciato l’abbandono della politica attiva ed è stato sostituito da Nooshi Dadgostar, aveva suscitato molte speranze di un rinnovato impegno nella tessitura di rapporti con i movimenti sociali, senza che questo implicasse la rinuncia alla rendita di posizione di cui il partito godeva (essendo il suo appoggio necessario per la sopravvivenza del governo socialdemocratico di minoranza). Il V ha portato a casa infatti risultati che non è possibile sottovalutare: non promesse, bensì misure che migliorano la vita quotidiana di milioni di persone. Nel giugno dello scorso anno, rifiutando di cedere al ricatto “così consegniamo il paese alla destra”, ha ritirato la fiducia a Löfven, provocando una crisi di governo, per impedire la liberalizzazione degli affitti negli alloggi di nuova costruzione: la destra non è passata e la misura antipopolare neppure. Ha inoltre promosso un incremento cospicuo delle pensioni più basse; la riforma, entrata in vigore ad agosto, è considerata una delle più rilevanti nella storia del sistema pensionistico svedese. Si è altresì battuto con successo per l’aumento delle pensioni di invalidità (scattato a inizio anno).
Verosimilmente, l’esito incerto delle elezioni e la frammentazione del sistema politico permetteranno al V di essere ancora determinante dopo l’11 settembre. Eppure la rendita di posizione sembra non bastargli: la leadership del partito ha chiarito da tempo che il suo obiettivo è un’alleanza di governo con i socialdemocratici (ormai saldamente neoliberali e filo-atlantici) e dunque, direttamente o indirettamente, con il liberista Partito di Centro. Questo spiega il profilo ambiguo o apertamente “revisionista” tenuto su questioni cruciali.
Il Partito della sinistra ha votato in primavera l’aumento delle spese militari con l’argomento che una difesa solida era necessaria per garantire… la libertà da alleanze militari. Sappiamo come è andata a finire. E Dadgostar e compagnə erano ben consapevolə che le spese per la difesa erano cresciute enormemente dal 2014, di pari passo con l’intensificarsi della cooperazione con la NATO. Alla richiesta di adesione, con le annesse forche caudine dell’accordo con Erdoğan, il V e i Verdi sono stati gli unici a opporsi, ma senza insistere troppo sulla richiesta di un referendum e rinunciando a presentare una mozione di sfiducia verso la ministra degli esteri, Ann Linde, per le concessioni alla Turchia. Del resto, in occasione del congresso del V (a febbraio) Dadgostar aveva dichiarato che parlare di “scioglimento” della NATO le sembrava inopportuno.
A suscitare sconcerto tra le fila del partito è stato anche il mutato rapporto con la tradizione socialista (e comunista). A febbraio Ali Esbati, il responsabile economico, e numero due, del partito (https://transform-italia.it/intervista-ad-ali-esbati/) è stato sottoposto a un vero e proprio assedio da parte di un velenoso giornalista della televisione di stato, che puntava a fargli rinnegare il comunismo. Bisogna riconoscere che ci è riuscito: anziché argomentare che esso non può essere ridotto a Stalin, Esbati ha preso le distanze dalla stessa organizzazione giovanile del suo partito [sic], colpevole di mantenere la parola incriminata nel suo programma.
A luglio, nel corso della Settimana di Almedalen1, è stato chiesto a Dadgostar se era favorevole alla nazionalizzazione delle banche: risposta negativa. Invitata a motivarla, ha spiegato che “viviamo in un’economia mista”. Alla domanda delle domande, “ti definiresti socialista?”, dopo aver temporeggiato ha risposto: “Beh, dipende da cosa si intende”, per poi chiarire che la collaborazione tra Stato e impresa è positiva, come del resto il Welfare State (frutto del compromesso tra capitale e lavoro). Se a ciò si aggiunge che i tributi ai padri della nazione socialdemocratici come Per Albin Hansson e Tage Erlander sono diventati la regola, nella retorica del Partito della sinistra, ci si può legittimamente chiedere se la sua prospettiva consista nel prendere il posto proprio dei Socialdemocratici. Una strategia rischiosa, non solo perché di solito chi detiene il copyright di un prodotto non vi rinuncia facilmente (salvo poi sbandierarlo unicamente a fini propagandistici), ma anche perché i presupposti del “modello svedese” sono stati erosi. Tra questi, il nazionalismo: che l’attuale leadership del V non sembra affatto aver superato, né in politica estera né in quella energetica o sociale.
Sarà premiata la svolta governista? E se andrà al governo, riuscirà il Partito della sinistra a mantenere l’interlocuzione con i movimenti (a partire da quello per il clima)? Risulterà ancora credibile la sua azione di contrasto al dilagare dei Democratici di Svezia tra i ranghi degli iscritti e delle iscritte al sindacato?
Dal risultato elettorale di questo partito e dalle scelte che farà scaturiranno elementi di riflessione (speriamo non troppo amari) per tutta la sinistra europea.
Monica Quirico