“Non bisogna invecchiare né conoscere il mondo”.
E’ un punto di amarissima consapevolezza, verso la fine del capitolo XII de “La luna e i falò”.
Per tutta la prima parte del libro c’è un clima euforico, nel quale l’emozione aggredisce continuamente il lettore, e in qualche punto in modo irresistibile.
Intendiamoci, io parlo per me e non per tutti. D’altro canto, Rosa Calzecchi Onesti mi diceva che “i libri li scriviamo noi, leggendoli”. Perché è lì, nell’interpretazione che ne facciamo in quel momento, che il libro e quel punto in particolare acquista il suo significato, che vale per noi e per quel momento.
E c’è un’altra cosa da dire, che vale soprattutto per Pavese. Mi diceva un mio grande professore di Lettere delle superiori – con il quale ho mantenuto un contatto per quarant’anni, fino alla morte – che i suoi studenti avevano verso Pavese due atteggiamenti opposti: o rifiuto totale, o amore totale da diventare lettura quasi esclusiva. Nel mio caso la vicinanza al secondo tipo di lettore è forte.
Peraltro, di un’altra cosa sono sempre stato convinto per la comunicazione tra persone: quello che davvero “passa” non è la verità o meno di quello che si dice, ma è soprattutto l’amore che c’è tra chi parla e quello che dice. Così a scuola, per esempio: l’insegnante che “lascia il segno” nel ragazzo non è tanto quello che conosce bene la sua materia o è bravo a spiegarla, ma soprattutto quello che fa sentire di amarla davvero. E’ questo che “si sente” e “passa”. Nel caso di Pavese e La luna e i falò è lui stesso a dire in una lettera: “… è il libro che mi portavo dentro da più tempo e che ho più goduto a scrivere. Tanto che credo che per un pezzo, forse sempre, non farò più altro”.
Questo suo amore si sente fin dalle prime righe: “C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire “Ecco cos’ero prima di nascere”. ….. “Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.”
Poi cominciano i ricordi, alternati con la descrizione del paesaggio, delle colline – Gaminella e il Salto soprattutto – e la scoperta del dolore di non trovare più i noccioli. Cosa di poco conto dal punto di vista razionale – “io stesso, se di quella riva fossi stato padrone, l’avrei magari roncata e messa a grano…” – ma era la prova di “cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue, non starci già mezzo sepolto insieme ai vecchi, tanto che un cambiamento di colture non importi”. … “Che cosa vuol dire? Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”
Poi c’è Nuto, l’amico che, al contrario di lui, non si è mai mosso dalle Langhe. E’ la sua guida in questo viaggio di ritorno, il Virgilio della sua modesta Divina Commedia e la figura positiva in assoluto. Ne sente parlare addirittura in America, e questo è forse il punto del libro di più alta intensità emotiva:
- “Nuto? ma lo conosco.
E allora l’amico disse a me chi era Nuto e che cosa faceva. Raccontò che quella stessa notte, per farla vedere agli ignoranti, Nuto s’era messo sullo stradone e avevano suonato senza smettere fino a Calamandrana. Lui li aveva seguiti in bicicletta, sotto la luna, e suonavano così bene che dalle case le donne saltavano giù dal letto e battevano le mani e allora la banda si fermava e cominciava un altro pezzo. Nuto, in mezzo, portava tutti col clarino”.
Così avanti, in un linguaggio di bellezza poetica assoluta tra paesaggi e “paesaggi dell’anima”; però di tanto in tanto spunta la situazione attuale, del dopoguerra, con i problemi non risolti e con il ritorno di quelli di prima “che adesso – passata la grandine – sbucavano fuori dalle cantine, dalle ville, dalle parrocchie, dai conventi.
Succede anche che uno, scassando un incolto, aveva trovato due morti sui pianori di Gaminella, due spie repubblichine. E questo aveva innescato in piazza polemiche infinite, con la conclusione che tutta la colpa era dei comunisti. Ma il più attivo di tutti era stato il parroco, che era arrivato a proporre una bella funzione, con sepoltura solenne alle due vittime, comizio e pubblico anatema verso i rossi. “Riparare e pregare”.
Si arrivò alla messa della domenica in cui il parroco fece un lungo discorso, “che la patria, la famiglia, la religione erano tuttora minacciate … E non credessero che l’avversario fosse sconfitto. Perché in troppi comuni d’Italia ostentava ancora la sua rossa bandiera”.
– E siamo a questo, – disse Nuto, – che un prete che se suona ancora le campane lo deve ai partigiani che gliele hanno salvate, fa la difesa della repubblica e di due spie della repubblica. Se anche fossero stati fucilati per niente, – disse, – toccava a lui fare la forca ai partigiani che sono morti come mosche per salvare il paese?”.
Ma Anguilla-Pavese fa, sul discorso del prete, una considerazione amarissima e ancora più profonda di acquisita consapevolezza: “A me quel discorso non dispiacque. Così sotto quel sole, sugli scalini della chiesa, da quanto tempo non sentivo più la voce di un prete dir la sua. E pensare che da ragazzo quando la Virgilia ci portava a messa, credevo che la voce del prete fosse qualcosa come il tuono, come il cielo, come le stagioni – che servisse alle campagne, ai raccolti, alla salute dei vivi e dei morti. Adesso mi accorsi che i morti servivano a lui. Non bisogna invecchiare né conoscere il mondo.”
Da sempre mi aveva colpito, fin dalla prima lettura, la violenza di quella frase quasi sgrammaticata: “Adesso mi accorsi che i morti servivano a lui.” Cioè: si accorge adesso, in questo momento, ma in un attimo è come se la cosa fosse avvenuta tanto tempo fa, tanto è definitivo il giudizio, “che i morti servivano a lui”. E con amarezza: “Non bisogna invecchiare né conoscere il mondo.”.
Poi continua lo sguardo inarrestabile sulle colline, “Mentre parlava, io mi vedevo Gaminella in faccia, che a quell’altezza sembrava più grossa ancora, una collina come un pianeta, …”; e intanto cresce la consapevolezza che “crescere vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire, ritrovare la Mora com’era adesso …
Andando avanti, l’euforia si ha solo nei ricordi, mentre il presente è solo bruttura.
“Alla Mora, quando avevo tredici anni, aiutavamo a far le noci, la meliga, a vendemmiare, a governare le bestie. A me piaceva quel cortile così grande, ci si stava in tanti … Tante facce nuove, la carrozza, il cavallo, le finestre con le tendine. Fu la prima volta che vidi dei fiori, dei veri fiori, come quelli che c’erano in chiesa. Sotto i tigli, dalla parte del cancello c’era il giardino, pieno di zinie, di gigli, di stelline, di dalie …”
E adesso: “Un giorno decisi Nuto a venire in Gaminella per guardare quella tina. … Quando fummo al casotto uscì fuori la cognata del Valino, quella che aveva i baffi, e disse che lui era al pozzo. Ma stavolta non si fece aspettare, arrivò e disse alla donna: – Dagli a sto cane. – Allora, – disse a Nuto, – vuoi vedere quella tina?” …
… Dissi: – Aspetto in casa un momento …
Non feci in tempo a guardarmi attorno, che sentii piagnucolare, gemere adagio, esclamare, come fosse una gola troppo stanca per alzare la voce. Fuori il cane si dibatteva e urlava. Sentii guaire, un colpo sordo, urli acuti, gli avevano dato.
Io intanto vidi. La vecchia era seduta sul saccone contro il muro, ci stava rannicchiata di fianco, mezzo in camicia, coi piedi neri che sporgevano, e guardava la stanza, guardava la porta, faceva quel verso. Il saccone era tutto rotto , e la foglia usciva.”
Anche, e forse soprattutto, il linguaggio serve a caratterizzare i due momenti, la bellezza del ricordo, e la drammaticità del presente, in cui “il cane bastonato”, “la donna con i baffi” e “la vecchia lamentosa” sul saccone rotto conferiscono alla scena una tristezza infinita.
Andando avanti – e così fino alla fine – continua il bello della memoria e precipita il brutto del presente.
… “Sono i giorni più belli dell’anno. Vendemmiare, sfogliare, torchiare non sono neanche lavori; caldo non fa più, freddo non ancora; c’è qualche nuvola chiara, si mangia il coniglio con la polenta e si va per funghi”.
Adesso il Valino aveva ucciso le donne e incendiato il casotto. Voleva uccidere anche Cinto, che si era difeso con il coltello ed era riuscito a scappare:
“Era venuta la madama della villa con suo figlio, a dividere i fagioli e le patate. La madama aveva detto che due solchi di patate eran già stati cavati, che bisognava risarcirla, e la Rosina aveva gridato, il Valino bestemmiava, la madama era entrata in casa per far parlare anche la nonna, mentre il figlio sorvegliava i cesti. Poi avevano pesato le patate e i fagioli, s’erano messi d’accordo guardandosi di brutto. Avevano caricato sul carretto e i Valino era andato in paese.
Ma poi la sera quand’era tornato era nero. …”
Silvia era morta dissanguata dopo un aborto; Irene si era ammalata di tifo ma l’aveva scampata; aveva poi sposato Arturo, e aveva finito per vivere in una stanza a Genova dove lui la batteva.
E ancora la dolcezza di un ricordo. Di quando Anguilla aveva accompagnato le due ragazze alla festa del Buon Consiglio, le aveva guardate divertirsi per tutta la festa cercando con lo sguardo i loro due vestiti, i più belli, quello bianco e l’altro a fiori. E poi, sul biroccio al ritorno, “…poco alla volta Silvia si calmò e un bel momento mi posò la testa sulla spalla, mi fece un sorriso e mi disse se la lasciavo stare così mentre guidavo. Io tenni le briglie, guardando le orecchie del cavallo”.
E si va così verso la conclusione più tragica, irreparabile, anche da un punto di vista simbolico. Santina, la più piccola delle ragazze della Mora, viene uccisa dai partigiani per aver fatto – forse – la spia dei fascisti. E’ Nuto che racconta:
“… la condussero fuori. Lei sulla porta si voltò, mi guardò e fece una smorfia come i bambini… Ma fuori cercò di scappare. Sentimmo un urlo, sentimmo correre, e una scarica di mitra che non finiva più. Uscimmo anche noi, era distesa in quell’erba davanti alle gaggìe.”
“… Ci pensò Baracca. Fece tagliare tanto sarmento nella vigna e la coprimmo fin che bastò. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L’altr’anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò”.
Il letto del falò, che all’inizio del libro era il punto che dava ricchezza al terreno rendendo più vivace il raccolto, diventa alla fine il punto dove è stato bruciato il corpo di Santina che a vent’anni era più bella di Irene e Silvia messe insieme.
* Pasquale Briscolini fa cultura da molti anni e organizza serate e incontri centrati sulla lettura di brani tratti da Pavese. Essi vengono accompagnati da pezzi di cantautori e -curiosamente- l’elemento di attualità intesa come lo starsene in un tempo appropriato alla riflessione di oggi spesso sembra venire più dall’autore di Santo Stefano Belbo che dalle canzoni, in realtà più recenti.