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La strategia della tensione del sultano turco Erdogan

di Tommaso
Chiti

Negli ultimi giorni l’aviazione militare turca ha bombardato incessantemente il nord-est della Siria, colpendo soprattutto obiettivi civili, fra cui un ospedale della città di Kobane, simbolo dal 2014 della resistenza del popolo curdo all’avanzata dello stato islamico di Daesh.
Oltre alle incursioni aeree, il sultano turco Erdogan minaccia l’ennesima invasione terrestre, dopo le tre operazioni che dal 2016 al 2019 hanno portato all’occupazione della città di Afrin, ai danni del progetto di confederalismo democratico del Rojava.

Ufficialmente il governo di Ankara sta spacciando la nuova offensiva come rappresaglia all’attentato terroristico dello scorso 13 novembre in piazza Taksim, attribuito immediatamente al partito dei lavoratori curdo PKK e alle sue espressioni siriane di autodifesa popolare YPJ/YPG, nonostante le categoriche smentite delle stesse organizzazioni. “Il mondo è a conoscenza del modo in cui le nostre forze combattono e difendono i diritti del nostro popolo – spiega in una nota il portavoce delle YPG, Nouri Mahmoud – lottando contro il terrorismo e denunciando ogni operazione a scapito di civili. Le nostre forze si basano su principi democratici, di difesa dei diritti umani e delle donne e di lotta a terrorismo e dittature”.

Come fa giustamente notare Davide Grasso, che ha partecipato in prima persona alla lotta di riscatto democratico del Rojava dal terrorismo islamico, il caso solleva più dubbi che risposte, non solo perché le unità di difesa popolare curde non hanno mai utilizzato tattiche terroristiche, tanto meno contro civili inermi, ma anche per le figure coinvolte nell’attentato, a cominciare dall’autrice della strage, originaria proprio di una zona vicina ad Afrin, da tempo sotto il controllo delle milizie jihadiste, alleate dello stesso esercito turco. Lo stesso complice della donna, che secondo le indagini ha fornito l’esplosivo, sarebbe poi stato arrestato nella città siriana di Azaz, altra località occupata dalle forze turco-jihadiste. A completare questo quadro a tinte fosche è poi il contatto telefonico prima della strage fra l’attentatrice e Mehmet Emin İlhan, dirigente del partito turco di estrema destra MHP, principale alleato del governo Erdogan.

La frettolosa ricostruzione del Ministro dell’Interno Suleyman Soylu appare in tutta evidenza quale utile pretesto per rilanciare la costante strategia della tensione di un governo in caduta nei consensi, a pochi mesi dalle prossime elezioni presidenziali turche, a giugno 2023.
Lo stragismo di piazza ricorre ampiamente nella storia recente della Turchia, come per gli attentati del giugno 2015, che provocarono oltre novanta vittime durante una manifestazione per la pace indetta a poche settimane dalle elezioni politiche dal partito democratico popolare HDP, oggi messo al bando.
La profonda crisi economica, con l’inflazione ufficialmente al 90% e il crescente malcontento per le politiche liberticide potrebbero aver consigliato Erdogan a cercare maggiore popolarità con una nuova campagna internazionale, approfittando del ruolo da play-maker che si è ritagliato sullo scenario di guerra ucraino, come mediatore per gli accordi sul grano e sullo scambio di prigionieri fra Kyev e Mosca.

Non a caso le incursioni militari in Siria sorvolano uno spazio aereo diviso fra Stati Uniti e Russia, che hanno lasciato mano libera ai caccia turchi. Da considerare anche a proposito che la Turchia è l’unico membro della NATO, che non ha comminato alcuna sanzione al regime di Putin, con cui non mancano confronti più o meno diretti: dal Nagorno-Karabah, passando per il Mar Nero, fino ad arrivare in Libia.

L’ambiguità nelle alleanze internazionali del governo turco ha permesso ad Erdogan di accreditarsi sempre di più come pontiere e figura chiave nell’area medio-orientale, anche rispetto alla questione dei flussi migratori verso l’Europa, per cui l’UE versa ogni anno miliardi di euro ad Ankara, che in cambio trattiene i profughi sul proprio territorio.

In quest’ottica si può spiegare il silenzio disarmante della comunità internazionale che, dopo l’alleanza strumentale in chiave antiterroristica con le unità di difesa popolari curde, ha abbandonato le popolazioni del Rojava alla mercé dei progetti di conquista di Erdogan.
Il tradimento europeo e statunitense ha raggiunto picchi plateali con il veto posto dalla Turchia all’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO; e i cedimenti atlantici di fronte all’arroganza turca nel chiedere l’estradizione illegale di rifugiati curdi.

Così ora Erdogan sembra voler passare all’incasso della fitta rete di intrighi internazionali, rilanciando sul piano nazionalistico la propria candidatura per le prossime elezioni.
Come denuncia apertamente la nota del 14 novembre da parte del portavoce YPG, Nouri Mahmoud, “in una fase in cui si afferma […] nella lotta contro il terrorismo islamico di Daesh e contro i regimi che lo sostengono, con lo slogan ‘Donna, Vita, Libertà’ (Jin, Jiyan, Azadì!), la rivoluzione delle donne in Iran, Afgahnistan e oltre […] si è innescata una forte preoccupazione da parte di Erdogan ed il suo partito AKP per i propri interessi, a scapito della libertà del loro popolo e della stabilità del Medio-Oriente”.
Nella nota si percepisce tutta la delusione per l’abdicazione del mondo occidentale, suggellata dal disastroso ritiro delle truppe USA nell’agosto 2021 da Kabul, con l’abiura del ruolo di sedicente paladino dei diritti umani, a favore invece degli interessi geopolitici delle potenze regionali, preferendo così il mantenimento dei buoni rapporti commerciali con regimi tutt’altro che democratici.
Un altro aspetto dirimente è poi il portato deflagrante delle proteste e dei movimenti rivoluzionari, in termini di contrapposizione fra nazionalismi confessionali ed autodeterminazione popolare e di genere.
In questo senso le rivendicazioni indipendentiste curde sono sempre state una spina nel fianco di stati post-coloniali come Iran ed Iraq, per non parlare appunto della Turchia, tutti accomunati dalla repressione di esperienze analoghe al confederalismo democratico portato avanti dall’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est (AANES).

Lo stesso Grasso fa una panoramica molto chiara sull’amministrazione di tipo egualitario e popolare dell’AANES, articolata in assemblee dette Comuni, organizzate in co-presidenze di genere e rappresentanze inclusive di minoranze religiose e linguistiche.
Ed è proprio una simile trasposizione in concreto del progetto di confederalismo democratico a minacciare regimi autocratici e fondamentalisti, da un lato; catalizzando rivendicazioni socio-economiche e culturali di ampi strati delle popolazioni medio-orientali, dalla Siria, alla Turchia, passando per Iran ed Afghanistan, dall’altro.
Il patriarcato e la lotta per l’emancipazione femminile rappresentano una delle espressioni più pregnanti di questa rivoluzione a bassa intensità, duramente repressa, ma altrettanto trainante e trasversale, non solo per la presenza diffusa della popolazione curda nei quattro cantoni storici, oggi frammentati sotto il controllo di più stati nazionali, ma anche per la cooperazione politica, portata avanti da donne e attiviste.

Sebbene molti governi occidentali e soprattutto europei abbiano ripiegato su derive nazionaliste, specialmente dopo la crisi pandemica; la portata internazionalista dell’autodeterminazione di popoli e di genere, anche in vista della Giornata Mondiale contro la violenza sulle Donne, chiama militanti e movimenti a rilanciare quei Patti d’Amicizia fra le municipalità italiane e del Rojava e quella solidarietà internazionale fra popoli, che non può certo trovarci indifferenti all’ennesima aggressione a chi rivendica diritti universali.

Tommaso Chiti

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