di Franco Ferrari –
Nell’intervento conclusivo alla convenzione bolognese del suo partito, il segretario del PD, Nicola Zingaretti ha cercato di tenere insieme due elementi di strategia che sono risultati finora in difficile equilibrio tra loro: la “vocazione maggioritaria” e la ricerca del “campo largo”.
Ricordiamo che l’invocazione della “vocazione maggioritaria” aveva caratterizzata la fase fondativa del partito, in particolare nella versione data dal primo segretario Walter Veltroni. Questa formula significava che il neonato partito politico, essendo sorto dalla fusione delle due principali forze politiche del centro-sinistra, DS e Margherita, a loro volta espressione delle due principali correnti politiche originarie, gli ex-comunisti e i post-democristiani, si proponeva di assumere in se stesso l’intero settore progressista del sistema politico.
Questa volontà era strettamente collegata ad una ulteriore forzatura in senso maggioritario del sistema stesso che avrebbe dovuto subire una brutale semplificazione. Non bastava più il bipolarismo, che contrapponeva coalizioni plurali e a volte anche eterogenee, ma bisognava andare verso il bipartitismo, sul modello (rozzamente interpretato in realtà) del sistema statunitense, basato su Democratici e Repubblicani.
Alle prime elezioni in cui si è presentato, nel 2008, inglobando nelle proprie liste i radicali della Bonino, la cui identità liberal sul piano dei diritti civili ma ultraliberista sul piano economico e atlantista sul piano internazionale risultava comunque in sintonia con l’impostazione veltroniana, e alleandosi con l’Italia dei Valori di Di Pietro, primo tentativo di partito populista trasversale, il PD raccoglieva il 33,2% restando largamente dietro alla coalizione di centro-destra guidata da Silvio Berlusconi. Risultato per altro mai più raggiunto nei dieci anni successivi.
Berlusconi in un primo momento pensò che la formazione del PD prefigurasse effettivamente un mutamento complessivo del sistema politico e lanciò la proposta di formazione del “Popolo della Libertà”, come unico soggetto politico del centro-destra. La creazione del PdL si rivelò rapidamente una cattiva idea, sia perché ad esso si sottrasse la Lega Nord, che aveva una forte identità e un notevole radicamento territoriale, ma che restava un alleato dal quale non si poteva prescindere, sia perché la natura patrimoniale del partito berlusconiano, trasferita alla nuova formazione politica, rendeva impraticabile la convivenza con leadership diverse. Il risultato è stato il progressivo ritorno alle due formazioni originarie, ovvero Forza Italia da un lato e Fratelli d’Italia dall’altro. Quest’ultimo si è consolidato come erede della tradizione neo (o post) fascista, incarnatasi storicamente nell’MSI e poi in Alleanza Nazionale, prima della svolta centrista di Fini.
Il sistema politico si è quindi evoluto in modo asimmetrico sui due versanti di quello che i teorici del maggioritario consideravano il modello ideale, l’alternarsi di due soggetti politici, convergenti verso il centro, alla caccia di un ipotetico elettore moderato, ma ancorati ad una comune visione socio-economica di liberismo più o meno hard. Da un lato infatti c’era un partito che si proponeva di occupare tutto lo spazio del centro-sinistra, dall’altro una coalizione plurale formata da partiti diversi, dotati di una propria identità forte ma capaci di coalizzarsi.
Mentre la destra abbandonava l’idea del partito unico, il PD ha continuato a perseguire il progetto della “vocazione maggioritaria” che presupponeva di mettere in atto tutte le strategie utili a impedire la formazione di forze politiche significative diverse nel campo del centro-sinistra. Obbiettivo per il raggiungimento del quale è stata fondamentale la manipolazione dei sistemi elettorali, a tutti i livelli, con l’introduzione di meccanismi che rendessero molto più difficile l’accesso alla rappresentanza istituzionale di forze politiche rivali in quello che era considerato il proprio campo riservato (si veda in particolare i vari sistemi adottati per le votazioni per le Regioni, con soglie di ingresso sempre più alte, riduzione del numero degli eletti, ecc.).
Il tentativo di semplificazione bipolare, se ha portato alla marginalizzazione delle altre forze che avevano costituito parte dell’Unione, la più ampia delle alleanze guidate da Prodi, (anche evidentemente per errori propri di queste forze, sulle quali però hanno pesato fortemente tutte le forme di riduzione coatta del pluralismo all’interno delle sedi istituzionali), ha favorito l’emergere di un terzo polo, quello dei 5stelle. Sulla nascita del partito-movimento di Grillo e sul suo successo hanno pesato le dinamiche economiche e sociali innescatesi con la crisi economico-finanziarie del 2008, le politiche di austerità imposte dalla UE ecc. L’impatto della crisi su ampi settori sociali non ha trovato rappresentanza nel modello di alternanza proposto dai sostenitori del maggioritario.
Il partito-movimento di Grillo si è proposto velleitariamente come forza post-ideologica, ovvero né di destra né di sinistra, mescolando in modo spesso confuso e contradditorio tematiche dell’uno e dell’altro versante, e raccogliendo voti in provenienza da tutte le direzioni, dall’estrema destra all’estrema sinistra, oltre che dall’astensionismo. Questa miscela di temi e approcci contrastanti, accoglieva delle esigenze di cambiamento e un malessere diffuso presente in estesi di settori sociali, ma si è rivelata abbastanza rapidamente del tutto inadeguata a soddisfare questi stessi bisogni.
Il sistema politico sembrerebbe quindi destinato a tornare ad un assetto bipolare, ma ci sono alcuni fattori che vanno considerati. Si veda in particolare quanto emerge dalle tendenze elettorali così come sono fotografate dai sondaggi e in gran parte consonanti con i dati delle recenti elezioni europee e finora confortate da quelle regionali.
Il consenso dei 5stelle risulta praticamente dimezzato dal 33 al 16%, rispetto alle elezioni politiche del 2018. A fronte di questo vero e proprio tracollo, la coalizione di destra è salita dal 37 al 50%. Un incremento di 13 punti percentuali. Dall’altra parte dello schieramento, sommando un insieme di forze che va da Renzi a Leu si sale dal 26 al 30%. Italia Viva ha però chiarito di essere un partito antagonista del PD, di cui punta a svuotare il consenso elettorale. Non sembra realistica quindi l’ipotesi, avanzata da qualche intellettuale di area Dem, di un partito renziano che vada a caccia del voto moderato per poi portarlo in dote ad una coalizione di centro-sinistra comunque sempre dominata dal PD. Quindi l’area elettorale di quest’ultimo partito si riduce a circa un 25%, considerando anche i deboli alleati.
Questo quadro solleva due problemi. Uno di interpretazione e l’altro di prospettiva.
Innanzitutto occorre capire come mai la fortissima perdita di consenso dei 5stelle vada praticamente a solo beneficio della destra. Il movimento-partito fondato da Grillo ha raccolto in fase ascendente sia elettori provenienti dal centro-destra che elettori provenienti dal centro-sinistra, insieme ad altri che si erano nel tempo rifugiati nell’astensione. Gli elettori provenienti dal centro- destra “tornano a casa”, gli elettori provenienti dal centro-sinistra no, nonostante i 5 stelle siano stati alleati di una forza di destra radicale che avrebbe dovuto essere la più lontana dal loro modo di sentire.
Ci sono varie ragioni perché questo è avvenuto, ma ne voglio sottolineare una che mi sembra di particolare rilevanza e che attiene allo stato dell’offerta politica. La destra ha una caratteristica di fondo, quella di essere una coalizione plurale di forze dotate di una propria identità. Questo determina una situazione di vasi comunicanti, con i quali il calo di una forza politica può essere compensato dalla crescita dell’altra senza indebolire la coalizione. Inoltre la configurazione della coalizione si è modificata rispetto a quella esistente al momento in cui sono fuggiti molti elettori in direzione dei 5stelle. Non vi sono certezze, ma mi sembra difficile pensare che questo elettorato sarebbe “tornato a casa” in un centro-destra ancora dominato da Forza Italia e guidato ancora da Berlusconi o, ad esempio, da un Tajani. L’attuale centro-destra ha assunto in particolare con Salvini uno stile populista che consente agli elettori grillini, che si erano orientati ad un partito percepito come “anti-sistema”, di tornare a votare a destra senza rinnegare totalmente le ragioni che li avevano spinti a scommettere sull’impresa 5stelle.
Dall’altra parte del sistema politico non abbiamo invece nessuna delle due condizioni. Non è una coalizione plurale, fondata sull’unità di partiti dotati di una propria identità e di un proprio consenso che prescinde dalla coalizione. Nessuno degli alleati del PD alle elezioni del 2018 sarebbe entrato in Parlamento con le proprie forze. Hanno dovuto contare sui collegi uninominali messi a disposizione dal socio dominante della coalizione. D’altra parte nemmeno l’offerta politica che proviene dal PD può essere considerata diversa da quella dalla quale gli elettori di sinistra sono fuggiti per rivolgersi ai 5stelle. Sicuramente la leadership di Renzi aveva rappresentato un momento di forte innovazione rispetto alle precedenti “coalizioni dominanti” del partito. Ma al di là degli aspetti più superficiali (come le considerazioni sull’antipatia e la divisività dell’uomo) la politica renziana, che unisce politiche liberiste e pro-business, esaltazione delle promesse della globalizzazione capitalistica e concessioni cosmetiche al populismo anti-partito, ha contributo più a disgregare il blocco elettorale del PD più che consolidarne uno nuovo.
Si torna quindi alla contraddizione zingarettiana tra la “vocazione maggioritaria”, ovvero la volontà di fare del PD la forza politica che unifica tutto il campo del centro-sinistra (da “Tsipras a Macron”, secondo la formula utilizzata nella campagna elettorale per le europee), e la ricerca di un “campo largo” dal quale dovrebbero sorgere gli alleati necessari a portare voti ma del tutto subalterni e privi di una propria significativa identità politica.
L’unica strategia alternativa a questa sarebbe il consolidamento di un’alleanza con i 5 stelle, sponsorizzata in particolare da Franceschini). In termini puramente numerici una coalizione PD-5stelle risulterebbe, ai dati attuali, competitiva con la coalizione di destra. Ma si è visto che gli elettori ancora fedeli al movimento di Grillo, anche quelli che non sono tornati (o andati) a destra, risultano assai incerti sulla possibilità di trasformare stabilmente un partito “anti-sistema” in un alleato minore del partito considerato come il principale puntello del “sistema”. Nel caso dell’Emilia-Romagna la richiesta rivolta ai 5stelle è di annullarsi a difesa del sistema di potere PD, in nome, paradossalmente, della lotta al “populismo”.
Questa alleanza potrebbe essere favorita dalla convergenza nel sostegno alla Commissione UE della Von der Leyen, attorno alla quale si ritrova un ampio schieramento che va dai verdi, recuperati in seconda battuta dopo un iniziale voto contrario, alla destra “sovranista” di governo (polacchi di PiS e ungheresi di Orban). Ma l’identificazione eccessiva alle politiche e alle scelte dell’establishment di Bruxelles (e soprattutto del tandem franco-tedesco che resta al timone di una barca tanto ingombrante quanto di incerta destinazione), a partire dalla votazione sul MES, sul quale il PD è totalmente allineato, sancirebbe l’incapacità di modificare alcunché di significativo sulle scelte politiche di un alleanza a guida PD.
Nella tre giorni bolognese, il PD ha invitato esponenti di quella che viene identificata come “società civile”, presumibilmente sperando che da qui possa venire un supporto elettorale e forse anche di idee consistente. Qui emerge uno degli elementi più identificabili nella direzione Zingaretti (in un’abbondanza di concetti caratterizzati da scarsa concretezza) è il superamento dell’idea della disintermediazione, perseguita sia da Renzi che da Di Maio (ma non da Salvini, che infatti invitava le associazioni e i sindacati direttamente al Ministero degli Interni). Questo porta a ricostruire un rapporto con tutte le realtà organizzate economiche, del terzo settore e così via, con un riconoscimento però alla centralità dell’impresa. Simbolicamente, in un discorso dove ogni riferimento al conflitto socio-economico è accuratamente rimosso, per Zingaretti l’unica classe che viene identificata come tale è la “classe imprenditoriale”, mentre i lavoratori non hanno dignità di essere considerati soggetto collettivo. Ma finora gli apporti della “società civile” o del “civismo” (si veda Pizzarotti) non sembrano in grado di cambiare significativamente l’equazione, anche perché spesso sono espressione di quegli stessi strati sociali (l’upper class) che già sostengono il PD.
Due analisti dell’Istituto Cattaneo, esaminando il voto politico del 2018, registravano sconsolatamente che il PD “rischia di scontrarsi con la mancanza di interlocutori”[i]. Ora l’unico interlocutore elettoralmente di peso, i 5stelle, vengono accettati come possibili alleati solo in una funzione subalterna compatibile con la “vocazione maggioritaria” rivendicata dal PD ed anche con le politiche socio-economiche che lo caratterizzano (grandi opere, privatizzazioni, flessibilità del lavoro, allontanamento dell’età pensionabile, ecc.).
Questo ci porta al tema della prospettiva. Dopo una breve fase nella quale sembrava riemergere una ragionevole ipotesi proporzionalista, seppure stimolata più dalla paura di consegnare a Salvini un dominio totale sul Parlamento e su tutte le istituzioni che da un ragionamento critico sui danni prodotti dal maggioritario, i difensori di quest’ultimo hanno ripreso vigore (Prodi, Veltroni ecc.).
D’altra parte la raffigurazione del prossimo decennio che ci ha presentato Zingaretti a Bologna è quella dello scontro epocale fra “sovranisti illiberali” e sostenitori della “democrazia liberale”, ruolo quest’ultimo nel quale si colloca il PD. Una semplificazione dalla quale scaturisce la volontà di puntare ancora ad una qualche forma di maggioritario, anche per togliere spazio alla possibilità dei 5 stelle di costituire un terzo polo, bloccare l’eventualità del sorgere di una forza di sinistra antiliberista ed autonoma, togliere ossigeno alla strategia renziana.
Salvo la prospettiva di proseguire per tre anni col Governo Conte e di arrivare alle prossime elezioni con un patrimonio di risultati tale da capovolgere l’attuale orientamento degli elettori, non si vede al momento come la debole leadership del PD possa evitarci la prospettiva di una prevalenza delle destre, oltretutto rafforzata da un sistema maggioritario che ne amplificherebbe la rappresentanza parlamentare. Affidarsi al Conte bis sembra una speranza assai fragile in un quadro economico e internazionale privo di certezze e nel quale le contraddizioni innescate dal liberismo si acutizzano piuttosto che attenuarsi.
Il PD punta ancora al maggioritario per poter invocare il voto utile in funzione anti-Salvini (come prima in funzione anti-Berlusconi e per un momento più fugace in funzione anti-Grillo e magari domani in funzione anti-Meloni) quale rendita di posizione. Finora si è rivelato abbastanza forte da impedire un rinnovamento dell’offerta politica a sinistra tale da recepire le richieste di cambiamento che provengono, seppure in modo contradditorio, dai ceti popolari che non è più in grado di rappresentare, ma tropo debole e troppo inserito nell’establishment dominante in Italia e in Europa per riuscire a invertire il consolidarsi del consenso a destra e la sua radicalizzazione.
La polarizzazione creata dal maggioritario consente una rappresentazione del conflitto politico nel quale la contrapposizione viene estremizzata e semplificata da un lato (al punto che lo stesso Zingaretti nel suo discorso l’ha raffigurata come divisione tra le persone “morali”, quelle che stanno con lui, e le persone “non morali”, evidentemente tutti gli altri) ma anche mistificata, visto che poi si converge sull’adesione di fondo ad uno stesso modello di sviluppo economico fondato sul capitalismo liberista e finanziarizzato. Inoltre la maledizione del maggioritario sembra giocare oggi tutta a favore di Salvini e dei suoi alleati.
[i] Stefano Ronchi e Fulvio Venturino, “Il PD o dei costi del governare” in Istituto Carlo Cattaneo, Il vicolo cieco Le elezioni del 4 marzo 2018, Il Mulino, Bologna.