Le elezioni presidenziali del 18 giugno hanno avuto l’esito previsto con l’elezione del giurista conservatore Ebrahim Raisi. Ora, si apre una nuova fase in cui la fazione conservatrice del regime ha il controllo di tutte le principali leve istituzionali ed economiche del Paese. Se il pragmatico Rouhani guardava ad ovest (USA e Europa), ora si “Guarda ad Est” (Cina e Russia), mentre la fazione conservatrice si trova nelle condizioni ottimali per poter pilotare la successione della Guida Suprema Ali Kamenei nell’ambito della transizione tra prima e seconda generazione della rivoluzione islamica. Un’evoluzione per la quale l’Occidente deve “ringraziare” Donald Trump e la sua politica di “massima pressione”.
Le elezioni presidenziali del 18 giugno 2021
Il 18 giugno si sono svolte le elezioni presidenziali in Iran e il candidato dell’establishment conservatore, Ebrahim Raisi, ha vinto a mani basse, ma in un clima politico generale dominato dall’apatia. Raisi ha ottenuto 17,9 milioni di voti (62%), mentre gli altri tre candidati – Moshen Rezaei (sostenuto dai Guardiani della Rivoluzione), l’ex banchiere centrale Abdolasser Hemmati e il deputato ultraconservatore Amir Hossein Qazizadeh – hanno ottenuto rispettivamente 3,4 milioni di voti, 2,4 milioni e poco mono di un milione.
Circa 3,7 milioni di schede – pari al 12,8% dei voti espressi – sono state dichiarate nulle (bianche e voti di protesta). L’affluenza alle urne è stata del 48,8% (28,9 milioni su oltre 59 milioni), la più bassa di sempre nei 42 anni in cui l’Iran ha tenuto le elezioni presidenziali. L’affluenza nella capitale, Teheran, è stata di un misero 26%, e a Shiraz di poco più del 30%. Nella provincia di Teheran, l’affluenza è stata del 34% e il 12% dei voti espressi era nullo. L’affluenza nazionale nel 2017 è stata invece del 73,3% e nel 2013 del 72,9%.
Si è trattato di una vittoria fortemente voluta e pilotata da parte della fazione più conservatrice dello “Stato profondo” iraniano. Un’intricata rete di uomini religiosi, giuristi e miliziani non eletti e cooptati, strategicamente posizionati nelle strutture istituzionali, della sicurezza, dell’intelligence, delle fondazioni religiose e dell’economia. Uomini che esercitano un dominio ideologico e politico-istituzionale con l’obiettivo di preservare la natura, la visione e la sicurezza della Repubblica Islamica. Con la vittoria di Raisi, lo “Stato profondo” conservatore ha ora il controllo diretto di tutti e tre i rami del potere istituzionale elettivo – Presidenza, Parlamento e Consiglio degli Esperti – per la prima volta nei 42 anni di storia della Repubblica Islamica. Inoltre, può contare sulla benevolente regia della Guida Suprema Alì Khamenei, coadiuvato dal Consiglio dei Guardiani.
In vista delle elezioni presidenziali del 18 giugno, il 25 maggio, infatti, il Consiglio dei Guardiani, un organismo non eletto di 12 membri (metà dei quali chierici nominati dalla Guida Suprema e l’altra metà giuristi indirettamente scelti da lui) dominato dai conservatori, ha “scremato” le candidature e tutti i veri moderati e riformisti sono stati esclusi. E’ stato escluso anche Ali Larijani, conservatore pragmatico a lungo speaker del Parlamento e consigliere di Khamenei, (sembra) perché la figlia risiede negli Stati Uniti, pur essendo suo fratello Sadeq uno dei membri del Consiglio dei Guardiani. Anche il vicepresidente riformista, Ishaq Jahangiri, e l’ex vice ministro degli interni Mostafa Tajzadeh sono stati esclusi. Infine, tra gli esclusi anche il populista Mahmoud Ahmadinejad, presidente per due mandati.
Di 592 candidature il Consiglio dei Guardiani ne ha ammesse solo sette (tutte le 40 donne candidate sono state escluse), con Ebrahim Raisi (battuto da Hassan Rouhani nel 2017), che era dato come candidato favorito in quanto molto vicino alla Guida Suprema Khamenei: è nato nella stessa città, Mashhad, città santa per gli sciiti, è stato suo allievo e ha sposato la figlia dell’ayatollah ultraconservatore Alam al-Hoda, amico e consigliere di Khamanei. Cinque erano conservatori e ultraconservatori, mentre gli altri due erano un tecnocrate (l’ex banchiere centrale Abdolasser Hemmati) e l’altro un ex-viceministro (Mohsen Mehralizadeh) del governo riformista di Khatami. Tra l’altro, a pochi giorni dalle elezioni tre dei candidati si sono ritirati dalla competizione elettorale.
Raisi, 60 anni, esponente di mediazione tra la prima e la seconda generazione della Rivoluzione Islamica, viene indicato anche come potenziale successore della guida suprema Ayatollah Ali Khamenei, oggi 82enne. Anche Khamanei venne eletto presidente prima di essere scelto come Guida Suprema dal Consiglio degli Esperti.
Raisi non è un politico, è un magistrato, ha un ruolo religioso di secondo piano (non è ayatollah, è solo hojateslam). All’indomani della rivoluzione del ’79, a soli 20 anni, è già procuratore generale a Karaj, non lontano dalla capitale. Trascorre 30 anni in magistratura, scalandone le vette. Dal 1989 al 1994 è procuratore generale di Teheran, dopodiché procuratore generale della nazione. E’ stato nominato capo della magistratura da Khamenei nel 2019 (e come tale è stato responsabile delle candidature di diversi membri del Consiglio dei Guardiani poi approvate dal Parlamento), dopo essere stato dal 2016 capo della più ricca e influente fondazione religiosa dell’Iran, la Astan Qus Razavi, che gestisce il mausoleo dell’Imam Reza di Mashhad, nonché un immenso patrimonio industriale e immobiliare.
Raisi ha avuto il sostegno del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione, la potente istituzione che nel corso degli anni si è opposta alle iniziative riformiste, ha supervisionato la repressione delle proteste e ha utilizzato forze militari per procura per affermare l’influenza regionale dell’Iran. Raisi ha fatto parte del gruppo ristretto di religiosi che ha firmato le esecuzioni di migliaia di prigionieri politici (in gran parte marxisti e di sinistra) e combattenti iracheni nel 1988, durante la guerra tra Iran e Iraq per ordine (una fatwa, un decreto religioso) dell’allora guida suprema, l’Ayatollah Ruhollah Khomeini.1 Ha anche avuto un ruolo nella repressione del Movimento verde di opposizione che cercava di contrastare la rielezione dell’ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad nel 2009 e nella repressione delle manifestazioni di protesta dell’autunno 2019. Per il suo ruolo nelle esecuzioni è stato sanzionato sia dal governo degli Stati Uniti nel 2019 sia dalla UE.
Raisi si pone come il difensore dei mostazafin, i diseredati, le classi sociali più basse. Nel loro interesse ha promesso di combattere la corruzione, promettendo un potere forte e non corrotto, di aiutare i poveri e di costruire milioni di appartamenti per le famiglie a basso reddito. E’ probabile un giro di vite sui diritti civili, sulla libertà di stampa ed un controllo sui media ancora più stringente.
Con il sostegno dei più alti livelli dell’establishment religioso e militare iraniano, l’elezione di Raisi significa che tutte le istituzioni statali e le leve di potere dell’Iran saranno controllate dai sostenitori della linea dura. Ciò avviene dopo otto anni di presidenza del moderato e pragmatico Hassan Rouhani.
La struttura del potere nella Repubblica Islamica dell’Iran
E’ importante comprendere che nella Repubblica Islamica dell’Iran, il presidente è sì in carica, ma non al potere, perché a decidere l’orientamento generale – e soprattutto questioni importanti come la politica estera e il nucleare – è il Rahbar. Comandante in capo delle forze armate regolari, dei pasdaran e delle milizie paramilitari basij, è la Guida Suprema che esercita il potere in terra per conto del Mahadi, il messia atteso dagli sciiti. L’ayatollah Alì Khamanei (1939) ricopre questo ruolo dalla morte di Khomeini nel 1989, dopo essere stato prima presidente dal 1981. Ad eleggerlo sono stati gli 88 ayatollah del Consiglio degli Esperti, che sarà incaricato anche della sua successione, un organismo elettivo che rimane in carica per 8 anni.
Attualmente, l’orientamento ideologico del Consiglio degli Esperti è pienamente riconducibile nell’area più estrema del sistema politico dei conservatori. Un orientamento consolidatosi a partire dalla seconda metà del 2017, quando, alla morte di Ali Akhbar Rafsanjani – che aveva cercato di favorire l’uscita dal Consiglio degli esponenti più radicali di prima generazione – era stato in un certo qual modo ristabilito il tradizionale primato dei religiosi di prima generazione nell’orientamento dell’istituzione (ulteriormente rafforzato dalle elezioni ad interim del febbraio 2020).
Per far parte del Consiglio degli Esperti è richiesta una conoscenza approfondita delle leggi coraniche, certificata da diploma rilasciato dagli enti di formazione religiosa, e di sostenere con profitto un esame di giurisprudenza islamica presso il Consiglio dei Guardiani, che costituisce la principale barriera all’ingresso per i candidati al Consiglio, soprattutto in termini di selezione sul piano ideologico.
Il Consiglio degli Esperti è probabilmente l’istituzione meno nota, soprattutto all’estero, e spesso ritenuta di fatto poco significativa all’interno dell’architettura istituzionale iraniana. Al contrario, invece, riveste una significativa importanza politica per la legittimazione dell’intero sistema istituzionale iraniano e diventa un organo cruciale allorquando l’età o le condizioni di salute della Guida Suprema lascino presupporre una sua possibile imminente sostituzione.2
Dal punto di vista istituzionale gli altri organi sono il Parlamento, composto da 290 deputati eletti per 4 anni (parte in collegi uninominali e parte in collegi plurinominali) e il Consiglio dei Guardiani.
Il quadro politico è suddiviso genericamente in tre macro aree – riformismo, pragmatismo e conservatorismo – all’interno delle quali sono presenti correnti di diversa natura e posizioni spesso anche in aperto contrasto tra loro.
L’area riformista è quella idealmente legata all’esperienza politica dell’ex presidente Mohammad Khatami (dal 1997 al 2005), caratterizzata da una politica di forte apertura sociale e di distensione sul piano delle relazioni internazionali, ma anche improntata al liberismo economico e al contrasto al potere delle Fondazioni e del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica nell’economia. Caratteristica, quest’ultima, che ha posto il movimento riformista in netto e assoluto contrasto con le componenti dell’area conservatrice più coinvolte nelle questioni economiche e industriali del Paese, determinando una frattura insanabile che ha portato nel 2005 all’elezione del presidente Mahmood Ahmadinejad.
Il fronte dei conservatori iraniani, spesso chiamati anche “principalisti” o “usulgaran”, rappresenta un vasto quanto eterogeneo insieme che raccoglie al suo interno dalle espressioni ideologiche centriste a quelle più conservatrici e radicali, dando vita ad un vasto, eterogeneo e spesso conflittuale consesso ideologico. Le posizioni più comunemente ascrivibili all’insieme dei conservatori sono quelle di difesa dell’indipendenza e dell’autonomia iraniana sotto il profilo delle relazioni internazionali, del rispetto dei costumi e delle tradizioni religiose sul piano sociale (sebbene con ampi margini di divergenza tra le diverse fazioni) e della difesa delle prerogative economiche dello Stato e delle strutture che al suo interno le gestiscono.
All’interno di questo schieramento politico esistono profonde divergenze, in modo particolare tra gli esponenti di prima e seconda generazione, che sfociano di frequente in contrasti anche di ampia portata sul piano del dibattito parlamentare. Il termine “ultra-conservatori”, con il quale sovente si definiscono all’estero le frange più estreme del conservatorismo, assume un significato molto diverso all’interno del complesso insieme ideologico iraniano, riferendosi spesso da una parte alle posizioni ideologico-religiose di prima generazione e al tempo stesso a quelle di politica economica della seconda generazione.
La narrativa antisionista è parte integrante della più ampia sfera comunicativa delle fazioni conservatrici che, pur in modo diverso tra loro, hanno sempre utilizzato la leva dell’opposizione al ruolo di Israele e la retorica dell’oppressione palestinese come strumenti identificativi del carattere rivoluzionario della Repubblica Islamica. Si tratta di una narrativa consapevolmente pensata per provocare il biasimo internazionale, elemento cardine di quelle politiche isolazioniste che dal 1979 hanno periodicamente caratterizzato la strategia politica delle frange più estreme, nel tentativo di salvare il regime dalla “corruzione ideologica” esterna attraverso processi di isolamento provocati da atti intenzionalmente pianificati (occupazione dell’ambasciata statunitense, conferenza sull’Olocausto, etc.). Il ricorso alla narrativa e alla retorica dell’antisionismo è quindi sempre espressione di una chiara linea politica finalizzata a ristabilire il predominio dei valori rivoluzionari e le prerogative delle componenti fondamentaliste, e ad impedire di scendere a patti con gli Stati Uniti e, di conseguenza, al tentativo di stravolgere i pilastri ideologici ed istituzionali che rappresentano il cardine della tenuta degli interessi della prima e della seconda generazione del regime.
I pragmatici, infine, sono gli esponenti politici di quel processo politico idealmente riconducibile al defunto ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, che a partire dai primi anni ‘90 cercò di favorire l’avvio di una fase politica che superasse i rigori del primo decennio della Repubblica Islamica e transitasse l’Iran verso la fase post-bellica, attraverso una politica di apertura sul piano economico, di “pragmatiche” relazioni internazionali e di moderata tolleranza su quello sociale. Erede del pragmatismo è il neo-pragmatismo, nell’ambito del quale si colloca l’attuale presidente Hassan Rouhani, che negli anni del suo governo ha proposto un modello politico di sintesi tra il riformismo e il conservatorismo, costruito sullo sviluppo economico quale elemento di trasformazione della società iraniana, nell’ambito di forti aperture sul piano della politica internazionale.
La vera lotta di potere tra moderati, conservatori e pragmatici si è consumata negli ultimi anni e si consumerà nei prossimi intorno alla successione dell’anziano e malato Khamenei. Dopo il 2013 e fino alle elezioni parlamentari del febbraio 2020, le fazioni moderate e pragmatiche del regime hanno goduto di uno certo spazio politico di manovra, mentre ora si è decisamente aperta una fase che sarà dominata dalla fazione più conservatrice che controlla Presidenza, Parlamento, Consiglio degli Esperti e Consiglio dei Guardiani. I moderati e pragmatici avevano giocato la carta di un accordo con l’Europa e il nemico storico del regime, gli Stati Uniti. Non avevano previsto, però, che Donald Trump potesse diventare presidente degli USA e che avrebbe distrutto l’accordo faticosamente raggiunto con Barak Obama.
L’accordo Joint Comprehensive Plan of Action
Nel luglio 2015, dopo anni di trattative, è stato siglato l’accordo sulla non proliferazione nucleare iraniana, il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), che aveva posto fine ad un decennio di embargo internazionale nei confronti dell’Iran. Un accordo multilaterale che era stato uno dei grandi successi internazionali dell’amministrazione Obama (insieme al ristabilimento delle relazioni diplomatiche con Cuba) e della sua politica del “leading from behind”. Firmato nel luglio 2015 oltre che da USA – riconosciuto da Obama con un atto esecutivo presidenziale, ma mai ratificato dal Congresso – e Iran, anche da Russia, Cina, Germania, Gran Bretagna, Francia e poi ratificato all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU con la risoluzione 2231, che aveva consentito la sospensione delle sanzioni multilateriali adottate dall’ONU con la risoluzione 1929 nel 2010 e di una parte di quelle secondarie degli USA: solo quelle decise per punire il programma nucleare, ma non quelle applicate dal 1979 dopo la presa dei 52 ostaggi nell’ambasciata USA di Teheran o quelle legate allo sviluppo dei missili e al sostegno che l’Iran fornisce a gruppi armati come Hezbollah e Houthi.
Un accordo voluto dall’amministrazione Obama, ma anche da alcuni dei principali Paesi dell’Unione Europea alla ricerca nel 2015 della collaborazione con l’Iran per battere l’ISIS, allora ancora in una fase ascendente nel territorio tra Iraq e Siria.3 L’approccio europeo all’Iran è sempre stato caratterizzato da un certo pragmatismo. Contrariamente alla politica statunitense di isolamento e contenimento, i grandi Paesi dell’Unione Europea hanno sostenuto l’impegno sin dall’inizio dell’era della ricostruzione dell’Iran nel 1989. Anche con alti e bassi, l’UE ha cercato di mantenere aperto il dialogo con l’Iran, sotto forma di “dialogo critico” o di “dialogo complessivo”. Pertanto, l’UE e l’Iran hanno sempre mantenuto una discussione costruttiva su temi come i diritti umani, il terrorismo, la proliferazione nucleare e il traffico di droga, oltre a un’importante cooperazione economica. Ma, è sul dossier nucleare che l’Ue ha mostrato appieno il suo ruolo di piattaforma per la diplomazia e per trovare un terreno comune su temi controversi. In particolare, è stato l’E3 – Francia, Germania e Regno Unito – che si è assicurato il sostegno dei loro colleghi partner dell’UE, ha superato la resistenza degli USA a farsi coinvolgere con l’Iran e ha creato un terreno comune con Russia e Cina. Per questi motivi il JCPOA firmato nel luglio 2015 era stato uno dei maggiori successi di politica estera dell’Unione Europea.
In Iran, l’operazione JCPOA è stata gestita dalla Guida Suprema Alì Khamanei e dai moderati, pragmatisti e riformisti arrivati al governo con l’elezione del presidente Hassan Rouhani nel 2013. L’accordo è stato subito dai cosiddetti “falchi”, da sempre sospettosi degli USA e dell’Occidente, rappresentati dai religiosi più conservatori, da Qassem Soleimani, generale della forza Quds (Gerusalemme, un reparto d’élite per le operazioni all’estero), eroe di guerra e vero architetto della di sicuerezza e politica estera dell’Iran in Medio Oriente, e dalle milizie religiose dei pasdaran del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica. Forze che insieme controllano le principali leve dell’economia, dalle banche alle industrie, attraverso delle fondazioni religiose (un sistema per cui il 70% del bilancio pubblico sfugge al controllo del governo).
L’accordo prevedeva, oltre all’alleggerimento della sanzioni, anche la progressiva liberazione di oltre 100 miliardi di dollari di beni iraniani sequestrati o congelati negli anni. Rouhani e i moderati avevano concluso l’accordo nucleare perché interessati al dialogo con l’Occidente e, soprattutto, agli investimenti produttivi e alle tecnologie delle grandi imprese dei Paesi europei – Francia, Germania e Italia -, ma anche di Corea del Sud e Cina, necessari per far ripartire l’economia e l’occupazione. In Iran, ogni anno si dovrebbero creare 900 mila posti di lavoro solo per non far aumentare il tasso di disoccupazione e quindi contenere il crescente disagio sociale di ampi settori della popolazione (almeno 30 milioni di persone vivevano sotto la soglia della povertà nel 2015) reso evidente da manifestazioni di protesta contro l’austerità, il carovita, il taglio dei sussidi, la corruzione, l’inflazione e la disoccupazione giovanile (al 30%) in un Paese con un’età media di 29 anni, dove il 42% ha meno di 25 anni e il 70% ha meno di 40 anni (per cui non ha ricordi diretti della Rivoluzione del 1979 e tende a chiedere nuovi diritti e nuove libertà). Inoltre, la riammissione dell’Iran nel mercato finanziario internazionale, insieme con il controllo sulla “mezzaluna sciita” – comprendente Iraq, Siria e Libano -, avrebbe potuto consentire di realizzare infrastrutture (strade, ferrovie, etc.), ma anche un gasdotto per trasportare fino alle coste libanesi sul Mediterraneo e da qui in Europa il gas del più grande giacimento scoperto sino ad oggi, il North Dome/South Pars del Golfo Persico che gli iraniani hanno in condominio amichevole col Qatar.4
L’uscita di Trump dal JPCOA e il potere delle sanzioni del governo USA
Donald Trump è stato eletto presidente degli Stati Uniti nel novembre del 2016. In campagna elettorale Trump aveva promesso di annullare l’accordo JCPOA che lui considerava “pessimo e imbarazzante”. Dal suo insediamento, nel gennaio 2017, Trump non ha perso occasione per attaccare l’accordo e le autorità iraniane, fino ad arrivare alla decisione di uscire dall’accordo nel maggio 2018 e di imporre vecchie e nuove sanzioni all’Iran, a singoli individui ed entità iraniane. Una decisione unilaterale che è stata uno dei maggiori colpi assestati agli interessi e all’immagine della UE.
Trump e i suoi uomini della politica estera – Jared Kushner, John Bolton e Mike Pompeo – hanno affrontato i temi della “questione mediorentale” con un realismo che assomigliava molto alla “dottrina Nixon”, la strategia seguita da Richard Nixon e Henry Kissinger alla fine degli anni ’60 e all’inizio degli anni ’70 che mirava a ridurre gli impegni degli Stati Uniti all’estero e che portò l’amministrazione americana a puntare sullo Shah Mohammad Reza Palhavi in Iran (rimesso sul trono nel 1953 con un colpo di Stato orchestrato dai servizi segreti anglo-americani contro il governo democratico di Mohammed Mosaddeq che aveva nazionalizzato l’industria petrolifera iraniana controllata dai britannici) e sulla monarchia saudita. Ancora all’inizio del 1978 il presidente Carter si congratulò con il governo iraniano, guidato in modo autocratico dallo Shah, per il suo ruolo di isola di stabilità nella regione. Una strategia che ha prodotto, da un lato, la rivoluzione iraniana degli ayatollah (“segno di Dio”), il clero sciita iraniano organizzato e politicamente attivo, che si batteva contro il “Grande Satana” americano e che ha dato vita ad una teocrazia populista e al secondo shock energetico fra il 1979 e il 1980 (con il prezzo del petrolio passato da 15 a 30 dollari al barile5), e, dall’altro, il wahhabismo sunnita, una versione del fondamentalismo musulmano che ha ispirato gli attentatori dell’11 settembre 2001. La caduta dello Shah, a seguito della rivoluzione iraniana nel 1978-79, aveva dimostrato che dei militanti mossi da credenze religiose (Islam politico) potevano abbattere un potente regime autoritario, sostenuto dalla più grande potenza occidentale. Tutte queste evoluzioni politico-culturali hanno anche alimentato una contrapposizione violenta interna al mondo musulmano tra sunniti e sciiti6 e si sono intrecciate con il più ampio “scontro di civiltà” tra mondo occidentale e la parte più tradizionalista, fondamentalista ed integralista del mondo musulmano.7
Trump ha cercato di ritirare le forze militari americane dal Medio Oriente senza dover affrontare delle conseguenze avverse, affidando ad Israele, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti la responsabilità di condurre i giochi e di creare un nuovo ordine regionale più stabile. Per questo ha anche autorizzato vendite miliardarie di armamenti americani ad Arabia Saudita e Emirati.8 Nell’agosto 2020 ha annunciato la conclusione di un accordo “storico” – il cosiddetto Patto di Abramo – a triplice firma, USA, Israele e Emirati Arabi Uniti, per normalizzare i rapporti tra Israele e UAE (dove vivono e lavorano circa 300 mila palestinesi), un accordo che prevede relazioni diplomatiche, economiche, e cooperazione scientifica e commerciale. Dopo poche settimane Trump ha potuto annunciare anche la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e Baharain, Sudan e Marocco.
In particolare, Trump ha cercato di subappaltare il contenimento dell’Iran a Israele nel Levante e ad Arabia Saudita e EAU nel Golfo Persico. Questi Paesi hanno goduto di un ampio margine di manovra per eseguire questo mandato. In questo modo si spiegano gli investimenti esteri e gli aiuti bilaterali degli Emirati a otto Paesi, tra cui Egitto, Pakistan ed Etiopia, che hanno totalizzato almeno 87,6 miliardi di dollari tra il 2011 e il 2019, secondo l’American Enterprise Institute, che ha analizzato i dati pubblici disponibili. Dopo la rottura politica, Emirati e Arabia Saudita hanno sostituito il Qatar nel ruolo di principali sostenitori dell’Eritrea e degli altri Paesi del Corno d’Africa. Inoltre, Mohammed bin Zayef (MBZ), il principe ereditario e comandante delle forze armate, l’uomo forte degli Emirati, considera l’Iran come la principale minaccia per il suo Paese e ritiene – come Benjamin Netanyahu – che gli Stati del Golfo e Israele condividano un nemico comune: l’Iran. Temono la “minaccia vitale” esercitata dall’Iran in termini di un’espansione politico-militare e culturale configurabile in un vero e proprio accerchiamento: a nord, attraverso la direttrice che porta da Teheran al Mediterraneo attraverso Iraq, Siria, e Libano; a est attraverso quella sorta di tenaglia formata dallo stretto di Hormuz (Golfo Persico) da un lato e da quello di Bab al-Mandeb (Golfo di Aden-Mar Rosso) dall’altro.
Dei tre corridoi marittimi del Medio Oriente – il Canale di Suez, lo stretto di Hormuz e quello di Bab al-Mandeb (tra Mar Rosso e Oceano Indiano) – gli egiziani (sostenuti dagli emiratini e dai sauditi) e gli iraniani ne controllano uno ciascuno. Gli Emirati, insieme all’Arabia Saudita, vogliono controllare il terzo.
La competizione tra il cosiddetto “quartetto arabo” – costituito da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Bahrain (e, in aggiunta, da Israele in funzione anti-iraniana) – e l’asse Qatar-Turchia e l’Iran, ha portato ad un’iniezione impressionante di capitali e investimenti, civili e militari nella regione del Corno d’Africa, da parte dei Paesi mediorientali (circa 13 miliardi di dollari tra il 2000 e il 2017 secondo uno studio del Clingendael Institute), principalmente in Etiopia e Sudan, nei settori agricolo, manifatturiero e delle costruzioni, anche nel tentativo di espandere le proprie strutture economiche al di là dei settori del petrolio e del gas. Gli investimenti portuali da parte degli EAU a Berbera (Somaliland), Doraleh (Gibuti), Bosaso (Puntland, Somalia) e Assab (Eritrea); la costruzione di avamposti militari sauditi e turchi a Gibuti, in Eritrea e Somalia; il riorientamento diplomatico di Eritrea, Gibuti e Sudan – dietro promesse di ingenti aiuti allo sviluppo e militari – in favore di una posizione pro-saudita; il ruolo di mediazione di Arabia Saudita ed EAU nell’accordo di pace tra Eritrea ed Etiopia dopo 20 anni di “guerra fredda”; l’impegno arabo nella protezione dei flussi commerciali ed energetici marittimi nel Mar Rosso e nell’Oceano Indiano occidentale; i progetti di land grabbing delle monarchie del Golfo per assicurarsi la sicurezza alimentare sempre in Etiopia e Sudan (gli animali vivi sono una delle esportazioni più importanti del Sudan, per un valore di circa 500 milioni dollari nel 2018 e l’Arabia Saudita acquista dal Sudan più del 70% del bestiame che consuma), sono tutti elementi che fanno parte di una strategia mirata sia a espandere e/o consolidare la loro influenza sia a portare avanti la strategia araba di contenimento all’Iran, nel quadro delle crescenti rivalità tra conservatori (il “quartetto arabo”) e Islam politico moderato (l’asse Turchia-Qatar).
Ma, la strategia del “subappalto” di Tump è andata a sbattere contro diversi clamorosi insuccessi: le tragiche guerre non vinte in Yemen e Siria, il brutale omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, il declino politico di Benjamin Netanyahu, la capacità di resistenza del regime iraniano alla politica di “massima pressione”. Insuccessi e delusioni che hanno spinto molti osservatori a concludere che, in realtà, nel Medio Oriente l’amministrazione Trump, oltre alla coercizione della forza bruta, non abbia avuto una vera strategia, intesa come un insieme di obiettivi chiari, combinato con un piano d’azione coerente per raggiungerli che tenesse conto delle reazioni previste degli altri.
Il mondo di Trump era una lotta di tutti contro tutti in cui non c’era alcuno spazio per relazioni basate su valori liberal-democratici comuni, ma solo per transazioni determinate dai rapporti di forza e di potere (mors tua vita mea). Era un modo di gestire il mondo che si basava su un impegno militare insostenibile (anche perché comportava l’aumento del debito federale, la crescita stagnante del reddito e il degrado delle infrastrutture interne), oltre che a scherzare costantemente con quel fuoco unilateralista e nazionalista che nel secolo scorso ha portato a due guerre mondiali. Trump ha rifiutato di lavorare attraverso le organizzazioni multilaterali con gli alleati su questioni come il cambiamento climatico, la risposta alla pandemia e le pressioni politiche da imporre ad Iran, Nord Corea, Russia e Cina.
Macron si era assunto l’onere di cercare di salvare l’accordo proponendo a Trump e agli iraniani di lavorare ad un accordo complementare che affrontasse altri “tre pilastri”: il divieto per l’Iran di riprendere il programma nucleare anche dopo il 2025; il controllo dei programmi balistici; il contenimento dell’influenza militare iraniana in Yemen, Libano, Iraq, Gaza e Siria. Ma, l’8 maggio 2018 Trump ha ripudiato unilateralmente il JCPOA, il che ha significato che le sanzioni nucleari degli Stati Uniti – incluse le sanzioni secondarie riguardo a terzi che fanno affari o acquistano petrolio dall’Iran – sono tornate in vigore, riaprendo una nuova stagione di forti tensioni e conflitti che hanno investito l’intero Medio Oriente negli ultimi tre anni.
Solo otto Paesi – Italia, Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Grecia, Turchia, Taiwan – sono stati temporaneamente esentati dall’embargo petrolifero (fino al 2 maggio 2019). Colpendo il settore chiave petrolifero (che esportava 1,5 milioni di barili al giorno), facendo crollare le rendite petrolifere, le sanzioni americane miravano a colpire la principale fonte di valuta estera pregiata per il Paese, facendo crollare il valore del riyal e impennare i prezzi, in un Paese in cui la siccità che colpisce la regione da più di 10 anni ha creato una dipendenza dalle importazioni per coprire la domanda di prodotti alimentari.9
I tagli alle esportazioni iraniane si sono aggiunti al precedente embargo da parte di Washington del greggio venezuelano e intoppi nella produzione in Angola, un altro grande produttore di greggio denso/pesante che serve per realizzare i migliori prodotti raffinati come il carburante per aerei. Trump ha affermato che l’offerta mondiale globale di petrolio sarebbe rimasta abbondante nonostante le sue sanzioni, anche grazie al boom dello shale oil negli Stati Uniti, ma gran parte della maggiore offerta, guidata da Stati Uniti, Arabia Saudita e Russia, era per il petrolio più leggero, per cui i prezzi del petrolio pesante sono comunque saliti di molto nei mesi successivi.
Le leggi americane permettono di imporre la politica americana agli altri Stati attraverso l’imposizione di sanzioni e vietando alle loro aziende di accedere al mercato americano se osano fare affari con i Paesi che gli Stati Uniti decidono di boicottare. 10 Nel 2014, ad esempio, l’amministrazione Obama ha multato BNP Paribas per 8,9 miliardi di dollari per aver violato le sanzioni contro Cuba, Iran e Sudan. Anche il gruppo UniCredit è stato sanzionato per 1,2 miliardi di euro dalle autorità americane nel 2019 per aver effettuato transazioni con Myanmar, Cuba, Iran, Libia, Sudan e Siria. Nel 2018 l’amministrazione Trump ha prima colpito ZTE (“perdonata” da Trump dopo il pagamento di una multa miliardaria), poi Huawei (con l’arresto in Canada su mandato USA di Meng Wanzhou, CFO dell’azienda e figlia del fondatore) per la violazione dell’embargo contro l’Iran durante le amministrazioni Bush e Obama. Tra l’altro, Huawei è stata colpita dal National Defense Authorization Act del 2018 che non solo limita l’azienda nelle forniture a clienti americani, ma la priva anche delle opportunità di servire clienti al di fuori degli Stati Uniti poiché la legge impedisce alle agenzie governative americane di stipulare contratti o concedere sovvenzioni o prestiti a terzi che acquistano apparecchiature e servizi Huawei. Questo allarga molto l’impatto dell’embargo fino a configurarne un’applicazione extra-territoriale. Anche aziende non americane possono finire in una lista nera e perdere accesso alle commesse federali USA, se hanno a che fare con Huawei.
Proprio l’applicazione extra-territoriale è la nuova forma di guerra finanziaria che utilizza il Tesoro americano, altrettanto micidiale di una guerra guerreggiata, se non di più. Un metodo che si è sviluppato sulla scia dell’11 Settembre e da allora è stato perfezionato come un’arma di guerra devastante – indirizzata principalmente contro tutti quei Paesi che l’amministrazione USA considera i suoi nemici strategici: Russia, Iran, Venezuela, Corea del Nord, Cuba e Cina -, usando il fatto che, nell’attuale globalizzazione economica, il mondo dipende ancora in misura schiacciante dal dollaro americano per il commercio, il credito e le riserve valutarie delle banche centrali.
Di fatto, il JCPOA non è mai veramente decollato, perché gli USA non lo hanno mai veramente rispettato. Hanno continuato ad applicare alcune sanzioni secondarie nei confronti delle banche europee e occidentali che erogavano crediti all’Iran, rendendo assai difficile l’afflusso di capitali ed investimenti. Comunque, l’uscita degli USA ha avuto un impatto immediato sulle decisioni delle aziende di tutto il mondo, a cominciare da quelle dei Paesi europei “alleati” degli USA, costringendole a scegliere tra lo svolgimento della propria attività in Iran o negli Stati Uniti.
Mike Pompeo, il segretario di Stato di Trump, ha ammonito fin troppo chiaramente: “il regime di sanzioni attualmente in vigore è molto chiaro su quali siano i requisiti“. Ha formulato una lista di 12 richieste non realistiche, come prerequisiti per qualsiasi “nuovo accordo” che l’amministrazione americana sarebbe stata “pronta, disponibile e capace di negoziare” con l’Iran, e ha promesso che gli Stati Uniti avrebbero applicato “pressioni finanziarie senza precedenti” attraverso “le più severe sanzioni della storia” se l’Iran non avesse fermato i suoi programmi nucleari e di armamenti e la sua ingerenza regionale. Richard Grenell, un attivista della destra del partito repubblicano nominato ambasciatore americano in Germania (e, successivamente, direttore ad interim dell’intelligence nazionale), ha minacciato in un tweet: “Le aziende tedesche che fanno affari in Iran devono chiudere le operazioni immediatamente!” (successivamente alcuni politici tedeschi hanno chiesto che venisse espulso dal Paese per aver detto in un’intervista alla rivista online Breitbart London di voler “dare forza” alle forze populiste conservatrici in tutta Europa).
Dall’annuncio del ripudio del JCPOA da parte di Trump, la quasi totalità delle imprese internazionali che avevano investito in Iran hanno abbandonato il Paese nel giro di pochi mesi. Come, ad esempio, la compagnia petrolifera francese Total, che dipendeva per oltre il 90% del proprio finanziamento dalle banche americane, mentre gli azionisti americani detenevano oltre il 30% delle sue azioni, ha affermato che non poteva “permettersi di essere esposta ad alcuna sanzione secondaria“. Così, Total ha abbandonato un progetto petrolifero da 5 miliardi di dollari, mentre l’Iran si è invece affidato a sviluppatori russi e cinesi e alle società di ingegneria del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica.
In Iran sono visibilmente peggiorate le condizioni economiche e il potere di acquisto legato al crollo verticale della valuta, il riyal, che ha subito in pochi mesi una svalutazione del 60%, attribuibile in larga parte all’effetto sfiducia creato dal rientro in vigore delle sanzioni. Anche i commercianti del Grand Bazar di Teheran, uno dei pilastri del regime, hanno protestato (25 giugno 2018) contro l’aumento dei prezzi, l’abbassamento del valore della valuta, il controllo dei cambi e il blocco delle importazioni di 1.360 categorie merceologiche deciso dal governo iraniano con un decreto del ministero del Commercio (23 giugno).
Una delle prime vittime del nuovo corso è stato l’Iran Luxury Mall, uno dei più grandi al mondo, due volte e mezzo quello di Dubai, costruito dal magnate iraniano Ali Ansari ai piedi delle montagne nella periferia nord-ovest di Teheran con tre anni di lavori (10 mila operai e 450 imprese locali) e più di tre miliardi di dollari di investimento (2 milioni di metri quadrati di spazi su quattro piani, 500 mila dedicati agli acquisti, più cinema, hotel a 5 stelle, pista di pattinaggio, fontane, un parcheggio per 20 mila auto, parchi divertimenti, caffé e ristoranti, auditorium e arene per gli spettacoli). Il mall era pronto per l’inaugurazione del settembre 2018, ma la maggior parte degli 800 negozi era destinato ad avere gli scaffali vuoti dato che il blocco delle importazioni ha compreso anche i prodotti che erano già stati ordinati a grandi marchi internazionali (da Trussardi a Sergio Rossi, da Iceberg a Missoni, da Etro a Coccinelle) per un valore di circa 30 milioni di euro.
Secondo i dati del FMI da una crescita di +3% nel 2017 l’Iran è passato nel 2018 ad una contrazione dell’’1,2% che ha raggiunto il 3,9% nel 2019, mentre prima delle sanzioni le proiezioni del FMI davano per il 2019 una crescita del 4%. La produzione di petrolio è diminuita di 1,2 milioni di barili al giorno. L’inflazione è arrivata al 37%, con i prezzi dei generi alimentari saliti del 40% e quelli delle medicine del 60%.
Rouhani e il suo governo hanno alzato il budget di spesa del 16%, incrementando i programmi di sostegno alla popolazione, aumentando gli stipendi dei dipendenti pubblici e vendendo valuta pregiata alle imprese ad un tasso di cambio inferiore a quello di mercato. Ma, le sanzioni hanno avuto l’effetto di accelerare il processo di impoverimento che va avanti dagli inizi degli anni 2000 e che riguarda non solo i ceti più popolari, ma anche le classi medie. Non a caso le richieste di apertura politica e di democratizzazione avanzata dalle classi medie – che nel 2009 erano arrivate a mettere in discussione la teocrazia islamica nella versione sciita – sono state sopraffatte dalle rivendicazioni di giustizia sociale, contro il caro vita e la corruzione, delle classi popolari più impoverite (i “diseredati” che nelle elezioni del 2005 e 2009 avevano fatto vincere il populista Mohamoud Ahmadinejad).
La mancanza di una reale autonomia dell’Europa dagli USA
La decisione unilaterale di Trump di ripudiare il JCPOA era equivalente ad una dichiarazione di guerra all’Iran e ha provocato le reazioni positive dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti e di Israele, ma anche le proteste di europei, cinesi, russi e del segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, che ritenevano che l’accordo avesse i suoi difetti, ma servisse ad impedire eventuali tentazioni nucleari dell’Iran. Le verifiche dell’AIEA sono state le più stringenti mai attuate e hanno sempre confermato che l’Iran ha rispettato l’intesa (almeno per un anno dopo la decisione di Trump). Senza l’accordo, invece, l’Iran sarebbe stato – come è poi successo dal 2019 – semplicemente libero di reinstallare alcune delle migliaia di centrifughe che aveva smantellato, espandere gradualmente le scorte di uranio arricchito, riprendere senza vincoli la ricerca e lo sviluppo nucleare e ricominciare la costruzione di un reattore ad acqua pesante in grado di produrre plutonio per uso militare. Tutto ciò in assenza delle telecamere e delle ispezioni internazionali previste nell’accordo.
A breve termine la decisione di Trump ha distrutto la benevolenza reciproca e minato l’opinione filo-occidentale iraniana. Ha dato maggiore potere agli estremisti e, almeno in parte, ha contribuito a scatenare una crisi dei prezzi del petrolio. Ha aumentato il rischio di conflitti centrati su Siria e Israele, sollevato lo spettro di una corsa agli armamenti nucleari regionali e danneggiato l’alleanza occidentale a vantaggio di Russia e Cina (il maggiore acquirente del petrolio iraniano con circa 650 mila barili al giorno, ovvero il 7% delle importazioni totali di greggio in Cina nel 2018, che ha grandi banche statali che operano al di fuori del sistema finanziario americano).
Rouhani e i moderati – sostenuti da Unione Europea, Francia, Gran Bretagna, Germania, Russia e Cina – avevano affermato di non voler abbandonare l’accordo se gli europei avessero trovato delle soluzioni tecnico-politiche praticabili che consentivano di proteggere le imprese che avevano investito (come Total, BP, Royal Dutch Shell, Renault, PSA, Volkswagen, Alstom, Airbus, Siemens, Sanofi, Danone, Allianz, Vodafone, Moller-Maersk, etc.) o avevano intenzione di investire in Iran, da eventuali sanzioni americane. Ad esempio, attraverso la creazione di un “veicolo per scopi speciali” (SPV) progettato per facilitare i pagamenti relativi alle esportazioni dell’Iran – incluso il petrolio – e alle importazioni legittime o l’estensione del Blocking Statute introdotto nel 1996 in risposta all’embargo commerciale statunitense contro Cuba e alle sanzioni contro Iran e Libia (ma mai messo in atto dal momento che i disaccordi transatlantici sono stati risolti politicamente), che vieta ad aziende e tribunali dell’UE di rispettare le leggi sulle sanzioni straniere senza il permesso della Commissione Europea e stabilisce che nessuna sentenza giudiziaria straniera basata su queste leggi abbia alcun effetto nell’UE, mentre consente alle imprese di recuperare i danni dovuti ad eventuali sanzioni americane.
Dopo mesi di discussioni e trattative è nato l’INSTEX (Instrument in Support of Trade Exchanges), lo SPV che è stato registrato in Francia, presso il Ministero delle Finanze, viene gestito da un banchiere tedesco, Per Fischer, è stato avviato con capitale inglese e dovrebbe avere il ruolo di camera di compensazione: dovrebbe fare sì che un esportatore europeo verso l’Iran venga pagato da un importatore europeo di prodotti iraniani. Nella fase iniziale, avrebbe dovuto consentire il commercio solo in articoli umanitari, compresi cibo, medicine e dispositivi medici. La speranza era che il SPV potesse essere utilizzato da più Stati membri dell’UE (ma anche da Russia e Cina) e che potesse eventualmente espandere il proprio commercio ad altre merci, come prodotti energetici e beni industriali. In effetti, i governi di Belgio, Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia hanno deciso di aderire come azionisti.
Inoltre, si era ipotizzato che la Banca degli Investimenti Europei avrebbe potuto fornire garanzie e fondi, favorendo le transazioni in euro. In sostanza, l’Unione Europea ha ipotizzato – come auspicato dal ministro tedesco degli Esteri Maas, da quello francese delle Finanze Le Maire e dal Presidente della Commissione Junker – di creare un sistema finanziario basato sull’euro, che fosse indipendente dal dollaro negli scambi internazionali, in modo da poter mantenere aperte le relazioni bancarie con l’Iran.
Questo anche se gli europei hanno protestato per il lancio iraniano di missili balistici a corto raggio in Siria il 30 settembre 2018, test missilistici e un lancio satellitare a gennaio 2019, oltre che per degli omicidi che si presume siano stati compiuti dall’Iran sul suolo francese e danese nel 2018. Teheran ha negato un suo coinvolgimento e ha affermato che i test missilistici erano puramente difensivi. La flotta di aerei d’attacco di Teheran, infatti, risale in gran parte a prima della rivoluzione islamica del 1979. L’embargo nei suoi confronti ha costretto l’Iran a investire in missili come copertura difensiva contro i suoi vicini arabi regionali, che hanno acquistato miliardi di dollari in aerei e hardware militare americano nel corso degli ultimi anni. Questi missili, con un limite di portata autoimposta di 2 mila chilometri, possono raggiungere il Medio Oriente e le basi militari statunitensi nella regione.
Inoltre, gli USA hanno cercato di dividere l’Unione Europea, facendo leva sui Paesi dell’Est Europa alla ricerca di garanzie militari americane sulla loro sicurezza nei confronti della Russia. Mike Pompeo ha convocato una conferenza di due giorni in Polonia nel febbraio 2019, incentrata sul Medio Oriente, in particolare l’Iran, con la partecipazione di Israele e dei Paesi arabi del Golfo, concepita per spingere i Paesi dell’UE ad adottare una posizione più aggressiva nei confronti dell’Iran, ma i principali Paesi e la UE stessa l’hanno boicottata, rendendo esplicite le profonde e crescenti divisioni tra gli Stati Uniti e i loro principali alleati europei.
Dopo un anno dal ritiro degli Stati Uniti dall’accordo nucleare e la reimposizione delle sanzioni, l’Unione Europea non era stata ancora in grado di far diventare realmente operativo INSTEX, il “veicolo per scopi speciali”, per cui Rouhani ha cercato di rompere lo stallo annunciando ufficialmente che l’Iran avrebbe smesso di vendere scorte di uranio arricchito e acque pesanti in 60 giorni, a partire dall’8 maggio 2019. In base al JCPOA, all’Iran è stato permesso arricchire l’uranio solo fino al 3,67% e di conservare solo 300 kg di uranio arricchito. Rouhani intendeva fare pressione su Germania, Francia, Regno Unito, Russia e Cina per negoziare una soluzione in grado di salvaguardare i principali interessi iraniani, la vendita di petrolio e le relazioni bancarie. Tuttavia, aveva avvertito, che se entro 60 giorni non si fosse raggiunta una soluzione positiva, l’Iran avrebbe aumentato l’arricchimento di uranio e non avrebbe seguito gli obblighi previsti dal JCPOA. L’annuncio di Rouhani è arrivato mentre gli USA stavano rafforzando la loro presenza di bombardieri B-52 (nella base di al-Udeid, in Qatar), missili Patriot e navi militari nel Golfo e la Casa Bianca ha fatto sapere di stare esaminando piani militari contro l’Iran che prevedevano l’invio di 120 mila soldati in Medio Oriente se l’Iran avesse attaccato le forze americane o accelerato il lavoro sulle armi nucleari.
Un’escalation con il rischio di guerra aperta
Lo scenario è diventato quello della progressiva escalation verso un conflitto armato che – considerata l’inesistenza di canali di comunicazione diplomatici diretti tra USA e Iran – avrebbe potuto essere scatenato anche da qualche piccolo incidente non voluto, ad esempio, nello Stretto di Hormuz (lungo 45 km e largo 38 km nel punto più stretto) dove transita il 20-30% del petrolio e del gas liquefatto mondiale e l’86% delle forniture petrolifere di un Paese come il Giappone (il quarto maggiore acquirente di petrolio al mondo). Nel marzo 2019 gli USA hanno rafforzato la loro posizione strategica nell’area con l’estensione dell’Accordo strategico quadro con l’Oman (governato dalla dinastia al-Said) che ha previsto la concessione dell’accesso ai porti e agli aeroporti del Sultanato con particolare attenzione al porto di Duqm, che è in grado di ospitare le portaerei degli Stati Uniti.
Dopo settimane di grande tensione dovuti a degli attacchi a delle petroliere attribuiti alle milizie iraniane dall’amministrazione USA, l’abbattimento da parte della divisione aeronautica dei pasdaran di un drone Global Hawk (dal costo di 131 milioni di dollari) per la sorveglianza decollato dagli Emirati, che avrebbe violato lo spazio aereo iraniano nello Stretto di Hormuz, ha rischiato di fare da detonatore ad un primo scontro militare diretto tra Iran e USA. Solo all’ultimo minuto Trump ha bloccato un’azione di rappresaglia, richiamando aerei pronti a bombardare postazioni militari iraniane e a fare almeno 150 vittime (20 giugno 2019).
Per pattugliare le acque dello stretto di Hormuz e garantire la sicurezza lungo le rotte del petrolio, gli USA hanno messo insieme una coalizione (Operation Sentinel) composta da forze aero-navali di UK, Australia, Arabia Saudita, EAU, Qatar, Albania e Bahrain (e l’appoggio esterno di Israele). Anche gli europei hanno formato la loro “coalizione dei volenterosi” sotto la guida francese e con basi negli EAU, alla quale hanno aderito Belgio, Danimarca, Germania, Grecia, Olanda, Portogallo e Italia. Giappone e India hanno preferito muoversi in autonomia.
Successivamente, il sequestro nelle acque territoriali di Gibilterra di una superpetroliera battente bandiera panamense carica di greggio iraniano e apparentemente diretta ad una raffineria in Siria in violazione delle sanzioni unilaterali dell’Unione Europea nei confronti del Paese arabo, realizzato con una operazione delle “teste di cuoio” britanniche (su richiesta del team per la sicurezza nazionale americana diretto da Bolton), ha innescato ritorsioni da parte degli iraniani.
I Guardiani della Rivoluzione hanno sequestrato due petroliere britanniche nelle acque dello Stretto di Hormuz: una, la Mesdar battente bandiera liberiana, è stata liberata poco dopo; ma la Stena Impero, che batteva bandiera britannica e che – secondo gli iraniani – aveva urtato un peschereccio nel suo percorso, è rimasta nelle mani dei pasdaran. A bordo della Stena Impero c’erano 23 marinai, ma nessuno era cittadino britannico (erano indiani, russi, lettoni e filippini). Mentre l’equipaggio è stato liberato dopo pochi giorni, l’annuncio della liberazione della nave è arrivato solo il 23 settembre 2019 (alla vigilia di un programmato incontro tra Rouhani e Johnson in occasione dell’Assemblea Generale dell’ONU). La Royal Navy inglese ha inviato un’altra grande nave da guerra nel Golfo Persico, la terza. Solo qualche giorno prima una petroliera degli Emirati, la Riah, era stata sequestrata dai pasdaran con l’accusa di contrabbando di petrolio. Durante questa guerra di nervi, l’Iran ha scelto di annunciare di aver smantellato una rete di spie della CIA, avendo arrestato 17 cittadini iraniani, alcuni dei quali erano già stati condannati a morte dalla magistratura.
Molti osservatori ed analisti hanno messo in guardia l’amministrazione Trump che qualsiasi impresa militare americana in Iran avrebbe rischiato di ripercorrere l’esperienza vissuta in Iraq. Inizialmente, le forze militari americane sopprimerebbero le difese aeree dell’Iran, distruggendo le difese aeree, le basi missilistiche terrestri, le reti di comunicazione, i centri di comando, gli impianti per la produzione nucleare, tenendo sotto controllo la popolazione. Inoltre, se occupare Teheran divenisse l’obiettivo americano, le forze di terra statunitensi potrebbero sopraffare l’esercito iraniano e far saltare il regime costringendolo a fuggire o uccidendo i suoi alti funzionari con attacchi missilistici.
Ma, qualsiasi intervento militare americano sul terreno rischierebbe di ripercorrere l’esperienza vissuta in Iraq. L’Iran è considerevolmente più grande dell’Iraq sia per territorio sia per popolazione, quindi acquisire il controllo del Paese e conquistare il sostegno popolare sarebbe ancora più difficile. Mentre le forze armate irachene sono state facilmente sconfitte, i gruppi sunniti rinforzati da volontari provenienti da altre parti del mondo arabo e le milizie indirettamente sostenute dall’Iran hanno combattuto le forze americane per quasi un decennio. Presumibilmente le forze americane all’interno dell’Iran sarebbero esposte a tali tattiche di guerriglia, che, sebbene non decisive, aumenterebbero il costo dell’intervento, indebolendo il sostegno pubblico alla guerra in patria. Il disordine creato da un’invasione americana lascerebbe l’Iran aperto alla guerra interna tra le sue minoranze etniche – azeri (20-25% della popolazione), curdi, baluci, zoroastriani e arabi – portando ad una pericolosa frammentazione del Paese. Inoltre, probabilmente il movimento marxista dei guerriglieri Mujahideen-e Khalq acquisirebbe una maggiore influenza politico-militare. Le persone sfollate all’interno dell’Iran o che attraverserebbero le frontiere dei Paesi vicini come rifugiati rappresenterebbero una sfida umanitaria superiore a quella della Siria.
Trump considerava l’Iran uno degli “stati canaglia”, insieme al Venezuela e alla Corea del Nord.11 Nella sua visita a Riyadh nel 2017 e, successivamente, in occasione del ripudio del JCPOA, Trump ha sostenuto che l’Iran continuava ad essere la centrale del terrore, fornendo armi, protezione e finanziamenti ai terroristi islamici (tra i quali Trump inseriva anche un’organizzazione come Hamas, la diramazione palestinese violenta della Fratellanza Musulmana, e lo stesso movimento della Fratellanza Musulmana). Trump ha anche designato come organizzazione terrorista il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica, un corpo di élite delle forze armate iraniane. “Per decenni l’Iran ha portato distruzione e morte in Israele, in America. Ora conduce una politica di aggressione e destabilizzazione nella regione”, come in Siria “dove sostiene Bashar al-Assad, autore di crimini indicibili”. Il vero obiettivo di Trump, pertanto, era quello di imporre difficoltà economiche alla Repubblica Islamica in modo da minare la sua capacità di espandere la sua influenza regionale, provocare il suo completo isolamento e addirittura promuovere un cambiamento di regime (il cosiddetto “piano Bolton”) sia attraverso un’accelerazione della pressione economica (ponendo un embargo anche sull’importazione di petrolio iraniano), nella speranza che il malcontento popolare crescesse e che il regime clericale semplicemente implodesse.
Ma, sin dal suo inizio, la Repubblica Islamica ha imparato a padroneggiare l’arte di usare e abusare delle crisi straniere per tenere a bada il dissenso interno e consolidare il potere del regime. La longevità della Repubblica Islamica può essere ricondotta a una combinazione di fattori interni ed esterni, a volte interrelati. Dalla rivoluzione del 1979 che li ha portati al potere, i governanti iraniani hanno padroneggiato l’arte di impiegare crisi esterne per creare un effetto passione nazionalista all’interno, basato su una narrativa in cui l’Iran è la vittima innocente di ingiustificati e violenti poteri imperialisti esterni. Il regime ha usato questa tecnica per sconfessare e reprimere i dissidenti interni, raffigurandoli come “terze colonne” di forze esterne maligne.
D’altra parte, la decisione del regime di riavviare il suo programma nucleare, come apparentemente sta avvenendo da oltre due anni, questo avrebbe potuto dare a USA, Israele, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti la scusa per lanciare una guerra preventiva. Questo non è avvenuto perché l’Iran potrebbe vendicarsi fermando forzatamente tutte le esportazioni petrolifere regionali attraverso il Golfo e il Mar Rosso. Il risultato delle tattiche da bullo di Trump avrebbe potuto essere uno shock petrolifero globale e uno scontro militare nello Stretto di Hormuz (il passaggio nel Golfo Persico che isolerebbe Dubai, Abu Dhabi e Manama).
Una strategia che, alla luce degli ultimi 40 anni di storia, appariva estremamente rischiosa, destabilizzante e, allo stesso tempo, risibile. Le sanzioni sono uno strumento efficace se legate a obiettivi politici limitati, ma non sono mai riuscite a cambiare un regime.
Soprattutto, questo comportamento dimostrava che gli Stati Uniti non erano realmente capaci di imparare dai loro errori del passato (ad esempio, all’abuso della forza militare in Afghanistan, Iraq, Somalia, Yemen, Libia e Siria) e che con Trump avevano ormai perso buona parte della loro credibilità diplomatica. Perché mai un Paese del mondo firmerebbe un accordo con gli Stati Uniti, accettando dure concessioni, se pensasse che un presidente potrebbe semplicemente scartare quell’accordo qualche anno dopo?
L’Iran ha scelto la strategia della “pazienza”: ha provato a rispettare sostanzialmente i termini del JCPOA, coltivare il sostegno di Russia e Cina (con le cui forze navali ha svolto esercitazioni militari congiunte su larga scala nel nord dell’Oceano Indiano e del Mare dell’Oman a fine dicembre 2019) e tentare di dividere l’Europa dagli Stati Uniti, in attesa della fine dell’amministrazione Trump.
Questa strategia ha avuto i suoi costi e le sue incertezze, ma a Teheran è stata considerata preferibile a una politica di confronto aperto che avrebbe potuto condurre alla guerra.
A sorpresa, durante il G-7 di Biarritz (24-26 agosto 2019), il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif, oggetto delle sanzioni americane perché considerato un terrorista, ha incontrato Macron. Un tentativo europeo di sbloccare l’intransigenza di Trump e di ridurre la tensione. Il piano della Francia prevedeva un’offerta di una linea di credito per 15 miliardi di dollari per consentire all’Iran di far salire a 700 mila barili al giorno (più che raddoppiare) l’esportazione di petrolio per un periodo di 4 mesi. In cambio, l’Iran avrebbe dovuto attuare pienamente l’accordo nucleare del 2015, ridurre le tensioni nel Golfo Persico e avviare nuovi colloqui. Questo anche se Rouhani ha ribadito che le relazioni Iran-Stati Uniti sarebbero restate invariate senza la rimozione delle sanzioni, mentre il Dipartimento di Stato americano ha bocciato l’iniziativa francese.
Il licenziamento di John Bolton da parte dei Trump (10 settembre 2019) ha fatto aumentare le speranze sulla possibilità di un allentamento delle sanzioni USA contro l’Iran (abbandonare la strategia della “massima pressione”) come mezzo per organizzare un incontro tra Trump e il presidente iraniano, Hassan Rouhani, all’Assemblea Generale dell’ONU il 23 settembre (una mossa sostenuta sul piano diplomatico da Macron). La rimozione di Bolton sarebbe stata da attribuire soprattutto a questo scenario. In vista delle elezioni presidenziali del 2020 Trump era sotto pressione, dovendo ancora dimostrare che la strategia diplomatica della sua amministrazione era in grado di portare a concludere un accordo positivo (o almeno di dare l’impressione di averlo concluso) con l’Iran, come anche con Afghanistan, Corea del Nord, Siria, Cina, Venezuela e Russia. La rimozione di Bolton ha offerto l’opportunità all’amministrazione Trump di riconsiderare il suo approccio fallito di “massima pressione” sia all’Iran sia alla Corea del Nord.
Questo anche se Mike Pompeo ha accusato l’Iran per l’attacco agli impianti petroliferi sauditi di Abqaiq e Kharis, rivendicato dagli yemeniti Houthi e realizzato con una ventina di droni e alcuni missili che hanno eluso i controlli dei costosi sistemi radar e di difesa anti-missilistici del regno saudita (i missili Patriot della Raytheon, per i quali Riyadh ha speso 6 miliardi di dollari) e sono stati capaci di colpire con precisione obiettivi che erano a circa mille km di distanza dalle posizioni degli Houthi (14 settembre 2019). Un attacco umiliante e devastante, definito da Pompeo un “atto di guerra“, che ha bloccato completamente l’attività nei due complessi per diversi giorni, riducendo della metà la produzione giornaliera saudita di greggio e del 5% quella mondiale. Il prezzo del petrolio è salito ai massimi rispetto al semestre precedente (+10%) e gli USA hanno dovuto rendere disponibili le loro risorse strategiche per assicurare un’offerta stabile e calmierare il mercato. Trump ha minacciato di inasprire ulteriormente le sanzioni contro l’Iran e ha approvato l’invio di truppe americane per rafforzare le difese aeree e missilistiche dell’Arabia Saudita. Francia, Germania e Gran Bretagna hanno finito per sposare la tesi americana, che la responsabilità dell’attacco fosse dell’Iran. Poche settimane dopo due distinte esplosioni, probabilmente causate da attacchi missilistici, hanno colpito una petroliera iraniana gestita dalla National Iranian Tanker Company che navigava carica nel Mar Rosso vicino alla città portuale saudita di Jeddah (un’operazione attribuita successivamente al Mossad).
Gli effetti politici e sociali delle sanzioni in Iran
Nel corso dell’autunno del 2019, vi sono state diffuse proteste in Iran contro il razionamento e il taglio dei sussidi alla benzina, giustificati dal governo con la necessità di finanziare il sostegno ai poveri (18 milioni di famiglie), misure che hanno portato all’aumento del prezzo della benzina del 50% per i primi 60 litri e del 300% per ogni litro in più.
I manifestanti hanno bloccato il traffico nelle principali città per diversi giorni e si sono scontrati con la polizia in manifestazioni segnate da spari, nel corso delle quali ufficialmente vi sono stati circa 300 morti (ma secondo l’agenzia Reuters sarebbero stati circa 1.500), migliaia di feriti e oltre 7 mila arresti. Sono state assaltate e distrutte decine di pompe di benzina, centinaia di filiali bancarie e 140 edifici pubblici. Le proteste hanno rappresentato una seria minaccia politica per Rouhani in vista delle elezioni parlamentari di febbraio e hanno mostrato la rabbia diffusa tra la popolazione iraniana che in due anni ha visto evaporare risparmi, posti di lavoro e valore della valuta nazionale (con il PIL crollato di oltre il 9% e l’export dell’80%).
Proteste popolari contro austerità, settarismo ed establishment sono esplose anche in Libano e Iraq12 (a Najaf il consolato iraniano è stato incendiato), Paesi in cui l’Iran esercita una forte influenza politica e militare e che, insieme alla Siria, consentono al regime persiano di godere di un inestimabile vantaggio strategico verso Israele e il mondo arabo, con una presenza sulle rive del Mediterraneo e sulla frontiera settentrionale di Israele.
A fine dicembre 2019, però, sono stati gli USA ad essere al centro dell’ostilità irachena: l’ambasciata americana è stata assaltata a Baghdad – con la connivenza delle forze di sicurezza irachene che hanno permesso ai manifestanti di entrare nella “zona verde” altamente protetta, dopo che per settimane avevano respinto brutalmente i tentativi dei manifestanti anti-iraniani – dopo i bombardamenti americani di campi delle milizie filo-iraniane Kataib Hezbollah (una delle milizie paramilitari dell’Unità Popolare di Mobilitazione, formalmente parte dell’esercito iracheno) in Iraq e Siria (25 morti) condotti come ritorsione per un lancio di missili sulla base USA vicino a Kirkuk (un contractor americano morto).
L’assassinio di Qassem Soleimani e di Abu Mahdi al-Muhandis
In una drammatica escalation, Trump ha deciso unilateralmente – senza consultare Congresso e governi alleati e in violazione di ogni norma del diritto internazionale – di far assassinare con missili lanciati da un drone il generale Qassem Soleimani, Abu Mahdi al-Muhandis, il leader delle milizie Kataib Hezbollah, e altre otto persone, mentre erano in auto nei pressi dell’aeroporto di Baghdad (3 gennaio 2020).13
Soleimani era il comandante della forza Quds, l’élite, l’ala esterna dei Guardiani della Rivoluzione Islamica, che l’amministrazione Trump aveva designato un’organizzazione terroristica nell’aprile 2019. Per anni Soleimani aveva gestito le operazioni militari iraniane in Iraq, Siria, Libano, Gaza, Yemen e Afghanistan contro ISIS, Al Nusrah, Al Qaeda e altri gruppi jihadisti sunniti.
L’amministrazione USA ha giustificato l’assassinio come un atto di autodifesa, nel tentativo di bloccare le accuse di violazione del diritto internazionale, ma l’Iran lo ha considerato come un atto di terrorismo di Stato e un atto di guerra contro uno Stato sovrano, promettendo una “energica vendetta”. La NATO e Israele hanno fatto sapere di non essere stati coinvolti nel raid, mentre dall’iniziativa americana hanno preso le distanze sia i tradizionali alleati sia Russia e Cina.
Secondo molti osservatori, uccidendo Soleimani, l’amministrazione Trump ha messo in moto un conflitto più ampio, pericoloso e imprevedibile, che prima o poi potrebbe divampare in molti luoghi e in molti modi. Trump ha sostenuto che “abbiamo agito per fermare una guerra, non per iniziarla” (anche se ha immediatamente inviato altri 3 mila soldati nel Golfo), ma questo atto ha ricompattato temporaneamente il fronte delle élite e piazze popolari sciite in Iran e Iraq in nome dell’opposizione all’imperialismo americano (come esemplificato dalla partecipazione di massa ai funerali di Soleimani, nel corso dei quali, per la ressa, ci sono state oltre 50 vittime) e, soprattutto, ha cambiato qualitativamente le regole del gioco nel confronto tra USA e Iran, mentre gli USA non sono sembrati voler cambiare la loro strategia (incentrata tra l’altro sull’obiettivo dichiarato di un ritiro delle loro forze militari dall’area) che prevedeva di colpire duramente l’Iran per costringerlo a trattare e ritirarsi (deterrence by escalation).
L’Iran ha annunciato che non avrebbe più rispettato nessuno dei limiti imposti dall’accordo nucleare del 2015 (ma ha continuato a sottoporsi alle ispezioni dell’AIEA), mentre il parlamento iracheno ha votato a maggioranza una risoluzione che invitava il governo ad espellere dal Paese le truppe della coalizione guidata dagli Stati Uniti.
Soprattutto, nella notte tra il 7 e 8 gennaio, è arrivato uno “schiaffo in faccia all’America”. Una ventina di missili balistici sono stati lanciati contro due basi militari americane e della coalizione anti-ISIS, Ain al-Asad ed Erbil, causando 110 feriti per trauma cranico (gli iraniani hanno parlato di 80 morti e centinaia di feriti, ma gli americani avevano sostenuto che non vi sosse stato alcun ferito). Di fatto, una “rappresaglia controllata” dato che molti dei missili non hanno (forse volutamente) centrato gli obiettivi o non sono esplosi o sono stati intercettati dai missili Patriot, mentre l’Iraq era stato preventivamente avvisato e a sua volta aveva avvisato americani e loro alleati. Il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, ha caratterizzato gli attacchi missilistici come “misure proporzionate di autodifesa“, entro i limiti di quanto consentito dal diritto internazionale (articolo 51 della Carta dell’ONU). I Guardiani della Rivoluzione hanno annunciato che in caso di una rappresaglia militare americana sarebbero state colpite Tel Aviv, Haifa e Dubai.
La reazione militare USA non c’è stata. Trump ha allentato la tensione e fatto marcia indietro riguardo ad ulteriori scontri militari con l’Iran. Ha deciso l’imposizione di ulteriori sanzioni economiche sulle esportazioni iraniane (acciaio, alluminio, rame, tessile). Ha chiesto a Germania, Francia, Gran Bretagna, Russia e Cina di abbandonare il JCPOA e ha invitato la NATO ad “essere molto più coinvolta nel processo in Medio Oriente“.
Ancora una volta è apparso evidente che né Trump né Teheran desideravano una guerra aperta e frontale, ma ciascuna parte si è dimostrata riluttante o incapace di deviare da un percorso conflittuale che è diventato sempre più ampio, costoso e destinato a durare a lungo. Vittime “collaterali” di tale conflitto sono state le 176 persone (in gran parte iraniane e canadesi) a bordo di un Boeing 737 della linea aerea ucraina che è stato abbattuto (scambiato per un aereo, drone o missile nemico) da missili della contraerea iraniana subito dopo il decollo dall’aeroporto di Teheran, poche ore dopo l’attacco missilistico alle basi USA in Iraq. L’ammissione dell’abbattimento da parte delle autorità iraniane, dopo che per diversi giorni avevano negato ogni responsabilità, ha rilanciato le manifestazioni di protesta contro il governo nelle strade, in favore di più trasparenza e democrazia.
Dopo l’invito di Trump a lasciare il JCPOA (e sotto pressione per la sua minaccia di imporre dazi del 25% sull’import di auto europee), Francia, Germania e Gran Bretagna hanno avviato il cosiddetto “meccanismo di risoluzione delle dispute” (articolo 36), contestando all’Iran un arricchimento dell’uranio superiore ai livelli del 2015. L’ayatollah Ali Khamenei ha definito i tre Paesi europei dei “lacché dell’America”. Se la disputa non viene risolta, potrebbe portare alla fine dell’accordo e alla riattivazione delle sanzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
L’offensiva dei conservatori e la sconfitta dei moderati: le elezioni parlamentari del febbraio 2020
Come previsto, sul piano della politica interna iraniana, il risultato più rilevante della politica di “massima pressione” americana è stato la schiacciante vittoria dei conservatori il 21 febbraio 2020 alle elezioni parlamentari (290 deputati), e in concomitanza anche alle votazioni ad interim perl’elezione dei membri vacanti dell’Assemblea degli Esperti (Majlis-e Khobregan), l’organo cui è di fatto delegata la selezione, la nomina, la conferma ed eventualmente la destituzione della Guida Suprema.14
L’esito delle elezioni era largamente scontato, e la vittoria dei conservatori ampiamente anticipata dalla stampa. I candidati moderati e riformisti, infatti, erano già stati in gran parte squalificati dal Consiglio dei Guardiani15 e sono stati colpiti dall’astensione della classe media urbana – a Teheran solo il 25% degli aventi diritto ha votato e a livello nazionale il 42,5% (il valore più basso di votanti dal 197916 ) -, ormai in gran parte delusa e frustrata verso le politiche del governo e delle forze conservatrici (accusati di aver agevolato il processo di crisi con la comunità internazionale attraverso il loro approccio alla politica estera e di difesa sul piano regionale) e verso quelle degli Stati Uniti e della comunità internazionale, colpevoli di aver platealmente tradito l’Iran, e, non ultima, di aver innescato la grave crisi economica che ha afflitto il Paese in conseguenza della riattivazione delle sanzioni secondarie degli Stati Uniti. Quindi, non ha destato alcuna sorpresa il fatto che le formazioni dell’area conservatrice abbiano conquistato 221 dei 290 seggi parlamentari, assicurandosi in tal modo la maggioranza assoluta dell’intero parlamento.
Con le elezioni parlamentari del 2020 la politica iraniana è tornata a essere dominata – ad eccezione della presidenza – dalle formazioni di orientamento conservatore, terminando di fatto l’esperimento politico pragmatista di Hassan Rouhani e, soprattutto, soffrendo la radicalizzazione del rapporto con gli Stati Uniti e Israele.
L’ambito politico dei conservatori è spesso oggetto di eccessive semplificazioni, presentandosi al contrario come un insieme molto eterogeneo e soventemente conflittuale al suo interno. Questo anche perché in Iran non esistono veri e propri partiti, come nella tradizione europea, quanto piuttosto formazioni costruite intorno ai vari candidati, che si uniscono in coalizioni a “geometria variabile”, e cioè caratterizzate da ampia possibilità di mutamento all’indomani delle elezioni.
L’analisi del voto dimostra che il nuovo parlamento, per quanto a maggioranza conservatrice, è espressione di correnti ideologiche e fazioni molto diverse tra loro. Centrale, nell’evoluzione del dibattito politico iraniano, è diventata la gestione della complessa e delicata transizione generazionale in atto al più alto livello di controllo del potere politico ed economico, e, di conseguenza, la capacità politica che la Guida Suprema è in grado di esprimere nel moderare le sempre più conflittuali istanze della prima e della seconda generazione, in una competizione per il predominio del potere, che in pochi anni è destinata a mutare sostanzialmente il volto della politica iraniana. Una lotta per la transizione tra prima e seconda generazione che finora ha lasciato emarginata l’eterogenea terza generazione, che si vede costretta a formulare le proprie scelte politiche tra l’incudine di un sistema istituzionale largamente inviso ai più, e il martello di una comunità internazionale arrogante che ferisce sistematicamente l’orgoglio nazionalista iraniano.
Il risultato delle elezioni parlamentari del febbraio 2020 ha consolidato quindi fortemente la seconda generazione del potere, ha sancito la definitiva transizione dal ruolo egemone della prima generazione e ha determinato un quadro che disorienta la comunità internazionale, spesso incapace di leggere le dinamiche politiche iraniane e incline a generalizzazioni di ampia portata.
Pochi giorni dopo le elezioni parlamentari, con la rapida diffusione dell’epidemia di coronavirus CoVid-19, Francia, Germania e Regno Unito hanno mandato un segnale di distensione. Hanno offerto all’Iran un pacchetto completo di sostegno sia materiale (attrezzature per prove di laboratorio, tute, mascherine e guanti protettivi e altri materiali per uso medico) che finanziario (circa 5 milioni di euro) per combattere la diffusione della malattia. Finalmente il 6 aprile è stata completata la prima transazione gestita dall’INSTEX e la controparte iraniana STFI (Special Trade and Finance Instrument), facilitando l’esportazione di beni sanitari dall’Europa all’Iran.
Per quanto riguarda la pandemia da CoVid-19, con quasi tre milioni di casi, oltre 80 mila vittime e a fronte di una campagna vaccinale che stenta a decollare, l’Iran è il Paese più colpito dal virus in Medio Oriente. Una crisi, quella sanitaria, che si somma ad una situazione economica difficile: anni di sanzioni internazionali hanno complessivamente impoverito il Paese e hanno soprattutto colpito il settore petrolifero (l’export di greggio è crollato dai 3,2 milioni di barili del 2018 ai 150 mila del 2019), ma dal 2018 è stata messa in piedi una “economia di resistenza” che ruota sull’eliminazione della dipendenza del Paese dal petrolio. Negli anni ‘90, il petrolio rappresentava oltre il 50% del PIL, mentre nel 2020 la quota è scesa al 15%. Tutti gli altri settori sono riusciti a mantenere costanti la produzione e i livelli di occupazione. La produzione è persino migliorata: le sanzioni di Trump hanno portato a un’enorme svalutazione della valuta (per comprare un dollaro ci volevano 70 mila riyl, ora circa 280 mila), rendendo le importazioni meno accessibili e facendo schizzare l’inflazione (ora al 40%). La produzione interna ha colmato le lacune, aumentando la produzione, l’occupazione e le vendite interne. Inoltre, dato che il tasso medio di interesse, al 20%, non riesce a tenere il passo dell’inflazione, per cui i depositi si erodono, molti iraniani stanno svuotando i loro depositi bancari per acquistare beni rifugio: immobili (sotto sanzioni c’è un boom del settore edilizio) e beni di lusso, contribuendo a fare andare avanti i consumi sul mercato interno.
Per stimolare la produzione interna strozzata dall’embargo, il governo ha stilato una lista di oltre 1.300 beni di cui è vietata l’importazione (ad esempio, olio d’oliva e molti altri prodotti alimentari). Se le sanzioni non avessero impedito alle imprese iraniane di esportare i loro prodotti, la produzione sarebbe andata ancora meglio. L’economia iraniana si è diversificata e le aziende iraniane che producevano per il mercato interno si sono sbarazzate della concorrenza straniera, rafforzandosi e ampliando il proprio mercato. In alcuni casi si sono creati dei quasi oligopoli.
Allo stesso tempo, per mantenere in piedi l’economia nazionale ed esportare ed importare merci sui mercati internazionali, aggirando le sanzioni americane (dall’embargo petrolifero al blocco delle transazioni bancarie), in questi anni l’Iran ha fatto ricorso al baratto, alle triangolazioni e al contrabbando. I bazari iraniani si sono rivolti ai Paesi amici, come Cina, Russia e Germania, vendendo le loro merci (petrolio, metalli e acciaio, ad esempio) in cambio di altre merci, oppure hanno utilizzato il contrabbando e le triangolazioni commerciali con uomini d’affari di Paesi vicini (Turchia e Emirati Arabi Uniti) desiderosi di trarre un profitto dall’intermediazione.
Dall’omicidio di Mohsen Fakhrizadeh alle trattative per il rientro di USA e Iran nel JPCOA
Il 27 novembre 2020, vicino a Teheran, in un attentato esplosivo è stato assassinato Mohsen Fakhrizadeh, lo scienziato nucleare che Israele e USA consideravano come la figura chiave del programma segreto dell’Iran per arrivare alla produzione di un’arma atomica.
Zarif ha descritto l’attacco come un “atto di terrorismo di Stato“, mentre Rouhani ha apertamente accusato Israele (il Mossad non ha smentito): “Il nostro popolo è più saggio che cadere nella trappola del regime sionista … L’Iran risponderà sicuramente al martirio del nostro scienziato al momento giusto“.
Un assassinio che, secondo molti opinionisti, avrebbe potuto rendere più complicata l’intenzione della nuova amministrazione Biden di riportare gli USA nel JCPOA – e lavorare con gli alleati europei per rafforzare i suoi termini – se Teheran prima riprende la stretta osservanza dei contenuti dell’accordo.
Di sicuro, Israele e Arabia Saudita hanno cercato si usare le ultime settimane dell’amministrazione Trump per cercare di provocare l’Iran nella speranza di chiudere ogni possibilità di riconciliazione tra Teheran e la nuova amministrazione guidata da Biden.
John Brennan, un ex direttore della CIA, ha definito l’assassinio “un atto criminale e altamente sconsiderato“, e che avrebbe potuto provocare ritorsioni. “I leader iraniani farebbero bene ad aspettare il ritorno di una leadership americana responsabile sulla scena globale e a resistere all’impulso di rispondere contro i presunti colpevoli“, ha twittato. Ma, è bene ricordare che negli anni di Obama, quando Brennan è stato prima consigliere per la sicurezza interna e poi direttore della CIA, sono stati assassinati altri quattro scienziati iraniani.
A un anno dall’uccisione del generale Qassem Soleimani e a pochi mesi da quella di Fakhrizadeh, l’Iran ha ripreso ad arricchire l’uranio fino al 20% di purezza, in una significativa violazione dell’accordo nucleare del 2015, riducendo il tempo necessario per raggiungere il livello di armi atomiche (4 gennaio 2021). Una decisione che era probabilmente più diretta a rafforzare il potere negoziale di Teheran con l’entrante amministrazione Biden che aveva segnalato l’intenzione di far rientrare gli USA nel JPCOA.
L’Unione Europea aveva avvertito che un arricchimento del 20% avrebbe segnato “una grave deviazione” dagli impegni presi dall’Iran nell’accordo del 2015. La UE temeva che questa mossa dell’Iran potesse provocare un attacco militare da parte di Israele. La tensione è salita anche perché lo stesso giorno i Guardiani della Rivoluzione hanno sequestrato una nave sudcoreana “per aver inquinato il Golfo Persico con sostanze chimiche” (ma con la Corea del Sud era anche aperto un contenzioso per forniture petrolifere non saldate a seguito delle sanzioni imposte da Trump).
Biden si era impegnato a salvare il JPCOA durante la campagna elettorale e a metà febbraio 2021 gli Stati Uniti hanno accettato di prendere parte ai colloqui multilaterali con l’Iran ospitati dall’UE, con l’obiettivo di negoziare un ritorno da parte di entrambi i Paesi all’accordo nucleare del 2015.
L’amministrazione Biden ha nominato Robert Malley inviato speciale USA per l’Iran. Malley è stato consigliere per il Medio Oriente di Obama e uno degli architetti del JPCOA nel 2015. Fin da subito ha affermato che l’intenzione degli USA era di tornare all’accordo, se l’Iran fosse tornata a rispettarlo, senza pretendere un accordo più ampio (inclusivo dei missili balistici, di tempistiche diverse, etc.). Malley si è fatto portatore dell’intenzione USA di porre fine alla campagna di “massima pressione” contro l’Iran nella convinzione che sia più efficace fare pressione attraverso la diplomazia.17
Il 6 aprile (a 76 giorni dall’insediamento dell’amministrazione Biden), a Vienna, è finalmente ripartito il negoziato sul programma nucleare dell’Iran con la partecipazione degli USA, anche se iraniani e americani non partecipano insieme nella stessa stanza. L’Iran, infatti, ha accettato di dialogare direttamente solo con i firmatari attivi dell’intesa – Russia, Cina, Germania, Francia e Regno Unito, oltre alla Commissione europea –, ma non con gli USA. Gli americani si trovano in un altro luogo e ricevono aggiornamenti dai diplomatici europei che fanno la spola tra i due alberghi che ospitano le delegazioni. In questo modo l’apparenza è salva.
Un negoziato delicato, perché la decisione di Trump ha rafforzato i conservatori iraniani che si erano opposti all’accordo e che, almeno in parte, si oppongono alla sua resurrezione e a qualsiasi trattativa. Una posizione che ha indebolito fin da subito i settori più moderati o pragmatici del regime. Questo spiega le dichiarazioni iniziali di Rouhani e Zarif (i due artefici dell’accordo del 2015), per i quali non c’era nulla da negoziare: se solo gli USA rispettassero l’accordo, ritirando tutte le sanzioni imposte dopo il 1 gennaio 2016 (almeno 1.500, comprese quelle classificate come non collegate alla questione nucleare messe da Trump), l’Iran metterebbe fine alle sue violazioni. D’altra parte, i conservatori volevano evitare un trionfo diplomatico dei loro rivali moderati al governo prima delle elezioni presidenziali del 18 giugno.
Nella trattativa, l’Iran è appoggiata da Cina e Russia, mentre gli USA e i loro alleati, come Israele e le monarchie arabe (alcune di queste parti del Patto di Abramo voluto da Trump), vorrebbero invece ampliare la portata e le durata dell’accordo, per dare vita a quello che nel gergo del negoziato si chiama “JCPOA-plus”, ovvero l’accordo del 2015, ma allargato a nuovi ambiti, come i missili balistici e l’attivismo regionale dell’Iran. I Paesi mediorientali contrari all’accordo – le monarchie del Golfo – temono che lo sblocco dei fondi possa consentire all’Iran di finanziarie il suo programma missilistico e il sostegno a gruppi armati nella regione. In ogni caso, se l’accordo tornasse a funzionare, questo permetterebbe di controllare le ambizioni nucleari dell’Iran in modo più efficace rispetto alla situazione creatasi dopo il maggio 2018, in cui le possibilità di verifica sono state ridotte.
A cercare di sabotare la restaurazione di un clima più disteso tra le parti riunite nel negoziato di Vienna, è arrivato un attacco esplosivo all’impianto di Natanz in Iran, fortemente sorvegliato, che secondo l’intelligence americana ha riportato indietro di nove mesi il programma nucleare di Teheran. L’attacco ha determinato un’esplosione e un blackout che ha distrutto il sistema autonomo di alimentazione elettrica a centrifughe avanzate, danneggiandone alcune. Il ministero degli Esteri iraniano ha incolpato Israele per l’attacco, e sebbene Israele non abbia confermato la responsabilità, i suoi funzionari della sicurezza hanno fatto poco per smentire.
In una intervista televisiva, il direttore del Mossad, Yossi Cohen, ha successivamente affermato la chiara responsabilità israeliana per questo e tutta una serie di attacchi contro il programma nucleare iraniano, incluso l’assassinio del massimo scienziato nucleare iraniano Mohsen Fakhrizadeh. L’opinione dell’ala conservatrice del regime di Teheran è che gli USA fingono di volere la pace e lasciano, invece, ampio margine di manovra agli israeliani. Per questo, come risposta all’attentato, il presidente Rouhani ha annunciato la decisione dell’Iran di arricchire l’uranio fino a una purezza del 60% (sebbene in piccole quantità), il suo livello più alto di sempre, anche se ancora al di sotto del 90% necessario per produrre armi atomiche, installando altre mille centrifughe IR6 presso la centrale nucleare di Natanz. Questo, quando l’accordo nucleare del 2015 consente l’arricchimento solo fino a un livello di purezza del 3,67%.
In ogni caso, il negoziato presieduto da Enrique Mora, vice alto rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, è andato avanti, avendo superato la sesta tornata di colloqui. Sono state concordate delle bozze di documenti. Tutte le delegazioni hanno riconosciuto che sono stati compiuti dei progressi significativi e che esiste la volontà di continuare a lavorare per un accordo, ma tutte hanno anche convenuto che alcune questioni chiave devono ora essere decise dai governi, prima di addentrarsi nelle fasi conclusive del negoziato.
Rouhani e Zarif vorrebbero arrivare ad un accordo prima del 3 agosto, la data dell’insediamento del presidente eletto Raisi. Seyed Abbas Araqchi, vice ministro degli Esteri e capo della delegazione iraniana, ha sottolineato come ancora forte sia la sfiducia nei confronti degli USA, per cui uno dei principali nodi dei negoziati sia quello di ottenere “garanzie” che ciò che l’amministrazione Trump ha fatto unilateralmente al JCPOA non si ripeta, cioè che non sia possibile la reimposizione di sanzioni e il ritiro dal JCPOA da parte di un’amministrazione USA. Un obiettivo che richiederebbe il voto positivo del Senato americano e non solo la forma dell’accordo e di un ordine esecutivo (che può sempre essere revocato da un presidente in qualsiasi momento) da parte del presidente Biden. Khamanei, Raisi e i Guardiani della Rivoluzione potrebbero decidere di lasciare a Rouhani il compito di arrivare ad un accordo prima che esca di scena in modo da far ricadere sui moderati la responsabilità dell’intesa per poi beneficiare delle eventuali ricadute economiche positive derivanti dalla cancellazione totale e o parziale delle sanzioni americane. D’altra parte, l’amministrazione Biden interessata ad arrivare ad un accordo con l’Iran nell’ottica di una riduzione dell’impegno militare americano in Medio Oriente, che era stato rafforzato nel 2019-20 per le tensioni proprio con l’Iran, e anche per cercare di sottrarre l’Iran agli accordi commerciali, economici ed infrastrutturali con la Cina.
I conservatori al potere e la strategia “Guarda ad Est”
Nella Repubblica Islamica dell’Iran, con l’elezione di Raisi, tutto il potere è omogeneamente gestito dai conservatori: la presidenza della repubblica e quindi il governo, il Consiglio degli Esperti, il Consiglio dei Guardiani, il Parlamento (Majlis), con la prospettiva probabile della sua nomina a Guida Suprema nel momento in cui Ali Khamenei si ritiri (è anziano e malato) o muoia. Questo, a meno che la successione a Guida Suprema non passi al figlio Mojtaba Khamenei, con la instaurazione di una dinastia famigliare. Tra gli analisti si fa anche un gran parlare di una possibile riforma costituzionale che consenta il passaggio da una repubblica presidenziale ad una repubblica parlamentare con un primo ministro scelto dal Parlamento.
Raisi si è dichiarato favorevole alla riapertura del negoziato per il JCPOA, perché il peso delle sanzioni è insostenibile. L’Iran si trova sulla quarta più grande riserva di petrolio al mondo e dipende fortemente dalle entrate petrolifere. Se e quando l’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il governo iraniano raggiungeranno un accordo che comporti la revoca delle sanzioni, l’Iran prevede di aumentare la produzione a 3,8 milioni di barili al giorno (bpd) dagli attuali 2,1 milioni di bpd, secondo il ministero del petrolio.
Allo stesso tempo, Raisi condivide con Khamenei la sfiducia verso il mondo occidentale ed è contrario all’allargamento del negoziato a temi che vanno oltre il nucleare. Nella sua prima conferenza stampa, infatti, Raisi ha ribadito che il programma missilistico iraniano così come la politica di sostegno alle milizie regionali sono questioni “non negoziabili”. Ha anche rifiutato la possibilità di incontrare Joe Biden. “Loro (gli Stati Uniti) non hanno rispettato il precedente accordo. Come vogliono entrare in nuove discussioni?” ha detto Raisi.
Al contempo però è possibile attendersi una continuazione del tentativo di dialogo regionale avviato da Zarif con i Paesi del Golfo dal 2019 (con la proposta Hope), in particolar modo con l’Arabia Saudita (colloqui segreti sono stati avviati da aprile a Baghdad18), fino a che questo non metta in pericolo la dottrina iraniana della “difesa avanzata” e i pilastri ideologici del sostegno alla “resistenza” e del rifiuto del riconoscimento di Israele.
Lo sguardo del governo Rouhani era rivolto all’America e all’Europa e soprattutto nei primi 5 anni di mandato (fino al 2018) sono state ignorate le opportunità che stavano ad Est. Più volte la Guida Suprema Khamanei ha esortato il governo a fare attenzione anche ad altre regioni del mondo, a cominciare da Cina e Russia. Ora, gli “intransigenti“, i “principalisti” conservatori sono “il nocciolo duro del regime“, controllano tutte le leve politiche ed economiche chiave, mentre le altre correnti, i “riformisti” e i “pragmatici”, sono rimasti fuori dalle istituzioni. Sulle ali della narrativa antisionista e antiamericana, hanno gradualmente indirizzato le tendenze della nazione verso la Russia e la Cina.19
La nuova politica “Guarda a Est“, considerata una strategia di politica estera alternativa in Iran, è stata formulata e attuata sotto la diretta supervisione della Guida Suprema. L’ex presidente del parlamento Ali Larijani è il rappresentante speciale di Khamenei per i legami strategici con la Cina. Ha avuto un ruolo chiave nel raggiungimento di un accordo di partenariato strategico globale con Pechino nel 2020. Allo stesso modo, Khamenei ha spesso fatto affidamento su “inviati speciali” al di fuori del ministero degli Esteri per sviluppare le relazioni con la Russia e l’India.20
L’Iran, insieme alla Turchia, occupa una posizione strategica nell’ambito della Belt and Road Initiative (BRI), la strada cinese alla globalizzazione, per la loro posizione geografica tra Europa e Asia che permette l’incontro tra i corridoi Nord-Sud ed Est-Ovest. La rete ferroviaria di 2.300 km che collega Urumqi a Teheran è, per la Cina, una porta terrestre verso l’Europa. Sappiamo che la BRI potrebbe collocare la Cina “al centro della scena mondiale“, come grande potenza al centro di nuove catene di fornitura e di un nuovo ordine economico globale, rendendo l’Eurasia – dominata dalla Cina, insieme alla Russia, all’Iran e all’Unione Europea – un’area economica e commerciale in grado di competere con quella transatlantica ancora dominata dall’America.21
Gli investimenti cinesi in Iran hanno raggiunto i 6,8 miliardi di dollari e hanno toccato i settori energetico, chimico, minerario e dei trasporti. Il 27 marzo 2021, Cina e Iran hanno firmato un’intesa strategica venticinquennale (il cui testo per ora è rimasto segreto) che prevede investimenti cinesi, quantificati dai media americani in 400 miliardi di dollari, nelle telecomunicazioni, settore bancario, porti, ferrovie, sistema sanitario, in cambio di una fornitura vantaggiosa di petrolio.
I due Paesi collaboreranno anche militarmente con esercitazioni congiunte. Un accordo che garantisce anche il sostegno politico della Cina al rilancio del JCPOA.
- Dopo che l’allora Guida Suprema Ayatollah Ruhollah Khomeini ha accettato un cessate il fuoco mediato dalle Nazioni Unite, i membri del gruppo di opposizione iraniano Mujahedeen-e-Khalq, pesantemente armati da Saddam Hussein, hanno attraversato il confine iraniano dall’Iraq in un attacco a sorpresa. I processi iniziarono in quel periodo, con gli imputati invitati a identificarsi. Coloro che hanno risposto “mujahedeen” sono stati condannati a morte, mentre altri sono stati interrogati sulla loro disponibilità a “ripulire i campi minati per l’esercito della Repubblica islamica“, secondo un rapporto di Amnesty International del 1990. I gruppi per i diritti internazionali hanno stimato che fino a 5 mila persone furono giustiziate.[↩]
- Sotto il profilo formale della sua amministrazione, il Consiglio degli Esperti si riunisce due volte l’anno, di fatto per discutere in merito all’operato della Guida Suprema, sebbene mai nella storia dell’Istituzione ne sia stato – almeno ufficialmente – contestato il ruolo o l’operato. Il Consiglio è strutturato al suo interno in un Consiglio Direttivo e sei Comitati. Il Consiglio viene eletto ogni due anni con voto segreto e si compone del Presidente, dei due vicepresidenti, due segretari e due assistenti, e rappresenta l’organo più importante e influente per la gestione dell’Assemblea. I sei comitati sono invece composti ognuno da circa 13-15 membri e presieduti da un direttivo di altri cinque con funzioni di coordinamento, ed ognuno di essi si occupa di un tema specifico, riferendo periodicamente al Consiglio Direttivo. Tra i più importanti dei sei comitati, invece, spiccano quelli denominati Articolo 107, Articolo 109 e Articolo 111, riferiti ad altrettanti articoli della Costituzione. Il primo si occupa di valutare le qualità e le competenze da giurisperito del rahbar, la Guida Suprema, mentre il secondo è costantemente impegnato nella valutazione di possibili candidati per l’assunzione della più alta carica istituzionale. La commissione per l’Articolo 111 è probabilmente la più importante tra le sei, ed è quella che deve monitorare il lavoro svolto dalla Guida Suprema ed eventualmente proporne le revoca dall’incarico. Questa commissione si compone di sette membri e i suoi rapporti sono secretati, accessibili esclusivamente dal Consiglio Direttivo. C’è poi la commissione Articolo 108, che si occupa di verificare la conformità dell’operato del Consiglio con la legge che ne regola il funzionamento, promulgata dal Consiglio dei Guardiani, e poi ancora le commissioni per la Finanza e il Budget e quella per gli affari Sociali e Politici. Secondo alcuni sarebbe presente all’interno del Consiglio anche un comitato segreto, istituito nel 2002 e composto da tre soli membri, che si riunirebbe all’insaputa dei restanti componenti del Consiglioa e la cui funzione sarebbe quella di identificare dieci candidati sempre potenzialmente pronti a rappresentare la prima linea delle candidature per la successione alla Guida, in caso di morte o incapacità. Tale compito, tuttavia, è di fatto già svolto dal comitato per l’Articolo 109, e il lavoro della commissione segreta risulterebbe in tal modo tanto ridondante quanto inopportuno all’interno del Consiglio, rendendo alquanto improbabile la credibilità delle informazioni che ne paventano l’esistenza.[↩]
- E’ bene ricordare che Al Qaeda, l’ISIS/Daesh (lo Stato islamico sunnita nato in 90 giorni a cavallo fra Siria e Iraq nel 2014, dove vivevano 8 milioni di persone), al-Nusra e altri movimenti del jihad (“sforzo”) sunnita sono stati prodotti dalle contraddizioni e dagli errori delle politiche che gli americani e i loro alleati occidentali e arabi hanno adottato in Medio Oriente e, più in generale, nei confronti di una gran parte del mondo musulmano negli ultimi tre decenni. Contraddizioni ed errori politici che hanno determinato sia la distruzione di regimi autoritari, ma laici e nemici del jihadismo, in Iraq, Libia e Siria, sia un rafforzamento politico-territoriale della componente sciita rispetto a quella sunnita e dell’influenza geopolitica della Repubblica Islamica dell’Iran – che si è estesa da Herat in Afghanistan al Libano meridionale (la cosiddetta “mezzaluna sciita”), dalle montagne dell’Hindu Kush alle coste del Mediterraneo – rispetto a quella di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (insieme ai loro più stretti alleati: Bahrain, Kuwait, Giordania ed Egitto) Ma, anche un rafforzamento dell’influenza sul mondo arabo sunnita di Qatar e di Turchia, quest’ultima vista da Arabia Saudita e EAU con crescente sospetto per le sue aspirazioni a far rivivere la gloria dell’Impero Ottomano e per il sostegno da parte del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan (e il suo alleato Qatar) ai gruppi di opposizione dell’Islam politico – in particolare alla Fratellanza Musulmana – che hanno sfidato dittatori militari e monarchie prima, durante e dopo la “Primavera Araba” del 2010-2011.[↩]
- Nel 2017 l’Arabia Saudita, forte dell’investitura datale da Trump come potenza leader del mondo islamico sunnita, ha fatto scoppiare la crisi tra il cosiddetto “quartetto arabo” – Arabia Saudita, Emirati, Bahrain, Egitto – e il Qatar, accusato di “appoggiare vari gruppi terroristici e settari che mirano a destabilizzare la regione” – con esplicito riferimento ad Hezbollah (vista come la maggiore minaccia per Israele, ma in larga parte sorta a seguito dell’invasione ed occupazione israeliana del sud Libano nel 1982, che mirava a eliminare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina), ISIS, Fratellanza Musulmana (l’organizzazione politica di matrice islamica, nata in Egitto nel 1928 e considerata nei Paesi arabi il maggiore avversario politico dalle dittature militari o case regnanti sunnite), Hamas (la filiazione palestinese del movimento della Fratellanza Musulmana) –, oltre a dare sostegno ad “attività terroriste di gruppi legati all’Iran”. Una crisi non solo politico-diplomatica (con l’espulsione del Qatar dal Gulf Cooperation Council, l’associazione regionale creata nel 1981 con il sostegno degli USA per rafforzare le difese contro l’Iran), ma che ha comportato la minaccia di una invasione militare del piccolo regno (wahhabita come l’Arabia Saudita) da parte dei suoi vicini, il blocco dei confini con l’Arabia Saudita (che ha minacciato anche di realizzare un canale lungo 60 km e largo 200 metri lungo il confine, un’opera che sarebbe costata 750 milioni di dollari), dei rapporti economici e delle comunicazioni. Oltre l’80% del cibo consumato in Qatar arrivava passando per l’Arabia Saudita, trasportato ogni giorno da centinaia di camion che attraversavano l’unico confine di terra che ha il Paese. L’embargo saudita ha costretto il Qatar a rivoluzionare le fonti (Turchia, Iran, India, Marocco) e la logistica – utilizzando aerei e navi – dei suoi approvvigionamenti alimentari, con un forte aggravio del costo delle importazioni (100 milioni di dollari all’anno per il solo costo dell’utilizzo dello spazio aereo dell’Iran). Per sostituire il latte saudita è stata creata ex novo una filiera del latte nel deserto, importando 19 mila mucche Holstein da Germania, Australia, Nuova Zelanda e California, e alloggiandole in grandi capannoni con l’aria condizionata.[↩]
- L’Iran, insieme a Venezuela, Iraq, Kuwait e Saudi Arabia, è uno dei soci fondatori dell’OPEC, il cartello dei Paesi produttori di petrolio nato nel 1960 per contrastare il potere delle “sette sorelle”, le compagnie petrolifere statunitensi e britanniche, e da allora guidato dall’Arabia Saudita. Il primo shock petrolifero si è avuto con la decisione dell’OPEC di aumentare i prezzi del petrolio e la decisione dei Paesi arabi di porre l’embargo all’export di petrolio verso i Paesi occidentali durante la guerra arabo-israeliana del 1973. Con l’aumento del prezzo del petrolio da 3 a 12 dollari al barile, il costo dei fattori energetici è cambiato in modo drammatico, innescando un processo violentemente inflazionistico, e ha spinto tutti i segmenti dell’economia dei Paesi Occidentali a cercare modi per economizzare i consumi energetici attraverso l’introduzione di cambiamenti tecnologici ed organizzativi. Allo stesso tempo, l’aumento del prezzo del petrolio ha creato il problema del riciclaggio del surplus di petro-dollari che ha accentuato l’instabilità dei mercati finanziari mondiali. Alla fine degli anni ’70, il secondo shock petrolifero – con il raddoppio del prezzo del barile – a seguito della rivoluzione iraniana guidata dall’ayatollah Ruḥollāh Khomeini nel 1978-79 contro la monarchia dello Shah Mohammad Reza Palhavi e contro il “Grande Satana” americano (esemplificata dalla crisi dei 52 ostaggi sequestrati all’ambasciata USA per 444 per giorni, costata la rielezione al presidente Jimmy Carter) e della disastrosa guerra tra Iran e Iraq, ha contribuito a far arrivare l’inflazione al 14,8%, il tasso d’interesse fissato dalla FED al 19% e il prime rate al 20,5% negli USA nel maggio 1981. L’intensificarsi delle criticità, contraddizioni, rigidità, rendite di posizione e conflitti economici, sociali e politici avevano ampiamente inceppato il processo di accumulazione del capitale, fatto esplodere la competizione intercapitalistica in presenza di una crisi di sovraccumulazione di capitali e sovrapproduzione di merci, arrestato il dinamismo del sistema capitalistico e mandato in crisi la struttura sociale dell’accumulazione Fordista-Keynesiana che si era via via consolidata nel dopoguerra nel mondo occidentale durante i “trenta gloriosi”.[↩]
- Sul piano politico e militare, la maggiore sfida alla globalizzazione neoliberista è stata e rimane quella portata dai sostenitori delle interpretazioni tradizionaliste dell’Islam, ossia dalle parti più fondamentaliste ed integraliste del mondo musulmano che non sono disponibili a confrontarsi positivamente con il modo di produzione capitalista e con l’insieme strategico di relazioni che stanno alla base della cosiddetta “modernità occidentale”: il secolarismo illuministico e la separazione tra religione e politica, la libertà personale, la parità dei generi, la prevalenza della scienza e della tecnica sulla rigidità delle ideologie, la formazione di una classe media diffusa, l’esistenza di un’opinione pubblica libera ed indipendente, l’universalità dei diritti umani, la democrazia rappresentativa, le rotture e il consumismo del capitalismo contemporaneo. Vogliono restaurare, dopo 1400 anni, il sistema politico-religioso fondato dal profeta Maometto nella città di Medina, nella Penisola Arabica, dividendo il mondo in soldati di Dio e infedeli, e, allo stesso tempo, tendono a rappresentare ed affermare valori, umori, identità e aspirazioni politiche (anti-imperialiste, anti-monarchiche e anti-autoritarie) delle masse musulmane urbane e rurali più emarginate, alienate, povere e in gran parte non ancora alfabetizzate, alimentando anche la contrapposizione tra i sunniti, che rappresentano l’80% degli oltre 1,8 miliardi di persone del mondo islamico, e gli sciiti.
Quest’ultima è una diatriba che ha preso una svolta politica, economica e geostrategica nel corso della storia, invece di mantenere solamente delle implicazioni religiose e dottrinali, e in alcuni momenti (come dal 1979 ad oggi) ha assunto le caratteristiche di una vera e propria guerra civile islamica. Affonda le sue radici nel 632 dC, l’anno della morte del profeta Maometto, il fondatore dell’Islam. Le tribù arabe che lo seguivano si divisero sulla questione di chi avrebbe dovuto ereditare quella che a tutti gli effetti era una carica sia politica sia religiosa. La maggioranza dei suoi seguaci, che sarebbero in seguito divenuti noti come sunniti, appoggiarono Abu Bakr, amico del profeta e padre della moglie Aisha. Secondo gli altri, il legittimo successore andava individuato tra i consanguinei di Maometto. Sostenevano che il profeta avesse designato a succedergli Alī ibn Abī Ṭālib, suo cugino e genero, e diventarono noti come sciiti, una forma contratta dell’espressione “shiatu Alī”, i partigiani di Alī. I sostenitori di Abu Bakr ebbero la meglio, anche se Alī governò per un breve periodo in veste di terzo califfo, il titolo conferito ai successori di Maometto. La frattura (o fitna, come la chiamano i musulmani) in seno all’Islam si consolidò quando Hussein ibn Alī, secondogenito di Alī e di Fatima (la quarta e ultima figlia di Maometto), fu ucciso con la sua famiglia il 10 ottobre 680 (secondo il calendario cristiano) a Karbala, nell’attuale Iraq (che storicamente è stato la culla dell’Islam sciita e in cui si trovano i suoi maggiori santuari, le “città sante” come la stessa Karbala e Najaf, e le grandi scuole religiose) dalle truppe del califfo sunnita Yazid al potere, mentre cercava di rivendicare il califfato di suo padre. Per gii sciiti il martirio di Hussein è divenuto il simbolo della lotta eterna del bene contro il male e degli oppressi contro l’ingiustizia. Un evento che ha dato vita alla cerimonia di lutto ashura, durante la quale i fedeli sciiti in processione si battono il petto e si flagellano la schiena per rivivere la passione di Hussein. I governanti sunniti hanno continuato a monopolizzare il potere politico, mentre gli sciiti hanno vissuto all’ombra dello Stato, cercando una guida nei loro imam, i primi dodici dei quali discendevano direttamente da Alī. Con il passare del tempo, le credenze religiose dei due gruppi cominciarono a differenziarsi.
Oggi, tutti i musulmani del mondo concordano sul fatto che Allah sia l’unico dio e che Maometto sia il suo profeta. Osservano i cinque pilastri dell’Islam – fede, preghiera (5 volte al giorno), elemosina obbligatoria, digiuno dall’alba al tramonto durante il mese di ramadan, pellegrinaggio (hajj) annuale alla Mecca (per coloro che sono in grado di farlo) – e condividono un libro sacro, il Corano (“predicazione”), che contiene le rivelazioni recapitate dall’arcangelo Gabriele a Maometto. Tuttavia, mentre i sunniti basano molto la loro pratica religiosa anche sugli atti del profeta e sui suoi insegnamenti (la sunna), gli sciiti vedono nei loro leader religiosi, gli ayatollah, un riflesso di Dio sulla Terra. Questo ha indotto i sunniti ad accusare gli sciiti di eresia, mentre gli sciiti sottolineano come il dogmatismo sunnita abbia dato vita a sette estremiste tradizionaliste e antimoderne come i puritani wahhabiti dell’Arabia Saudita – setta fondata da Mohammed Ibn Abd al Wahhab, vissuto tra il 1703 e il 1792, per il quale l’unica salvezza risiedeva nel ritorno all’unicità divina, al “tawhid”, e nell’uniformazione alla sharia – e i salafiti (un movimento apparso originariamente in Egitto) che predicano il ritorno ad un Islam “puro” (non contaminato da alcuna collusione con il mondo occidentale) e si ispirano ai “salaf al salih”, i “Pii Compagni del profeta”, modelli esemplari di virtù religiosa i cui valori e comportamenti tutta la comunità dei credenti (la ummah) dovrebbe seguire. Per la maggior parte delle sette sciite è di fondamentale importanza la credenza secondo cui il dodicesimo e ultimo imam sia nascosto (ossia “in occultamento”) e che un giorno riapparirà per compiere la volontà divina.
Gli sciiti sono un arcipelago all’interno della maggioranza del mondo musulmano sunnita arabo, turco, asiatico e africano. Dal punto di vista politico, il loro apice è stato l’impero Safavide che, sorto in Persia nel XV secolo, riportò una vittoria contro gli Ottomani (1603), conquistò tutto il territorio fino a Baghdad (1624), governandolo fino ai primi decenni del secolo XVIII. Oggi, gli sciiti sono maggioranza assoluta nella Repubblica Islamica dell’Iran (solo il 5-10% della popolazione è sunnita, concentrata soprattutto nel Khuzestan e Sistan-Balucistan) e prevalenti in Azerbaijan e Bahrain (dove però la famiglia sunnita degli Al Khalifa, al potere da oltre 200 anni e sostenuta finanziariamente da Arabia Saudita, Emirati e Kuwait, governa con metodi dittatoriali, torturando, incarcerando e togliendo la cittadinanza agli oppositori sciiti), ma sono diffusi – sia pure in senso fortemente minoritario – in tutti i luoghi ove vi sono musulmani, come in alcuni Paesi arabi dove sono massicciamente presenti. Alte percentuali di sciiti si trovano in Iraq – oltre il 60% della popolazione, dove sono attualmente al potere, Libano, Yemen e Kuwait, mentre forti minoranze sono presenti anche in Arabia Saudita (circa il 19% della popolazione, presente soprattutto nella regione di Qatif, ricca di petrolio) e Siria, mentre negli altri Paesi arabi gli sciiti sono fortemente minoritari. Fuori dal mondo arabo, cospicue minoranze sciite si trovano in Turchia (12 milioni di alawiti), Afghanistan (hazara), Pakistan (15-20% della popolazione, la più grande comunità sciita al di fuori dell’Iran) e India. Circa 27 milioni sono gli sciiti ismailiti nizariti sparsi in vari continenti e seguaci del 49mo imam Shah Karim al-Husaini, l’Aga Khan IV, per i fedeli discendente diretto del profeta Maometto, un leader religioso che ha portato ospedali e scuole in Afghanistan, Pakistan ed Africa, ma anche un personaggio conosciuto in Occidente soprattutto per i cavalli delle sue scuderie, per l’invenzione della Costa Smeralda e per la bellezza delle donne al suo fianco.
Circa un quinto della popolazione mondiale (1,8 miliardi) abbraccia l’Islam come religione e almeno 65 sono gli Stati che si dichiarano musulmani. Con 180 milioni di fedeli dichiarati su 268 milioni di abitanti, è l’Indonesia il Paese musulmano più popoloso del pianeta, ma la costituzione indonesiana si basa sulla dottrina detta Pancasila, che considera la democrazia uno dei princìpi fondanti della repubblica e garantisce il rispetto delle cinque religioni professate nell’arcipelago – Islam, Buddhismo, Induismo, Cristianesimo e Confucianesimo. L’Islam professato in Indonesia è stato a lungo considerato aperto e tollerante, ma negli ultimi decenni, come altrove nel mondo musulmano, anche grazie al sostegno finanziario e al proselitismo (dawa) dell’Arabia Saudita, si è assistito alla progressiva ascesa dell’Islam politico e di predicatori fondamentalisti salafiti, che ha condotto all’applicazione della sharia nella provincia di Aceh, a processi per blasfemia, alla proliferazione di gruppi terroristici e al fenomeno dei foreign fighters partiti per unirsi all’ISIS in Medio Oriente e rientrati in patria per commettere attentati, o confluiti nelle feroci guerriglie che hanno incendiato le Filippine. Dalla cella nella quale è rinchiuso da anni, l’imam fondamentalista Aman Abdurrahman continua a predicare l’istituzione di un califfato capace di abbracciare varie isole a cavallo tra Indonesia, Malaysia e Filippine, e a ispirare atti terroristici sempre più sanguinosi come quelli commessi a Surabaya, la seconda città indonesiana, dove nel maggio 2018 intere famiglie composte da madre, padre e bambini (dei quali il più piccolo aveva 9 anni) hanno scatenato un’ondata di attacchi kamikaze contro alcune chiese cristiane.
Una consistente popolazione di religione musulmana è presente anche in Cina. Sono gli Uiguri, una minoranza turcofona e musulmana sunnita di circa 12 milioni di persone originaria della provincia occidentale dello Xinjiang – un territorio ricco di risorse energetiche e attraverso il quale passa uno dei corridoi terrestri strategici della Belt and Road Initiative per l’accesso al Pakistan (Oceano Indiano), al Medio Oriente (Iran e Turchia) e all’Europa. Sebbene la civiltà cinese Han e il suo stato burocratico esistano da 3.500 anni, lo Xinjiang è entrato a farne parte solo a metà del XVIII secolo durante la dinastia Qing ed è stato assorbito nell’impero come una provincia alla fine del XIX. Quando la dinastia Qing è caduta nel 1911, la nuova Repubblica della Cina ha ereditato questa regione come un’appendice coloniale distante, governandola attraverso dei leader Han che hanno mantenuto un tenue collegamento con il potere dello Stato centrale. Insieme alla Mongolia interna e alla Manciuria, lo Xinjiang è stato occupato dall’Armata Rossa sovietica tea il 1934 e il 1945. Dopo il 1949, il PCC ha cercato di esercitare un maggiore controllo sulla regione e ha ribattezzato il territorio come Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang. Dalla fine degli anni ’50, lo Stato cinese ha incoraggiato la migrazione di cinesi Han nella regione (soprattutto nella parte settentrionale), facilitando un marcato cambiamento demografico: nel 1953 gli Han costituivano solo il 6% della popolazione dello Xinjiang, mentre nel 1982 erano il 38%. Gli Uiguri sono rimasti prevalenti nelle oasi e nei centri meridionali come Kashgar e Khotan.[↩] - Come sappiamo la sfida tra la parte più tradizionalista, fondamentalista ed integralista del mondo musulmano e il mondo occidentale è stata ampiamente provocata sul piano politico e culturale. Da un lato, c’è la mancata risoluzione del conflitto Israelo-Palestinese, che si trascina dagli anni ’40 del secolo scorso. E’ bene ricordare che nel 1917, ai tempi della dichiarazione Balfour con cui il governo inglese aveva promesso una patria agli ebrei in Palestina (senza mai nominare i palestinesi), qui c’erano 50 mila ebrei e mezzo milione di arabi, mentre nel 1945 – tre anni prima della nascita dello Stato d’Israele – gli arabi erano saliti a 1 milione e 240 mila, mentre gli ebrei erano 553 mila, per poi diventare 806 mila il 14 maggio 1948, quando David Ben Gurion fece la dichiarazione d’indipendenza, il giorno in cui i palestinesi commemorano la loro Nakba, “catastrofe”: l’espulsione di 845 mila palestinesi, i cui discendenti (circa 7 milioni) aspettano ancora l’applicazione della risoluzione 194, votata l’11 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale dell’ONU, che sancisce il loro “diritto al ritorno”. Dal 1948 i politici israeliani hanno promosso l’agenda sionista, invitando tutti gli ebrei della diaspora a non cullarsi in un falso senso di sicurezza e a trasferirsi in Israele, considerato come l’unico posto in cui possono essere veramente sicuri e realizzati.
Dall’altro lato, c’è stato l’intervento militare dello schieramento americano/occidentale, prima in modo surrogato, con le cosiddette “proxy wars”, attraverso il sostegno:
– ai mujaheddeen e ai “signori della guerra” in Afghanistan, sostenuti dalla CIA con la “Operation Cyclone”, riforniti dal Pakistan e finanziati dall’Arabia Saudita, nella vittoriosa guerra contro l’Armata Rossa sovietica dal 1979 al 1988 (ritiratasi nel 1989, dopo aver perso 20 mila uomini), che poi dal 1992 si è trasformata in una sanguinosa guerra civile tra sunniti e sciiti (della minoranza hazara) che ha fatto emergere i mullah taleban (“studenti coranici”) ed è durata fino al 2001. I taleban non sono riusciti mai a mettere sotto uno stabile controllo le zone più occidentali e settentrionali, dove i “signori della guerra”, spesso anche coltivatori d’oppio, non ne tolleravano lo zelo. Il governo dei taleban ricevette scarso riconoscimento internazionale (Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Pakistan);
– al regime iracheno di Saddam Hussein nella guerra contro l’Iran sciita dal 1980 al 1988, costata più di un milione di morti e finanziata da sauditi e altre monarchie del Golfo con 50-60 miliardi di dollari.
Lo scontro tra mondo musulmano e mondo occidentale è poi proseguito in modo diretto a cominciare dalla cosiddetta Prima Guerra del Golfo (1990-1991), definita a suo tempo una “guerra giusta” perché motivata dalla liberazione del Kuwait, dopo l’invasione da parte dell’esercito iracheno. Dopo l’attacco terroristico di Al Qaida al World Trade Center di New York e al Pentagono (11 settembre 2001), la sicurezza e l’identità sono diventati i temi prevalenti del dibattito politico nel mondo occidentale in rapporto al mondo islamico. Il panico diffuso tra gli americani e i loro alleati è stato utilizzato (specialmente negli Stati Uniti) per giustificare uno stato di emergenza permanente, con conseguenze dannose per le libertà civili e il dibattito pubblico interno, nonché per le molte migliaia di civili che sono diventati “danni collaterali” in Iraq, Afghanistan, Pakistan e altri Paesi di religione musulmana.
Abbiamo così avuto una escalation sul piano militare del conflitto con il mondo musulmano come conseguenza della strategia dei neoconservatori americani basata sulla “guerra globale al terrorismo” e all’”asse del male” (una frase coniata dallo speechwriter di George W. Bush, David Frum), sullo “scontro di civiltà“, sulla “esportazione della democrazia” e sull’imposizione di un “nuovo ordine internazionale” attraverso la “terapia” dello shock-and-awe (colpisci e terrorizza), con la guerra in Afghanistan (dal 2001), con la Seconda Guerra del Golfo (dal 2003) – generata da Bush jr e Blair in modo unilaterale come guerra preventiva, senza un piano strategico coerente (soprattutto su come gestire il dopoguerra) e senza il consenso dell’ONU, sulla base del falso teorema (la più grande fake news della storia contemporanea) e della costruzione a tavolino di false prove, che il regime di Saddam Hussein possedesse un arsenale di “armi di distruzione di massa” che avrebbero minacciato il mondo intero (Draper R., To start a war. How the Bush administration took America into Iraq, Penguin Press, New York, NY, 2020) -, con le “primavere arabe”, le guerre civili in Libia, Siria e Yemen (dal 2011) e gli attacchi terroristici da parte di estremisti islamici in vari Paesi (soprattutto in Europa, Medio Oriente, Asia e Africa).
Bush Jr ha invaso militarmente l’Iraq nonostante che Saddam Hussein, il dittatore iracheno, non avesse armi di distruzione di massa, nessun legame con al-Qaeda e nessuna responsabilità per l’11 settembre. Inoltre, Bush Jr. ha condotto gli Stati Uniti in una guerra inutile, non tenendo conto della dottrina Powell – l’idea promulgata dal generale Colin Powell mentre era Chairman of the Joint Chiefs of Staff durante la Prima Guerra del Golfo – che per gli USA sia possibile entrare in guerra solo quando sono in gioco interessi nazionali vitali e sia possibile assicurare una vittoria schiacciante. La Carta dell’ONU vieta specificamente l’intervento straniero negli affari interni degli Stati sovrani, ma questo divieto è stato aggirato dal principio della “responsabilità di proteggere” le popolazioni civili formulato da Tony Blair. Ma man mano che le vittime civili sono aumentate, è divenuto evidente che tale principio veniva utilizzato come una mera copertura per guerre incessanti di aggressione occidentale dalle quali, non a caso, l’ONU è rimasto quasi del tutto ai margini.
Tutte guerre non vinte e ancora in corso, con innumerevoli crimini di guerra, abusi ed orrori che sono stati svelati da WikiLeaks fondata dall’australiano Julian Assange (che negli USA rischia fino a 175 anni di carcere per aver divulgato, a partire dal 2010, più di 700 mila documenti riservati sulle attività militari e diplomatiche statunitensi soprattutto in Iraq e Afghanistan). Dopo 20 anni, oltre 100 mila civili morti, oltre 2.300 militari americani uccisi (circa 450 quelli britannici) e oltre 20 mila feriti, i talebani (con 60 mila combattenti), in prevalenza pashtun – che disprezzano gli altri gruppi etnici del Paese: hazara, uzbechi, tagiki e turcomanni -, sostenuti dai crescenti ricavi del contrabbando di metalli preziosi, dei raccolti di hashish e oppio e del traffico internazionale di eroina (l’85% della fornitura mondiale) attraverso le frontiere porose con Pakistan e Iran, controllano ancora circa il 50% del territorio dell’Afghanistan (dove vive il 50% della popolazione), grandi città escluse.
Solo ad inizio settembre 2020 il governo afghano e i talebani hanno aperto a Doha colloqui di pace per cercare di raggiungere un accordo di condivisione del potere. Con gli americani e i loro alleati in partenza, e senza che siano stati coinvolti nelle trattative di pace altri Paesi interessati alle sorti dell’Afghanistan (come Pakistan, India, Russia, Cina, Arabia Saudita e Iran, dove tra l’altro vivono legalmente o illegalmente milioni di afghani), è assai probabile che dopo 2-3 anni dalla firma di un accordo, dopo un periodo di “guerra civile totale”, il controllo del Paese venga ripreso dai talebani, ossia dagli stessi spietati militanti fondamentalisti contro i quali gli Stati Uniti (che li avevano designati come terroristi) erano andati in guerra per rimuoverli dal potere nel 2001.
Oggi, secondo i dati offerti dall’UNHCR (2020), l’Afghanistan conta una popolazione di 35 milioni di persone. Quasi il 25% è costituito da ex rifugiati che hanno fatto ritorno alle proprie case nell’arco degli ultimi 18 anni, mentre oltre un milione sono sfollati interni. Circa 4,6 milioni di afghani, compresi 2,7 milioni di rifugiati registrati, vivono ancora al di fuori dei confini nazionali. Circa il 90% di questi è accolto da Pakistan (1,4 milioni) e Iran (1 milione). A questi si aggiungano i tanti e le tante che sono nati in territorio “straniero” e non vengono più neanche considerati afghani. Già da prima dell’apertura dei negoziati “interafghani”, per alcuni Paesi europei come Germania, Olanda, Danimarca, l’Afghanistan era considerato “Paese sicuro”, in cui rispedire i richiedenti asilo. Simili politiche venivano messe in atto dalla Turchia come dai Paesi della “rotta balcanica”. Sovente le persone rimpatriate avevano militato nell’esercito regolare, le loro famiglie avevano subito abusi e minacce, c’era chi attendeva il loro rientro per consumare vendette. Molti fra i ritornati sono caduti nel vortice della tossicodipendenza o sono stati arruolati sommariamente in milizie o nell’esercito regolare. Hanno ripreso a combattere per vivere. Alcuni sono stati uccisi o si sono suicidati pur di non precipitare nel “Paese sicuro”.[↩] - Negli ultimi decenni si è consolidato, rafforzato ed ampliato il patto stipulato tra Franklin Delano Roosevelt e il re saudita Abd al-Aziz ibn Saud (che aveva unificato il regno saudita nel 1932) a bordo dell’incrociatore Quincy nel febbraio 1945 (Roosevelt stava tornando negli USA dopo l’incontro di Yalta, sulle coste del Mar Nero, con Stalin e Churchill). Un accordo fondato sullo scambio fra sicurezza e petrolio (scoperto in Arabia Saudita nel 1938), gestito direttamente dalla Casa Bianca e cementato dagli acquisti multimiliardari di armi americane e da una influente rete di simpatie statunitensi (formata da affari, banche, think tanks, centri di ricerca, studi di avvocati, consulenti di pubbliche relazioni, consiglieri e lobbisti) costruita e alimentata finanziariamente dai sauditi nel corso degli anni, d’intesa con le altre 5 monarchie petrolifere del Golfo, che ha portato la politica americana a chiudere gli occhi sul totale non rispetto dei diritti umani – torture e altri maltrattamenti delle voci critiche, punizioni severe per i lavoratori migranti e decapitazioni di massa, sia di “terroristi” sciiti sia di criminali comuni – da parte dei sauditi e dei loro alleati regionali. Un’alleanza militare e finanziaria che è sopravvissuta alla creazione di Israele e ai conflitti arabo-israeliani, all’embargo sul petrolio (1973-74), alla rivoluzione iraniana (1979), all’11 settembre 2001, alla guerra in Iraq (2003), alle “Primavere Arabe” (2011), all’accordo americano sul nucleare con l’Iran (2015), alla disastrosa guerra in Yemen e all’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi (2018).
Nel 1974, durante la prima grande crisi petrolifera, il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, William Simon, viaggiò segretamente in Arabia Saudita per ottenere un accordo che rimane fino ad oggi uno dei fattori del dominio globale del dollaro (Spiro, 1999). Gli Stati Uniti hanno condizionato la garanzia di sicurezza dell’Arabia Saudita e degli altri Paesi del Golfo all’utilizzo delle risorse finanziarie risultanti dalla vendita del petrolio al sostegno del dollaro. Con l’accordo Simon, l’Arabia Saudita ha accettato di fissare la parità fissa tra il rial e il dollaro e di acquistare grandi quantità di buoni del tesoro americano, oltre ad utilizzare i banchieri di Wall Street per canalizzare i flussi di investimento finanziari. Inoltre, gli Stati Uniti hanno costretto l’Arabia Saudita e gli altri Paesi OPEC a fissare i prezzi del petrolio in dollari. In questo modo, il sistema finanziario internazionale basato sul dollaro ancorato alle riserve auree è stato sostituito dal dollaro ancorato al petrolio, continuando ad assicurare il valore e la preminenza globale della moneta americana (questo anche se oggi gli USA importano dal Medio Oriente solo una piccola percentuale del petrolio di cui hanno bisogno). Nel novembre 2018, sette settimane dopo l’assassinio del giornalista Khashoggi, Trump ha annunciato che l’Arabia Saudita aveva acconsentito a investire 450 miliardi di dollari negli Stati Uniti. Far saltare questo impegno “sarebbe folle”, ha detto.
Per gli Stati Uniti (insieme alla Gran Bretagna, come junior partner) i giacimenti petroliferi sauditi (come quelli di gas del Qatar) sono stati dal 1945 prima di tutto una fonte di potere strategico da cui è dipesa e ancora dipende in gran parte la stabilità economica e politica sia dell’Europa occidentale sia del Giappone e di recente anche di Cina, India, Corea del Sud e delle altre economie asiatiche. Il dominio degli Stati Uniti sulla regione del Golfo ha dato a Washington un grande potere di influenzare il destino di alleati e rivali (se volesse potrebbe tagliare i loro rifornimenti energetici).
Per questo gli Stati Uniti hanno un’enorme presenza militare nella regione. Il Comando Centrale degli Stati Uniti è localizzato nella base aerea di al-Udeid in Qatar, la più grande base aerea del mondo, con più di 10 mila militari USA. Manama in Bahrain è il porto permanente della Quinta Flotta, oltre ad avere una base aerea e 7 mila militari americani. Negli Emirati Arabi Uniti, gli Stati Uniti hanno 5 mila soldati permanenti, 2 basi navali e una base aerea. In Kuwait, hanno oltre 12 mila soldati con accesso a 3 basi militari e a una base aerea. In Oman, hanno 4 basi aeree e 2 basi navali. In Iraq, hanno ancora circa 3 mila militari di stanza nella base aerea di al-Asad, a nord-ovest di Baghdad, e in quella di Kirkuk. In Arabia Saudita, svolgono una missione di addestramento militare con sede nel villaggio di Eskan, mentre circa 3.500 soldati sono arrivati nella base Prince Sultan tra luglio ed ottobre 2019. Inoltre, hanno strette alleanze con la dittatura militare in Egitto e con il governo d’Israele, mentre la Turchia fa parte della NATO. Solo l’Iran, che si è staccato dal sistema americano nel 1979, non ospita basi militari USA. Alle basi americane, inoltre, vanno aggiunte la base dell’esercito francese ad Abu Dhabi dal 2009 e la presenza della marina militare inglese in Oman e Bahrain.[↩] - L’Iran è un Paese estremamente fragile dal punto di vista ecologico. La desertificazione e la scarsità d’acqua hanno già iniziato a minare il sostentamento di decine di milioni di persone, rendendo insostenibile buona parte della produzione agricola, a cominciare da quella del pistacchio (di cui, insieme agli USA, l’Iran è il maggiore produttore ed esportatore al mondo). Si tratta di problemi che sono in larga parte il risultato di una cattiva gestione ambientale da parte delle autorità statali. Se non si risolvono le crisi ambientali, tra un decennio, la metà delle province iraniane diventerà probabilmente inabitabile, mentre tra tre decenni, l’intero Paese potrebbe trasformarsi in un deserto. Le recenti alluvioni catastrofiche, iniziate a metà marzo e che durate fino all’aprile 2019 in oltre i due terzi delle province del Paese sono un esempio calzante. Più devastanti dei famigerati terremoti che affliggono il Paese, le ragioni delle inondazioni – che hanno provocato una devastazione massiccia, stimata in circa 3 miliardi di dollari – sono state principalmente create dall’uomo e sono il risultato di una cattiva gestione. Gli attivisti ambientali sono visti come una minaccia alla sicurezza nazionale, poiché il loro lavoro svela la complicità dei governanti nella catastrofe ecologica.[↩]
- Durante il suo mandato, l’amministrazione Trump ha fatto un uso unilaterale massiccio di alcuni strumenti sanzionatori – protezionismo, sanzioni economiche e finanziarie di tipo primario e secondario (che colpiscono un terzo dell’umanità in 39 Paesi) e diplomazia della “massima pressione” – contro i “rogue States”, gli “Stati canaglia, Paesi come Iran, Venezuela, Corea del Nord, Cuba, Russia e, almeno in parte, Cina. L’uso di questi strumenti ha fatto fatica ad ottenere i risultati desiderati – se non quello di peggiorare di molto le condizioni di vita dei cittadini dei Paesi finiti nel mirino -, ma ha reso più instabile, incerto e pericoloso l’intero sistema di relazioni politiche ed economiche internazionali.[↩]
- La Corea del Nord è un Paese di 25 milioni di abitanti che Trump ha affermato più volte essere governato da un “regime depravato” e che riteneva fosse possibile “distruggere completamente”. Questo prima di decidere di incontrare Kim Jong-un a Singapore e definire quel summit un successo, anche se la Corea del Nord non ha mai modificato il suo comportamento sfidante, ha continuato a condurre test missilistici e nell’ottobre 2020 ha esposto un nuovo missile balistico intercontinentale mobile.[↩]
- Se la repressione politica da parte dei dittatori ostacola il cambiamento politico e schiaccia l’opposizione nel breve termine, conferisce agli islamisti un legittimo motivo di risentimento da sfruttare in futuro. Se i regimi autoritari non riescono a migliorare le condizioni economiche delle popolazioni – e finora non l’hanno fatto – ciò danneggia anche la loro capacità di ripristinare la stabilità, e quindi di mantenere il controllo. Nel corso del 2019, Iraq, Iran, Tunisia, Giordania, Libano, Ageria, Marocco, Sudan ed Egitto hanno vissuto ondate di proteste contro politiche economiche impopolari (aumento di tasse e prezzi). Manifestazioni di protesta a Baghdad, Nassiriya, Bassora, Karbala e altre città dell’Iraq centro-meridionale, contro le condizioni politiche ed economiche in cui si trova il Paese – povertà, disoccupazione, mancanza di servizi di base (acqua, elettricità, istruzione, sanità) e corruzione sono dilaganti in un Paese che è uno dei maggiori produttori di petrolio al mondo (3,6 milioni di barili al giorno, per metà esportati in Cina) -, sono state represse duramente dal governo Abdul-Mahdi, dall’esercito, dalla polizia e dalle milizie (filo-iraniane), causando oltre 500 morti e oltre 30 mila feriti (ottobre/dicembre 2019). I manifestanti erano per lo più giovani (in maggioranza sciiti) che affermavano di essere cresciuti senza futuro e di essere stati esclusi da un mercato del lavoro che favorisce coloro che hanno legami politici clientelari (oltre il 40% dei trentenni è disoccupato). Conosciuto come muhasasa, il sistema di governo è stato introdotto dopo l’invasione guidata dagli Stati Uniti nel 2003 per dare una rappresentanza proporzionale ai vari gruppi etnici del Paese. Le posizioni ministeriali vengono divise tra i principali partiti politici che rappresentano sciiti, sunniti, cristiani e curdi e ci sono regole non scritte su come ciò deve accadere. I manifestanti antigovernativi hanno chiesto la fine di questo sistema di spartizione e della corruzione che l’accompagna.
Dopo quasi due mesi di proteste brutalmente represse e la richiesta di un cambio alla guida del Paese da parte dell’ayatollah Ali al-Sistani, il primo ministro Adel Abdul-Mahdi si è dimesso. Secondo gli osservatori, poco prima dell’uccisione del generale Qassem Soleimani da missili americani a Baghdad, il Paese rischiava lo stallo e una guerra civile. Successivamente, le proteste sono riprese all’insegna dello slogan “né con Washington né con Teheran”. Dopo due mesi, il presidente Barham Salih ha conferito l’incarico di primo ministro a Mohammed Tawfiq Allawi, un ex ministro delle Comunicazioni appartenente alla comunità sciita. La sua nomina non ha soddisfatto la domanda di cambiamento della protesta, mentre per formare un nuovo governo Allawi avrebbe dovuto trovare un punto di mediazione tra i due blocchi sciiti più potenti in Parlamento, guidati rispettivamente dal clerico populista Moqtada al-Sadr e da un gruppo di partiti appoggiati dall’Iran e collegati alle milizie paramilitari. Dopo poche settimane Allawi ha dovuto rinunciare a formare un nuovo governo tecnocratico dal momento che le lotte tra le diverse fazioni politiche hanno continuato ad infuriare. In piena crisi dovuta sia al nuovi lanci di missili sulla “zona verde” di Baghdad e sulle basi americane sia alla diffusione della pandemia CoVid-19, il presidente ha conferito l’incarico di formare un nuovo governo a Adnan Zurfi, un parlamentare filo-occidentale ed ex governatore della città santa di Najaf. Zurfi ha avuto l’appoggio di alcuni partiti sciiti e delle fazioni curde e sunnite, ma è stato subito respinto dal potente blocco Fatah, la seconda più grande coalizione del Parlamento, che lo ha considerato troppo vicino agli USA e critico nei confronti dell’Iran. Così il 9 aprile il presidente Salih ha nominato primo ministro Mustafa al-Kadhimi, giornalista diventato capo dell’intelligence irachena nel 2016. Con la fiducia ottenuta del Parlamento un mese dopo, al-Kadhimi è entrato in carica seppure con una compagine governativa non completa. Era considerato vicino agli americani, agli iraniani, ai gruppi sunniti, agli sciiti di al-Sadr e anche ai curdi. Inoltre, godeva del sostegno popolare, non essendo stato coinvolto in scandali di corruzione, ma la formazione del governo è avvenuta proprio secondo le logiche dettate da quel sistema di suddivisione del potere su base etno-settaria (noto in arabo come muhasasa ta’ifia), di cui i manifestanti avevano per mesi chiesto la fine.[↩] - Decenni di inazione e incapacità del Congresso hanno reso la presidenza americana ancora più forte di quando Arthur M. Schlesinger Jr. scrisse The imperial presidency nel 1973. In questo senso è bene ricordare che tre giorni dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, un Congresso americano scioccato e in preda al panico ha approvato l’autorizzazione all’uso della forza militare (AUMF) con un voto di 98-0 al Senato e di 420-1 alla Camera. Si tratta di una legge che ha dato al presidente USA (che ai sensi dell’articolo II della Costituzione è il comandante in capo, anche se formalmente non può dichiarare guerra) l’autorità di usare tutta la “forza necessaria e appropriata” contro chiunque abbia determinato “pianificato, autorizzato, impegnato o aiutato” gli attacchi o ospita tali persone o gruppi. Tre amministrazioni successive hanno utilizzato l’AUMF per giustificare l’azione militare in Afghanistan, in tutto il Medio Oriente, in Nord Africa, nell’Africa sub-sahariana e nel Pacifico. Dopo l’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani con missili lanciati da un drone, deciso unilateralmente da Trump tenendo all’oscuro Congresso e alleati, la Camera dei Rappresentanti, a maggioranza democratica, ha approvato una risoluzione (Iran War Powers) che stabilisce la cessazione dei poteri di guerra del presidente contro l’Iran senza il previo consenso del Congresso. La risoluzione non è vincolante e una risoluzione analoga è stata approvata anche dal Senato con il voto di 8 repubblicani (55 a 45). In ogni caso, Trump ha messo il veto alla risoluzione approvata da entrambe le Camere e in Senato non c’erano i voti per arrivare alla super maggioranza di due terzi necessaria per annullarlo.[↩]
- Il voto per l’Assemblea si è tenuto nelle cinque province del Nord Khorasan, del Razavi Khorasan, di Fars, di Tehran e di Qom, per eleggere un totale di 7 membri a completamento degli 88 scranni dell’Assemblea.[↩]
- Il processo di squalifica dei candidati alle elezioni rappresenta senza dubbio la principale causa dell’astensione da parte degli elettori, che vedono in questa decisione un tentativo di imporre un esecutivo caratterizzato da una forte rappresentatività delle formazioni conservatrici, espressione in principal modo della seconda generazione del potere iraniano. Sono stati circa 7.000 i candidati alle elezioni parlamentari il cui profilo è stato oggetto di “squalifica” da parte del Consiglio dei Guardiani – l’organo istituzionale chiamato a verificare l’eleggibilità di ogni singolo candidato – e tra questi anche molti parlamentari della precedente legislatura, per i quali il Consiglio ha ritenuto fossero cessate le capacità. I criteri di ammissibilità per le candidature dei parlamentari, passati al vaglio del Consiglio dei Guardiani, sono ampi e altamente discrezionali (come nel caso della “lealtà alla Repubblica Islamica” e della “reputazione”), permettendo a seconda delle fasi politiche vaste manovre di censura.[↩]
- A temere maggiormente questa deriva caratterizzata da apatia ed astensione è soprattutto la Guida Suprema, Ali Khamenei, che sull’affluenza alle urne – solitamente elevata – costruisce la legittimità delle istituzioni e la continuità del modello ideologico rivoluzionario, temendo al contrario fortemente che la società iraniana possa nuovamente esprimere il proprio dissenso come nel 2009 e nelle più recenti proteste dell’autunno 2019.[↩]
- Questo anche se a Washington i repubblicani sono apertamente contrari all’accordo a causa sia della vicinanza con le posizioni di Israele sia del sentimento di odio profondo nei confronti di Teheran, che affonda le sue radici nella crisi degli ostaggi dell’ambasciata statunitense ai tempi della rivoluzione islamica. Questo punto di vista è condiviso anche da alcuni democratici, e già nel 2015 Barack Obama aveva incontrato grandi difficoltà a far accettare l’accordo, che appunto non venne mai ratificato dal Senato.[↩]
- L’ambasciata dell’Arabia Saudita a Teheran è stata chiusa nel 2016 dopo essere stata presa d’assalto da manifestanti infuriati per l’esecuzione da parte dell’Arabia Saudita di un importante esponente religioso sciita, lo sceicco Nimr al-Nimrim.[↩]
- L’Iran partecipa come osservatore alla Shanghai Cooperation Organization, un’organizzazione politica, economica e di sicurezza nata nel 2001 che ha l’ambizione di diventare un modello per la costruzione di un nuovo tipo di relazioni internazionali caratterizzato da “nessuna alleanza, nessun conflitto e nessuna mossa contro alcun Paese terzo” e di cui fanno parte, oltre alla Cina, Russia, India, Pakistan, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan e Uzbekistan.[↩]
- Il porto iraniano di Chabahar è stato sviluppato con capitali indiani ed è considerato essenziale ai fini della penetrazione commerciale indiana in Asia centrale, soprattutto verso l’Afghanistan.[↩]
- Ferrari A. e Tafuro Ambrosetti E., a cura di, Russia e Cina, anatomia di una partnership, ISPI, Milano, 2019, https://www.ispionline.it/sites/default/files/media/foto/report_russia-china_anatomy-of-a-partnership_1.pdf[↩]