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La situazione delle guerre in corso e l’iniziativa “Cessate il fuoco – la parola alla diplomazia”

di Mario
Boffo

Sulla questione ucraina negli ultimi due anni è stato detto tutto. Gioverà comunque ricordare  l’evidente necessità di concludere una guerra inutile che ristagna da tempo senza risultati in un sanguinoso stallo, anche se sembra essere passata in secondo piano, nella generale attenzione, dopo l’insorgere della crisi di Gaza.

Per quanto riguarda il complesso scenario del Medio Oriente sembra invece potersi osservare che gli ultimi avvenimenti (aggressione di Hamas del 7 ottobre, feroce reazione israeliana, intervento degli Houti, con il corollario delle opposte azioni di guerra iraniane e americane in Iraq, Siria, Libano, Giordania) si articolino su due principali fattori: da una parte, la lunga e irrisolta questione palestinese e le modalità con le quali è stata gestita dai governi di Tel Aviv; dall’altra, il confronto per procura tra Stati Uniti e Iran, tra Iran e Arabia Saudita, tra Occidente, Cina e Russia. Il legame fra questi due fattori è rappresentato dalla circostanza che crisi locali, ciascuna fondata anche su logiche proprie, comportano o danno il pretesto per interventi armati esterni volti al controllo di aree o risorse strategiche; tali interventi alimentano e aggravano le crisi, per poi suscitare nuove azioni più o meno indirette o asimmetriche, in una spirale di violenza che se non riusciremo a fermare ci porterà alla catastrofe.

Sullo scenario si muovono attori non statuali che la semplificazione dell’approccio politico e della prevalente informazione si limitano a definire “terroristi”, anche se non si tratta di gruppi come Isis o Al Qaeda. Hezbollah è una milizia militare e politica agli ordini di Teheran; ma Hamas è un movimento che nasce come opposizione all’occupazione israeliana e che continuerà a proliferare, se non si giunge a una soluzione pacifica duratura in Palestina. Le milizie sciite presenti in Siria e in Iraq sono collegate in modo diretto alle politiche egemoniche iraniane; ma gli Houti vengono da lontano, appartengono formalmente all’universo sciita ma sono profondamente diversi dai duodecimani dell’Iran, hanno visioni proprie, governano un quarto del paese e nutrono autonome rivendicazioni radicate nella stessa storia interna dello Yemen. Certamente questi gruppi non sono esenti da velleitarismi ed estremismi. Si alleano all’Iran, e Teheran li utilizza a beneficio delle proprie politiche. Ma questo succede anche perché dissidi decennali non sono stati sufficientemente curati e non hanno trovato da parte della comunità internazionale il medesimo impegno di pace e stabilizzazione che talvolta la stessa comunità internazionale profonde nella guerra.

Tutti i conflitti in corso, pertanto, pur partendo da cause specifiche, sembrano associati nell’incuria con cui si sono lasciate degradare le gravi questioni aperte che ne sono alla base, piuttosto che impegnarsi per qualche soluzione. Segnatamente, sugli accordi di Minsk del 2014, sulla moderazione delle politiche israeliane più ingiuste e aggressive, sul sostegno allo Yemen successivo alla “primavera yemenita” del 2011, che pure aveva avuto momenti molto fruttuosi prima che fosse lasciato alla coalizione a guida saudita il compito, non riuscito, di imporre stabilità nel paese.

In estrema sintesi, stiamo assistendo, tra Europa e Medio Oriente, a tre guerre devastanti e pericolose, frutto di situazioni irrisolte e colpevolmente trascurate, nel loro inasprirsi, dalla comunità internazionale, o almeno da quella sua parte che avrebbe avuto il potere di guidarle verso il confronto cooperativo e diplomatico e che ha invece preferito perseguire ciecamente interessi propri ritenuti irrinunciabili e immodificabili. Così, dallo spirito di Helsinki siamo arrivati alla guerra guerreggiata in Europa, dalle speranze di Oslo siamo arrivati agli eccidi in Israele e a Gaza, nello Yemen e nel Mar Rosso vediamo aprirsi scenari preoccupanti che incidono sulla sicurezza e sull’economia globale.

Questi temi sono stati illustrati e dibattuti lo scorso 6 febbraio nel convegno Cessate il fuoco ora, a Gaza e in Ucraina! Prefigurare un percorso di pace oltre il cessate-il-fuoco: un mandato ONU per Gaza, tenuto presso la Biblioteca del Senato a cura del Gruppo “Cessate il fuoco – la parola alla diplomazia”, costituitosi mesi fa a opera di un gruppo di diplomatici a riposo e di politici di lungo corso. Il convegno faceva seguito a quelli analoghi del 30 giugno e del 5 ottobre dell’anno scorso, e all’iniziativa “Cessate il fuoco – la parola alla diplomazia”, a suo tempo dedicati alla guerra in Ucraina. La sopravvenuta crisi di Gaza induce ora i promotori ad ampliare su tutti conflitti la loro visione di cessazione dei combattimenti e di apertura a soluzioni diplomatiche che aprano la via a una pace duratura.

Visione che non attinge a uno stereotipo pacifismo di principio. Siamo tutti consapevoli che i problemi internazionali esistono, che esistono gli interessi geostrategici, e che spesso si tratta di interessi contrapposti. Inutile dire, ma è bene ribadire, che nessuno è animato da simpatie o antipatie verso alcuno dei contendenti sui vari scenari. Il cuore dell’iniziativa, e dei convegni che le sono succeduti, è molto semplice: la guerra non è il solo strumento per dirimere controversie e conflitti; esistono anche gli strumenti del dialogo e della diplomazia. Il fatto di non avervi fatto ricorso per decenni, cosa che avrebbe certo potuto prevenire l’insorgere di conflitti armati, ha fatto sì che temi e questioni da tempo note si siano incancrenite al punto da dare la stura, il pretesto, o l’occasione per la guerra.

Ciononostante, le guerre cui stiamo assistendo, pur limitandosi agli scenari sinteticamente delineati più sopra, non stanno apportando alcuna soluzione, per quanto drastica e brutale: Hamas è un movimento rigenerativo, non può essere sconfitto come si potrebbe ipotizzare nei confronti di un esercito regolare o di un’organizzazione terroristica; la guerra in Ucraina ristagna oramai da troppo tempo per poterci illudere che le armi portino a un pur violento cambiamento di scenario; e nello Yemen esistono situazioni radicate nella tormentata storia di un paese che ha conosciuto lunghe guerre civili, unioni e secessioni, guerriglie continue fino agli anni più recenti, una non riuscita transizione democratica, una guerra contro una potente coalizione sostenuta da molti paesi occidentali. Lasciate irrisolte per tanto tempo, e nell’interesse di alcuni, queste situazioni hanno fornito la base ideologica e politica delle potenze che nello scenario mediorientale si battono per procura.

Ora non è più tempo della semplice reiterazione di formule teoriche, come quella dei due stati in Palestina, quella del rientro della ribellione degli Houti tentata dall’Arabia Saudita, quella del recupero degli accordi di Minsk in Ucraina. Queste formule non sono da condannare, e potranno anche essere recuperate, in tutto o in parte; ma sono adesso superate dagli eventi e spazzate via dalla guerra. Non è nemmeno questione di ricercare soluzioni magiche o originali, impossibili del resto finché la diplomazia non scenda finalmente in campo. Sarà per questo necessaria una nuova consapevolezza e volontà delle potenze di affrontare le cose altrimenti che con la guerra, e di indurre i propri alleati non statuali a cessare a loro volta le azioni aggressive. Deposte le armi, e giusto per accennare solo a due esempi di grande importanza, una decisa azione onusiana a Gaza, e la convinta ripresa del negoziato per il nucleare iraniano, permetterebbero di costruire un perno attorno al quale far ruotare un gran numero di positivi progressi nell’intero scenario mediorientale.

Oggi, quindi, l’imperativo è quello di fermare i combattimenti, ovunque questi siano in corso, riflettere sugli errori commessi, riprendere malgrado tutto il complicato dialogo tra le varie controparti. È qualcosa che sarà sempre più difficile a mano a mano che andrà avanti la guerra, ma che deve essere avviato, e avviato ora. Rispondere con violenza e bombardamenti a violenza e aggressioni, può essere necessario; ma bisognerebbe farlo sapendo perché, cioè con una visione, auspicabilmente costruttiva, degli obiettivi che si intendano perseguire. L’impressione è invece che quello cui stiamo assistendo sia la guerra per la guerra, con l’irrealizzabile obiettivo di distruggere l’avversario; tema che avvicina sempre di più l’orribile ipotesi di superare il punto di non ritorno e di aprire scenari globali cui non vorremmo dover assistere.

La necessità del cessate il fuoco non è una mera questione morale, ma anche un’esigenza politica, perché solo in questo modo la diplomazia, che nulla può quando i governi non intendono utilizzarla, riesca finalmente a esplicare tutta la propria potenzialità al tacere delle armi. A questo principio i promotori dell’iniziativa “Cessate il fuoco – la parola alla diplomazia” informano il proprio sforzo di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e della classe politica. Allo stesso principio si sono ispirati, nei loro interventi, i numerosi oratori che si sono succeduti al podio del 6 febbraio. Un principio che dovrà spingersi a informare e coinvolgere l’opinione pubblica ai fini di mobilitazioni in grado di scuotere il torpore della politica e di suscitare presso le istituzioni italiane ed europee le iniziative necessarie ad arrestare la follia della guerra come fallace e pericolosa architrave del governo del mondo.

Mario Boffo

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