Le proteste in Perù legate all’arresto dell’ex presidente Pedro Castillo sono diventate sempre più violente, con una brutale repressione che ha provocato molti morti, e non mostrano segni reali di arresto. Nonostante la violenza politica senza precedenti e le richieste di dimissioni, il successore ed ex vicepresidente di Castillo, il presidente Dina Boluarte (un avvocato con una limitata esperienza politica e primo presidente donna del paese), ha rifiutato venerdì scorso di dimettersi, dicendo: “Il mio impegno è con il Perù“. Domani migliaia di indigeni aymara sciopereranno e manifesteranno a Lima (dove sono giunti con una carovana composta da centinaia di veicoli e salutata da migliaia di persone lungo il percorso da Puno a Lima) chiedendo che Boluarte li ascolti e si dimetta.
Il governo di Boluarte ha esteso lo stato di emergenza nella capitale, Lima, e in altre tre regioni (in particolare, nei dipartimenti di Cuzco e Puno, oltre al porto di Callao, vicino a Lima), dopo la scadenza di una precedente ordinanza di 30 giorni. Questo ha portato all’intervento dell’esercito e la sospensione di alcuni diritti costituzionali come la libertà di movimento e di riunione e l’inviolabilità del domicilio. In poco più di un mese dall’inizio delle proteste, 49 persone, compresi bambini e agenti di polizia, sono state uccise (con diverse centinaia di feriti tra i dimostranti e i poliziotti, molti con ferite di proiettili alla testa e al corpo), anche se le stime variano. Le manifestazioni si sono concentrate nell’area andina meridionale del Perù, in particolare nella regione di Puno, la più povera del Perù e con la più alta concentrazione di indigeni, e nelle città di Ayacucho e Arequipa, tra le altre, anche se si sono verificate nella capitale Lima la scorsa settimana. Sono questi gli ambiti territoriali in cui gli appelli alle dimissioni di Boluarte sono più risonanti, tra le popolazioni indigene rurali che hanno visto in Castillo uno di loro – un “figlio della terra” – penetrare nel mondo elitario della politica di Lima1.
Tuttavia, Castillo è entrato in carica inesperto, impreparato e riluttante a scendere a compromessi o stringere alleanze. Per questo motivo, le promesse della sua campagna di maggiore prosperità, miglioramento dell’istruzione e assistenza sanitaria per i poveri delle zone rurali non sono state realizzate. Poco prima di un terzo tentativo da parte del Congresso del Perù di metterlo sotto accusa, Castillo ha annunciato un autogolpe, decretando lo scioglimento del Congresso (che stava per estrometterlo dal potere) e governo e l’istituzione del governo per decreto. Tuttavia, il suo mandato si è concluso con il suo arresto il 7 dicembre; ora è in prigione con molteplici accuse, inclusa la corruzione2.
Boluarte e le forze di sicurezza del Perù, nel frattempo, sono state accusate di un uso eccessivo della forza che ha provocato la morte e il ferimento di dozzine di manifestanti.
Castillo ha sprecato un’opportunità di cambiamento a Lima
Nel luglio 2021, la vittoria di Castillo contro Keiko Fujimori, figlia dell’ex presidente e dittatore Alberto Fujimori (appoggiata dal premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa), ha rappresentato una drammatica rottura con decenni di governo di destra da parte delle élite di Lima3. Ma la totale mancanza di esperienza e infrastruttura politica di Castillo, tra gli altri fallimenti, ha fatto sì che nonostante la sua importante elezione, non fosse in grado di governare.
Il partito di Castillo non era mai stato al governo, non aveva esperienza. Castillo rappresentava la sinistra in Perù, ma la sinistra non era mai stata al potere e quindi non aveva un proprio gruppo dirigente professionale (durante i suoi 16 mesi di presidenza, Castillo ha dato vita a 5 governi e nominato 78 ministri per coprire 19 ministeri) e una maggioranza parlamentare in grado di produrre un buon e stabile governo4. Se anche la maggior parte della colpa del fallimento dei governi promossi da Castillo è da attribuire al Congresso e ai media (controllati dall’élite economica del Perù), che hanno cercato incessantemente di screditarlo, lui ha dimostrato di essere un dilettante politico.
Castillo si era candidato con lo slogan “Non più poveri in un paese ricco” e una piattaforma di ispirazione marxista (ma su diversi temi socio-culturali aveva un orientamento decisamente conservatore), promettendo di nazionalizzare la cruciale grande industria mineraria del paese (il Perù è il secondo produttore di rame al mondo, dopo il Cile), riscrivere la costituzione dell’era Fujimori e imporre tasse più alte ai ricchi. Quelle promesse, così come l’identità di Castillo come ex insegnante, leader sindacale e contadino, gli hanno procurato sostegno nelle aree rurali e tra la popolazione indigena, che rappresenta circa un quarto della popolazione totale del Perù.
Gli osservatori sottolineano che c’erano le condizioni per il cambiamento, per fare dei passi concreti nell’attuazione del programma elettorale – politiche ridistributive, maggiori programmi sociali per i poveri, espansione dell’assistenza sanitaria -, ma Castillo non è riuscito a cogliere il momento a causa di una totale mancanza di preparazione. A poco a poco, un presidente eletto da un popolo stanco di istituzioni disfunzionali e screditate, che voleva un’Assemblea costituente e riforme strutturali, ha iniziato a fare della sua missione quella di placare un avversario che non aveva altro obiettivo che quello di ottenere il suo impeachment. Questo atteggiamento ha portato Castillo a rompere con il suo partito nel giugno 2022 (è stato espulso, come anche la Boluarte nel gennaio 2022, per aver abbandonato il suo programma sociale). Non ha provato a mobilitare la sua base di appoggio per sconfiggere gli schemi dei suoi avversari, mentre via via ha ceduto alle pressioni di un Congresso che stava progressivamente perdendo la sua legittimità agli occhi della popolazione.
Nei mesi prima del 7 dicembre, è apparso chiaro che Castillo dovesse scegliere: abdicare o ribellarsi. Se si fosse ribellato avrebbe rischiato di aprire la strada ai suoi oppositori che lo avrebbero accusato di colpo di Stato. Di fronte a una terza mozione di impeachment nel Congresso il 7 dicembre, con l’opposizione che avrebbe forse ottenuto i 67 voti necessari, uno stanco e tremante Castillo ha finalmente deciso di parlare in televisione per denunciare il colpo di Stato permanente a cui era stato sottoposto da quando era entrato in carica, tentando di sciogliere “temporaneamente” la legislatura e di governare per decreto. Ma, il Congresso ha votato l’impeachment e due ore dopo Castillo è stato arrestato5.
La stratificazione profondamente diseguale della società e della politica peruviana ha giocato un ruolo cruciale nell’elezione di Castillo, ma anche nel determinare la sua caduta e l’attuale agitazione sociale. Castillo ha dato voce e rappresentanza al risentimento della parte più povera della popolazione peruviana. Durante la pandemia da CoVid-19 (che ha causato finora oltre 217 mila morti), la povertà in Perù è aumentata, molti servizi sono crollati, il sistema sanitario è andato in crisi. Castillo era emerso da quel risentimento sociale.
Castillo, sebbene incompetente, politicamente scollegato, mal equipaggiato e forse corrotto, era un potente simbolo per le persone a basso reddito, rurali e indigene che non avevano una precedente rappresentanza ai massimi livelli della politica peruviana. Purtroppo, una volta eletto, Castillo non si è comportato particolarmente bene nei sondaggi dell’opinione pubblica; non era benvoluto, ma nel Congresso se l’è cavata anche peggio. Non poteva contare su un partito fortemente leale o con una forte base ideologica nonostante il fatto che fosse stato eletto con un programma di ispirazione marxista. Ciò è dovuto al fatto che il Perù in realtà non ha partiti politici con piattaforme e infrastrutture definite. Sempre più spesso, la politica è stata condotta da singole figure che hanno usato i partiti come veicoli: i partiti hanno permesso ai candidati di ottenere la registrazione presso l’autorità elettorale e di candidarsi, ma non sono dei veri partiti strutturati. Ora, la situazione è peggiorata ulteriormente: mancano non solo partiti funzionanti, ma anche politici credibili che possano governare efficacemente, incanalare le energie popolari e costruire ponti.
La parte più emarginata della popolazione peruviana – gli indigeni che vivono nelle aree rurali – che si trova in condizioni di estrema povertà (un recente rapporto della FAO sostiene che la metà dei peruviani deve affrontare l’insicurezza alimentare), mancanza di risorse e rappresentanza, si è identificata con Castillo perché ha visto in lui almeno una qualche forma di rappresentazione, per quanto debole.
Quelle persone, che già nutrivano seri e legittimi rancori contro lo Stato peruviano e la sua élite, sono ora impegnate nelle proteste popolari più sanguinose della storia recente del Perù. Hanno chiuso gli aeroporti, bloccato le strade principali, sono entrati in sciopero e si sono scontrati violentemente con la polizia.
La Boluarte ha preferito ignorare il profondo disagio di questa parte della popolazione. Si è limitata ad anticipare la data di nuove elezioni e ha rifiutato la convocazione di un’assemblea costituente, senza preoccuparsi di costruire ponti e avviare il dialogo con la protesta, assumere la leadership e cercare di dare la sensazione che ci sia una visione coerente di una via da seguire6.
I critici di destra dei manifestanti li hanno definiti terroristi, evocando il profondo trauma nazionale dell’insurrezione di Sendero Luminoso degli anni ’80 e ’90. Si stima che gli insorti maoisti di Sendero Luminoso abbiano ucciso circa 31.000 peruviani (ma si ritiene che complessivamente i morti della “guerra sporca” tra il 1980 e il 2000 siano stati 70.000), e le loro azioni sono ancora evocate nel concetto peruviano di terruqueo, ossia nella pratica di diffamare gli oppositori politici – spesso di sinistra, poveri e indigeni –, accusandoli falsamente di essere dei terroristi (terrucos). Un’etichettatura che è tornata ad essere utilizzata con le recenti proteste, con sfumature razziste dovute al background dei manifestanti, fornendo un velo di impunità all’uso eccessivo della forza da parte di polizia ed esercito. Chi la pensa diversamente, chi si mobilita, è sospettato di essere un terrorista. La sinistra è bollata come alleata del terrorismo, i difensori dei diritti umani sono difensori dei terroristi. Gli indigeni Ashaninka, che hanno versato sangue per difendere il paese contro Sendero Luminoso negli anni ’80, sono oggi definiti terroristi per essersi mobilitati contro il governo nei loro abiti tradizionali.
Giovedì scorso, i manifestanti hanno tentato di prendere il controllo dell’aeroporto nella città turistica di Cuzco, spingendo i funzionari a chiudere l’aeroporto vicino alla cittadella Inca di Machu Picchu (ora riaperto, ma le prenotazioni turistiche sono crollate del 60% fino a marzo, un grave danno economico per il paese). I manifestanti a Puno hanno dato fuoco a un’auto con dentro un agente di polizia, hanno appiccato il fuoco alla casa di un membro del Congresso e hanno preso d’assalto il locale aeroporto, mentre la polizia ha usato gas lacrimogeni e proiettili veri contro di loro, secondo il Washington Post. La violenta repressione delle manifestazioni a Puno ha provocato 18 morti il 9 gennaio. Tra gli uccisi c’era un medico che non partecipava nemmeno. I video hanno confermato la brutalità della risposta della polizia in quello che è diventato il secondo massacro – dopo quello di Ayacucho, dove sono state uccise 10 persone in un solo giorno a metà dicembre – perpetrato dall’attuale governo.
Alcuni gruppi come Amnesty International si sono espressi contro la gestione delle proteste da parte di Boluarte, denunciando la polizia nazionale e le forze armate per l’uso eccessivo della forza contro i manifestanti, l’ultima volta l’11 gennaio, dopo che almeno 17 manifestanti sono stati uccisi nella città di Juliaca nella regione di Puno. Anche la Commissione interamericana per i diritti umani ha inviato mercoledì scorso una delegazione in Perù per osservare le condizioni dei diritti umani nel paese.
Il procuratore generale del Perù ha aperto un’indagine su Boluarte e altri alti funzionari, accusandoli di “genocidio, omicidio colposo e lesioni gravi“. L’indagine dovrà accertare se la polizia abbia agito con violenza eccessiva e se siano da ravvisare responsabilità anche a livello politico.
Castillo, nel frattempo, sta perorando la sua causa su Twitter dalla sua cella nella prigione di Barbadillo, sostenendo di essere vittima di “una vendetta politica”.
La politica peruviana è da tempo in crisi. Improbabile che cambi a breve
Il Perù non è estraneo agli sconvolgimenti politici; Alberto Fujimori, l’ex dittatore più noto del Perù, ha iniziato il suo mandato come presidente eletto democraticamente. Poi, aveva preso il potere con un colpo di Stato il 5 aprile 1992, più o meno nel modo in cui Castillo ha tentato di fare a dicembre. Fujimori ha guidato il Perù dal 1990 al 2000, dopodiché è fuggito in Giappone; attualmente è in carcere per violazioni dei diritti umani commesse mentre era al potere.
Dal 2016 nessun presidente peruviano ha terminato il proprio mandato7 ed è improbabile che Boluarte completi il resto di quello di Castillo, che dovrebbe concludersi nel 2026. Boluarte ha proposto di anticipare le elezioni al 2024 e il Congresso ha approvato questa anticipazione, anche se i manifestanti chiedono nuove elezioni sia per la presidenza che per il Congresso il prima possibile.
Boluarte è anche riuscita a mettere insieme il sostegno dei numerosi piccoli partiti di centro e destra che insieme detengono la maggioranza, un altro punto che ha irritato i manifestanti che la vedono muoversi verso destra (e quindi la considerano una “traditrice”), nonostante sia stata eletta come una candidata di sinistra dello stesso partito di Castillo. Tuttavia, martedì della scorsa settimana il Congresso ha approvato il suo governo con un voto di fiducia, nonostante i violenti disordini. La carica di primo ministro è andata ad Alberto Otárola, che fino ad allora era stato ministro della Difesa, responsabile delle forze armate e responsabile delle morti civili che hanno causato. In un discorso nel Congresso, si è impegnato a difendere la democrazia “ad ogni costo” e ha evitato di assumersi la responsabilità politica delle morti8.
In definitiva, ciò che accadrà dopo dipenderà soprattutto da ciò che accadrà a Lima, per cui la Boluarte potrebbe essere costretta a dimettersi (oppure anch’essa potrebbe finire sotto accusa), come chiedono i manifestanti e i governatori regionali di Puno, Cuzco e Apurímac, dato che non ha la forza politica (e il sostegno parlamentare) per poter reggere a lungo una crisi sociale e politica. Le proteste che partono dal Sud del Paese, roccaforte di Castillo e dei movimenti sociali di contadini e indigeni, sono solo l’ultimo tassello della profonda instabilità politica, con una miriade di partiti che non riescono a mettersi d’accordo intorno ad un’agenda minima per il Paese. La sfida è arrivare a nuove elezioni, ma il distacco tra la gente e la classe politica, ormai, sembra irreparabile. Allo stesso tempo, sebbene i manifestanti abbiano il sostegno della più grande federazione dei sindacati (la Confederazione Generale dei Lavoratori del Perù) e della più grande associazione indigena (l’Assemblea Nazionale dei Popoli), sarà difficile mantenere lo slancio a meno che non costruiscano alleanze a Lima.
Uno dei motivi per cui la crisi del Paese non ha ancora toccato il fondo è che l’economia sopravvive, nonostante tutto. La banca centrale rimane indipendente e precedenti governi tecnocratici hanno messo il paese sul pilota automatico verso la crescita economica (prevista intorno al 3% nel 2023). Ma la pandemia ha rivelato quanto sia debole la capacità dello Stato peruviano di aiutare i suoi cittadini nei momenti di bisogno, e milioni di peruviani si guadagnano da vivere attraverso il lavoro informale o ai margini di attività minerarie illegali e del contrabbando.
In termini di futuro politico del Perù, la fine della presidenza di Castillo probabilmente significa anche la fine della sinistra in Perù per ora. I critici di Boluarte sostengono, giustamente, che sebbene sia stata eletta con una lista di sinistra, si è spostata a destra da quando ha assunto l’incarico e ha immediatamente preso le distanze da Castillo dopo il suo tentativo di colpo di Stato.
La crisi in Perù, come la difficile situazione del governo peronista in Argentina, aggravata dalla recente condanna per corruzione inflitta alla vicepresidente Cristina Fernández, rischiano di rallentare il progetto di un asse progressista latinoamericano, inizialmente proposto da Messico e Argentina e in seguito rafforzato dalle vittorie di Petro in Colombia e Lula in Brasile.
Alessandro Scassellati
- (Analoghe mobilitazioni delle popolazioni indigene sono in corso nel vicino Ecuador, vedi il nostro articolo qui.[↩]
- Il Congresso peruviano ha messo sotto accusa Castillo: i deputati lo hanno accusato di aver tentato un colpo di Stato e creato uno stato di emergenza. Il Congresso ha quindi dichiarato il capo dello Stato colpevole del “reato di ribellione” e lo ha fatto imprigionare. L’accusa ha chiesto alla Corte costituzionale di concedere a Castillo un periodo di custodia cautelare di 18 mesi.[↩]
- L’11 aprile 2021, con sorpresa di tutti, Castillo, un politico pressoché sconosciuto, aveva vinto il primo turno delle elezioni presidenziali peruviane, con il 18,92% dei voti. Castillo, che è di origine indigena e proviene da una delle città più povere del paese, era il candidato del partito Perù Libre (PL), partito fondato da Vladimir Cerrón, che aveva una linea marxista, leninista e mariateghista (dal nome dell’intellettuale peruviano José Carlos Mariátegui, 1894-1930). La sua vittoria è stata un affronto per l’élite politica neoliberale, e spesso razzista, di Lima, abituata a guidare il paese senza doversi preoccupare degli affari rurali e pronta a paragonare qualsiasi progetto di sinistra al gruppo di guerriglia Sendero Luminoso e ai suoi abusi. Ben presto la borghesia peruviana nel panico, ha attivato le leve del potere per contrastare la minaccia di Castillo, che considerava un “piccolo comunista” che voleva convocare un’Assemblea Costituente e parlava di trasformazione sociale. Castillo ha poi vinto il secondo turno elettorale per soli 45.000 voti (50,13%) con Keiko Fujimori (49,87%). Ancor prima della fine del conteggio da parte della Junta Nacional Electoral, mentre prendeva forma la vittoria di PL, il clan Fujimorista ha denunciato “brogli elettorali”, chiedendo un nuovo conteggio dei voti e la cancellazione di 200.000 schede elettorali “irregolari”. Una mobilitazione popolare a favore di Castillo raffreddò per un po’ lo zelo dell’élite conservatrice. I Fujimoristi abbandonarono i loro sforzi, ma il loro pensiero rimase chiaro: Castillo poteva essere legalmente presidente, ma non gli avrebbero concesso la legittimità.[↩]
- Il PL aveva solo 37 dei 130 seggi in un Congresso frammentato in cui erano rappresentati dieci partiti, tra cui il partito Fujimorista Fuerza Popular con 24 seggi. Il Congresso gode di un notevole potere in Perù, e la sua capacità di ostacolare l’azione dell’esecutivo spiega in gran parte la crisi politica del Paese negli ultimi anni.[↩]
- I ministri del suo governo si erano dimessi e le forze armate si erano rifiutate di sostenerlo. Castillo si era diretto verso l’ambasciata messicana, dove presumibilmente intendeva chiedere asilo. Ma è stato arrestato dalla sua stessa scorta mentre era bloccato nel traffico.[↩]
- Tra l’altro, nel caos politico seguito alla cacciata di Castillo, i parlamentari che sostengono il governo Boularte stanno silenziosamente tentando di far passare un disegno di legge che priverebbe le popolazioni indigene “incontattate” della protezione statale e smantellerebbe le riserve esistenti create per loro.[↩]
- Sono stati sei i presidenti in altrettanti anni, tre dei quali messi sotto accusa dal Congresso dopo essere stati dichiarati in stato di “incapacità morale permanente”, in base all’articolo 113 dell’attuale costituzione. Cinque presidenti sono stati travolti da scandali di corruzione legati allo scandalo Odebrecht e imprigionati.[↩]
- Il governo di Boluarte e il primo ministro Otárola hanno annunciato un programma di sostegno e risarcimento per le vittime e la nomina di una commissione per identificarle. Ma i massicci cortei che hanno portato le bare delle persone uccise a Puno hanno dimostrato che i manifestanti hanno rinunciato al dialogo finché questo governo rimane al potere.[↩]