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La parabola di una azienda, la parabola di un paese

di Roberto
Rosso

La parabola di TIM sta giungendo al capolinea, che sui media viene accuratamente riepilogata, qualunque sia l’esito della battaglia per il controllo che si apre con l’offerta di KRR, si prospetta un processo di ristrutturazione. Tim non è più un campione europeo. La vicenda di Telecom/TIM è assolutamente esemplare rispetto alle vicende attraversate dal paese negli ultimi tre decenni, la sua parabola mostra l’ennesima occasione persa sul piano più generale della innovazione tecnologica, della costruzione delle infrastrutture del digitale.

Verso la fine del 1996, TIM fu il primo operatore mondiale a lanciare un piano tariffario basato su una carta prepagata su rete GSM, che generò in poco tempo una rapida crescita della telefonia mobile.

Due passaggi successivi furono decisivi, prima la privatizzazione, poi dal mese di febbraio 1999, Olivetti – già nel settore delle telecomunicazioni con Omnitel e Infostrada, cedute in seguito a Mannesmann – lanciò un’OPAS (offerta pubblica di acquisto e scambio) attraverso la Tecnost di Roberto Colaninno, riuscendo ad ottenere, nel giugno dello stesso anno, il controllo della società con una quota del 51,02%. L’OPAS andò a buon fine, nonostante la contrarietà di Bernabè, che considerava il documento del piano “lacunoso” e non conforme alla normativa vigente.

L’Italia aveva due campioni nella telefonia Omnitel e Olivetti perse il controllo della prima mentre la seconda si avviava ad un percorso travagliato fatto di diversi passaggi di mano, caratterizzato dall’aumento del peso del debito. Il gruppo Olivetti, con un fatturato da attività proprie pari a 1,3 miliardi e un debito di 16 miliardi, controllava il 51% del gruppo Telecom, che nel 1999 aveva un fatturato di 27,1 miliardi e un debito di appena 8,1 miliardi.

Per accorciare la catena di controllo, con lo scopo di scaricare i debiti dei nuovi azionisti di controllo sull’azienda stessa, il 4 agosto 2003 avvenne la fusione con la controllante Olivetti, che incorporò Telecom Italia, assumendo contestualmente la sua denominazione sociale. In seguito all’operazione, i debiti degli azionisti di controllo si riversarono sul gruppo Telecom. L’indebitamento netto passò infatti da 18,1 miliardi (bilancio 2002) a 33,3 miliardi (bilancio 2003).

Nel gennaio 2005 Telecom lanciò un’OPA su TIM, azienda già abbondantemente controllata con quota maggioritaria del 56%. Il costo necessario per rastrellare le azioni TIM sul mercato elevò l’indebitamento di Telecom da 29,5 a 46,7 miliardi di euro (dato intermedio 2005), ovvero circa il 150% del fatturato. La fusione tra Telecom Italia e TIM venne finanziata con un mutuo contratto con una cordata di banche, nella misura maggiore da Banca Intesa.

 

Rilevante a livello internazionale è stato il ruolo del gruppo Telecom oggi TIM nell’innovazione tecnologica che lo ha reso   la 1ª azienda di telecomunicazione o in Europa e la 5ª al mondo per numero di brevetti nel settore della telefonia mobile1.

Ciò che resta di un polo mondiale della telefonia mobile – che ai sui esordi contava due campioni a  livello mondiale-  è diventato una preda ambita nel gioco della finanza internazionale, nel frattempo la telefonia mobile è diventata un vettore essenziale della rete digitale globale. Il processo di privatizzazioni nel nostro paese, lo ha privato degli strumenti necessari a gestire la grande trasformazione che dall’ultimo decennio del secolo scorso procede a velocità crescente, di elaborare strategie adeguate che richiedono di integrare interventi su tutte le dimensioni della formazione sociale; strumenti e strategie che richiedono l’integrazione delle tecnologie digitali di trattamento dell’informazione, della conoscenza e della comunicazione in modo pervasivo. Il mito dello stato regolatore è rimasto tale, avendo rinunciato a intervenire direttamente nei punti nodali della riproduzione sociale, mentre il paese scivolava in una posizione sempre più subordinata nella divisione internazionale del lavoro, nonostante il forte tessuto industriale che lo colloca al secondo posto in Europa, avendo perso gran parte dei poli trainanti lo sviluppo tecnologico ed industriale, sia in quanto controllo sulle imprese che  in quanto scomparsa dei siti e delle filiere produttive.

La transizione dal modello fordista, l’affermarsi della globalizzazione neo-liberista, conclamato con il processo di privatizzazioni conseguente alla crisi monetaria e finanziaria dell’inizio anni ’90, è avvenuta in Italia senza che la struttura industriale, infrastrutturale e finanziaria del periodo fordista sia stata in grado di riconvertirsi e di assumere i connotati necessari ad affrontare il nuovo contesto globale. I caratteri che la formazione sociale di conseguenza è venuta assumendo sono leggibili nelle caratteristiche del mercato del lavoro, accompagnate da una opportuna legislazione e da una sostanziale resa delle organizzazioni sindacali di fronte al processo di ristrutturazione. La composizione della forza lavoro -occupata ed in cerca di occupazione- presenta alcune caratteristiche di lungo periodo come il basso tasso di occupazione femminile ed il divario nord-sud che si articola poi in una mappa a macchia di leopardo tra aree sviluppate e sottosviluppate; la configurazione orografica del territorio nazionale,  ha prodotto la concentrazione  lo sviluppo produttivo in alcune aree escludendo le altre, ha relegato una parte importante de territorio nazionale in posizione marginale, il cui spopolamento è stato una inevitabile conseguenza.

La stessa configurazione orografica, con l’abbandono delle aree montane e periferiche, risulta poi sempre più colpita da fenomeni metereologici estremi prodotti dal cambiamento climatico indotto dal riscaldamento globale: peraltro l’Italia subisce un aumento delle temperature maggiore della media globale, come tutta l’area del mediterraneo. Nel processo di riduzione progressiva delle prerogative dello stato, sono risultate deboli e frammentarie le politiche adottate per affrontare il degrado dei territori, ancora più difficile è parlare di una strategia capace di integrare le diverse condizioni di criticità dei territori, per quanto negli ultimi anni ci sia una quota di iniziative per la coesione sociale e le aree marginali. Le derive della trasformazione economico-sociale del paese incidono sugli squilibri territoriali e ne sono alimentate.

C’ è ampia letteratura, una messe di cronache quotidiane sulle trasformazioni dei territori del nostro paese, tuttavia l’infrastruttura digitale è una condizione necessaria per seguire quei fenomeni in tempo reale, per costruire una mappa informativa su tutte le dimensioni della trasformazione economica, sociale ed ambientale, ma soprattutto costituisce una infrastruttura indispensabile per integrare tutte le aree oggi condannate alla marginalità. Uno strumento necessario, ma pur sempre uno strumento che per essere efficace deve essere messo al servizio di una strategia. In questi ultimi mesi in conseguenza dei lockdown prolungato c’è stato un ritorno nei paesi abbandonati da chi poteva lavorare in remoto e per una parte di loro è stata l’occasione per rimanere, un piccolo esempio di possibili modelli di reintegrazione di aree marginali nel tessuto produttivo. L’infrastruttura digitale costituisce un fattore abilitante di una trasformazione a cui concorrono tutti gli elementi costitutivi della formazione sociale, torniamo allora alla necessità di una strategia che intervenga a indurre, influenzare se non guidarne il percorso. Indirizzando e ponendo vincoli. i

Uno dei fattori determinanti è il livello di scolarizzazione della popolazione, delle nuove generazioni in particolare, che notoriamente è basso, uno dei più bassi d’Europa, il dato poi è aggravato dalla emigrazione di una quota importante dei giovani più scolarizzati, che caratterizza una imponente migrazione, ben diversa da quella che un tempo affollava le miniere del Belgio, le linee di montaggio cella Volkswagen in Germania. L’accesso all’istruzione è ritornato pienamente di classe, riflesso della composizione economica e sociale, della distribuzione della ricchezza ed anche della risultante composizione del mercato del lavoro.

Un ultimo colpo sta per essere inferto alla composizione produttiva ereditata dai decenni precedenti. La trasformazione della mobilità dal motore combustione all’elettrico rende obsoleto gran parte del settore di subfornitura per il ciclo dell’auto fondato sul motore a combustione interna, in parte costituito da aziende italiane, insediate nella ‘Motor Valley’ emiliana- da cui sta partendo un minimo di progetto di riconversione- ed in parte costituita da siti produttivi di aziende multinazionali distribuite lungo tutta la penisola, che possiamo presumere essere pronte ad abbandonare. La trasformazione verso il tutto elettrico dell’auto ha come orizzonte il 2030-2040 secondo i principali produttori d’auto del mondo, per non parlare di tutto il trasporto pubblico e del trasporto merci su gomma. Non siamo all’inizio di un percorso, si tratta di un processo di innovazione tecnologica più che maturo, il punto critico è quello delle batterie le cui prestazioni sono vincolanti per l’effettiva usabilità dei veicoli, questo genera una competizione globale per il miglioramento delle prestazioni e la realizzazione di mega impianti per la produzione. Parlando di mobilità e logistica, la struttura del territorio italiano, la distribuzione degli insediamenti residenziali e delle attività produttive, sarebbe il contesto ideale per la creazione di un sistema di mobilità, finemente regolato da un sistema informativo adeguato capace di costruire la mappa spaziale e temporale della domanda di spostamento, di soddisfarla e regolarla finemente. Energia ed informazione, dove il ruolo della prima è quella di ridurre il consumo della seconda, coniugando efficacia dei servizi con la riduzione delle conseguenze sul clima.

Eventi metereologici devastanti sono una costante in tutte le regioni italiane – quest’anno si ricorda l’alluvione del Polesine del novembre 1951- aggravati dal forte processo di urbanizzazione e dall‘abbandono delle aree montane collinari, tuttavia la gravità e la frequenza degli ultimi anni non ha precedenti.  Gli eventi che hanno colpito la Sicilia nelle ultime settimane non hanno precedenti. Se la struttura produttiva nei prossimi anni – diciamo da qui al 2030, anno fatidico nei programmi mirati a contrastare il cambiamento climatico- sarà rivoluzionata dall’evoluzione tecnologica, altrettanto dovrebbe accadere per l’insediamento territoriale complessivo, dalla forma che assume il processo di antropizzazione, del territorio.

Possiamo aggiungere altre dimensioni per comprendere la complessità delle conoscenze necessaria per attraversare la forma specifica che la grande trasformazione assume nel nostro paese. Informazione, energia e materia, lo smaltimento dei rifiuti, industriali ed urbani, ha piagato ampi territori di molte regioni, dalla provincia di Brescia alla terra dei fuochi. Il problema è globale come è ben illustrato dalla proliferazione delle plastiche nei mari e negli oceani, dai continenti di plastica che vagano per l’oceano pacifico alle microplastiche che entrano nel ciclo dei viventi. La realizzazione di una economia circolare presenta difficoltà e orizzonti analoghi a quelli delle emissioni climalteranti, i rifiuti come i gas sono il prodotto, fanno parte del ciclo di vita di ogni manufatto o sistema antropico, semplice o complesso che sia, da un piatto di plastica ad una metropoli. Per essere completi, alla contaminazione delle matrici ambientali acqua e suolo dobbiamo aggiungere l’aria, basta prendere in esame la Val Padana una delle aree dove l’aria è più inquinate in Europa. Per la stessa diventerà sempre più critico il rifornimento idrico, man mano che i ghiacciai – che sono il grande serbatoio delle riserve idriche- vengono meno a causa dell’innalzamento delle temperature.

L’interazione tra le diverse dimensioni del processo di riproduzione sociale produce un tale livello di complessità, andamenti non lineari dei processi, rispetto a cui l’attuale forma di governo della società appare del tutto inadeguata. Ne abbiamo visto un esempio a livello globale alla COP26 di Glasgow. Contemporaneamente gli effetti della pandemia da Sars-CoV-2 sul ciclo economico, con lo ‘stop and go’ e la ripresa a ‘V’ imposto ai sistemi economici -a livello dei consumi, della produzione e della logistica- sono stati e sono macroscopici, questo ci offre un esempio della fragilità degli equilibri della formazione sociale in cui viviamo.

Alla descrizione della complessa configurazione del territorio nazionale non può mancare il dato della sua elevata sismicità in gran parte delle regioni, questo dato che si aggiunge a quelli già citati, evidenzia, è il caso di dire in modo drammatico, la necessità di elaborare una mappa – o meglio una descrizione dinamica- dello stato dei territori e della formazione sociale del nostro paese ed una strategia conseguente, dove per l’una e per l’altra il supporto del più ampio spettro di tecnologie del digitale, di gestione e condivisione della conoscenza, cosa che richiede ed abilita la più ampia partecipazione sociale ed il più ampio intervento pubblico, a tutti i livelli. Se oggi si discute principalmente dei fondi messe a disposizione del Next generation EU -la cui finalizzazione è codificata nel PNRR- lo stato delle cose semplicemente abbozzato, sommariamente descritto in queste note, ci dice che la progettazione degli interventi, le famose ‘riforme’ messe in cantiere, sono del tutto inadeguate, anzi vanno in direzione ostinatamente contraria, a partire dalla spinta alla privatizzazione di tutti i servizi di pubblica utilità. La digitalizzazione, che tanta parte dovrebbe avere nel PNRR, certamente non mancherà di avere effetti vista la mole di investimenti previsti, tuttavia la mancanza di una strategia adeguata alla complessità, alla multidimensionalità dei problemi del paese, la rende sostanzialmente inefficace rispetto alle contraddizioni della formazione sociale ed alla dimensione della transizione, della grande trasformazione in atto. Il modo con cui viene considerata dal governo la vicenda della Tim, a parte l’ipotesi di preservare il controllo interno sulla rete digitale, mostra come si giochi di rimessa rispetto alle mosse del capitale finanziario globale, che si inserisce nelle contraddizioni e nelle debolezze delle realtà industriali italiane, senza alcuna proiezione strategica. La stessa vicenda della rete, negli ultimi anni lo testimonia. Il cavaliere bianco in queste vicende è sempre la Cassa Depositi e Prestiti, il cui ruolo, assolutamente riduttivo, non è certo quello rivendicato dai movimenti per i beni comuni e la ripubblicizzazione dei servizi di essenziali.

Punto critico nel quadro descritto è il lavoro, nei termini della composizione del mercato del lavoro, della sua stratificazione, del degrado progressivo della sua condizione, della frammentazione in compartimenti separati ed infine l’assenza di protagonismo attraverso il conflitto, se non nelle fabbriche colpite dalla delocalizzazione e nella logistica dove sono protagonisti i lavoratori migranti. Non suppliscono certo le mobilitazioni territoriali sui temi della difesa della salute e dell’ambiente, che costituiscono una realtà sostenuta da una rete diffusa di associazioni e comitati, assieme a quelle sul clima promosse dai Fridays for Future. Certo la lotta è lo strumento di ricomposizione di una composizione sociale, frammentata in termini professionali, culturali, generazionali, territoriali, di genere e di censo, tuttavia la ricomposizione tra lavoro e non lavoro, lavoro precario e lavoro di riproduzione non pagato non può avvenire se non forzando i vincoli, le forme dell’attuale formazione sociale e della sua probabile evoluzione entro cui non c’è speranza di liberazione.

Il conflitto non può che partire dal territorio sociale in cui ci troviamo, dalle sue partizioni, ma non può evolversi che mettendo in discussione quello stato di cose che abbiamo sommariamente descritto, una nuova forma del lavoro, del rapporto tra salario, orario di lavoro e reddito non può affermarsi se la formazione sociale del nostro paese si mantiene sulla traiettoria di sviluppo che si prospetta, partendo dalla situazione attuale. C’è tutto da progettare e da sperimentare, con molta umiltà, di una nuova soggettività politica c’è necessità, da far crescere su un fitto tessuto esistente di pratiche critiche e conflittuali. Certo non è in discussione la sua forma più o meno definitiva, su cui magari competere ferocemente, ma la sua capacità di elaborare poste strategiche dentro conflitti esistenti e da far nascere.

 

Roberto Rosso

  1. Nel dicembre 2014, Telecom Italia ha celebrato cinquant’anni d’innovazione e ricerca in concomitanza con l’anniversario del centro di ricerca e innovazione del Gruppo, nato nel 1964 a Torino come CSELT (Centro studi e laboratori telecomunicazioni) e divenuto TILab nel 2001 (acronimo di Telecom Italia Lab; mentre il vecchio gruppo di Tecnologie vocali è divenuto lo spin-off Loquendo nello stesso anno)(( Il Centro ha messo a punto le prime sperimentazioni di trasmissioni su cavi ottici interrati già negli anni ’70, la definizione dello standard MPEG (Moving Picture Experts Group) per la compressione digitale del segnale audio-video, che ha permesso la nascita dei CD e la diffusione dei file musicali mp3 su tutti i dispositivi (tablet, smartphone e PC) e le prime forme di video comunicazione digitale. Nel 1974 lo CSELT presentò il primo sintetizzatore vocale in tempo reale italiano. Negli anni 2000 il progredire degli studi e delle sperimentazioni ha permesso ai ricercatori di sviluppare il 4G e 4G Plus (LTE e LTE Advanced) []
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