La transizione ecologica e la difficile congiuntura di crisi sanitaria e climatica rischiano di ingolfare il settore dell’automotive, che rappresenta circa il 7% del PIL dell’Unione Europea, nonostante una crescente perdita di quasi 150mila posti di lavoro dal febbraio 2021, con previsioni allarmanti di circa un quarto di esuberi sul totale di oltre12 milioni di addetti anche nella filiera componentistica e nell’indotto. Parallelamente il taglio delle emissioni inquinanti prevede una riduzione del 90% per il comparto entro il 2050.
All’argomento la Fondazione Rosa Luxemburg ha dedicato un apposito dossier su “Esigenze di Trasformazione, sfide per il settore internazionale dell’automotive”, con una panoramica comparata sull’evoluzione del comparto durante gli ultimi anni di pandemia, fra paesi come Francia, Italia, Spagna, Repubblica Ceca, Slovacchia, Serbia, Brasile.
Nell’introduzione al documento si legge come a livello globale il comparto sia da tempo caratterizzato da una sovrapproduzione con ricorrenti crolli di vendite, arginati in parte dall’incremento della domanda di autovetture della Cina e da misure di incentivi all’acquisto o alla rottamazione. In controtendenza vanno le fortune degli azionisti, che hanno beneficiato del riassetto e delle riorganizzazioni industriali con tagli ed esuberi, registrando un aumento dei propri dividendi.
Resta tuttavia aperta la questione sulla resilienza oltre le flessioni in corso e quindi sul futuro, soprattutto nell’ottica strutturale della transizione ecologica.
Alcune tendenze peculiari si notano con un incremento dell’occupazione seppur lieve in Serbia, Slovacchia e Rep.Ceca – maggior produttrice mondiale di autobus-, a differenza degli stati dell’Europa Occidentale, dove anche in casi di non saturazione del mercato delle autovetture private, questo tipo di produzione manifatturiera risulta già per gran parte delocalizzata.
Se i progetti di Green Deal della Commissione UE prevedono un massiccio investimento in mobilità elettrica per la riduzione delle emissioni inquinanti, questi devono però fare i conti con la diffusione ancora marginale della e-mobility, oltre al ricorso alle batterie al litio ed altre materie prime di natura estrattiva, fortemente impattanti sugli equilibri ambientali.
Accanto all’affermazione del diritto alla mobilità è necessario dunque approfondire la strategia per un’alternativa sostenibile del trasporto anche a lunga percorrenza e su mezzi pubblici, che possano rappresentare un ambito di riassorbimento della manodopera, che risulta essere la parte più penalizzata dalla riorganizzazione settoriale, con arretramento delle condizioni di lavoro e di salario, a vantaggio di fondi e capitali finanziari, sostenuti da piani di delocalizzazione verso mete più economiche a livello di costi produttivi.
Una delle alternative all’altezza delle sfide epocali per un’industria della mobilità ecologica passa senz’altro per il trasporto ferrotranviario, che necessiterebbe di incentivi adeguati, soprattutto per l’ammodernamento di dotazioni e macchinari ormai obsoleti, su cui alcuni interventi si sono concentrati prevalentemente solo per la parte dell’alta velocità.
In questo caso riemerge una delle fratture politiche più tradizionali, evidente dal caso francese delle proteste dei ‘jilet jaunes’, fra centro cittadino e periferia rurale, dove difficilmente gli snodi ferroviari arrivano in modo efficace, sebbene rappresentino poli produttivi con una collocazione stabile sul territorio, a differenza delle commesse internazionali per automobili.
Allo sblocco dei licenziamenti deciso dal governo Draghi la scorsa estate, in Italia si sono susseguite le vertenze per esuberi di massa in aziende come GKN Driveline, Timken, Giannetti Ruote, Caterpillar; e più di recente Marelli e Bosch, solo per citare i casi più eclatanti. Le stime parlano di circa 60 mila posti di lavoro a rischio e le previsioni sull’annuncio del prossimo piano industriale di Stellantis, previsto per marzo, non sono certo incoraggianti. Alle delocalizzazioni predatorie delle multinazionali, si aggiungono le speculazioni dei fondi finanziari che dirigono le case automobilistiche e su tutto pesa la congiuntura storica di una transizione ecologica, che rimette al centro il dilemma fra sviluppo industriale e tutela di ambiente e salute.
Secondo i dati ANFIA, la produzione nel Belpaese, trainata soprattutto da FCA Group, è crollata del 72% dal 1989 al 2019, con circa 451 mila auto private realizzate nel 2020, anche in conseguenza di scelte manageriali come il ritiro da certi comparti produttivi, la delocalizzazione di volumi crescenti e il graduale spostamento verso la finanziarizzazione. Tiene invece il comparto dei veicoli commerciali, concentrato prevalentemente nello stabilimento abruzzese del gruppo ad Atessa.
Per quanto riguarda le condizioni di lavoro, i livelli salariali delle tute blu nell’automotive sono cresciuti meno dei loro corrispettivi in altri comparti, da un lato per le politiche economiche di deflazione salariale, dall’altra per la scelta dell’ex-amministratore delegato Marchionne di uscire dalla contrattazione nazionale applicando dal dicembre 2010 un accordo settoriale mai sottoscritto dal sindacato dei metalmeccanici FIOM.
La svolta data al mercato dalla fusione di FCA e PSA nel dicembre 2019 ha messo ulteriormente in crisi la filiera industriale della componentistica, con il rischio di riposizionamento di volumi produttivi in impianti esteri dai costi più esigui, come per quelli in Polonia (Tichy), predisposti al lavoro sul segmento B o sulla piattaforma modulare multi-energetica, tipiche di PSA, che ha imposto il suo modello di cella produttiva, a scapito dell’assetto italiano, con conseguenze anche sulle parti meccaniche ed elettroniche, così come sulle motrici. La componentistica italiana produce un valore complessivo stimabile in oltre 22mln.€ nel 2019, di cui il 52% trainato da esportazioni, soprattutto verso paesi, che hanno mantenuto impianti di assemblaggio finale, come Germania e Francia.
Nel caso dell’Italia infatti si evince la necessità di una maggiore pianificazione statale, sia per la valorizzazione dei distretti produttivi, sia per sintetizzare i trasporti pubblici alla mobilità sostenibile attraverso piattaforme di servizi, intermodalità e al tempo stesso predisporre adeguati incentivi, anche per la riqualificazione della forza lavoro.
A proposito, un elemento centrale nelle criticità strutturali dei livelli occupazionali e produttivi deriva principalmente dall’impostazione neoliberista europea con provvedimenti orientati all’apertura della concorrenza sui mercati anche per le gare d’appalto, a scapito di produzioni locali, come previsto dalla Direttiva 2014/25/EU sulla fornitura di servizi pubblici.
Attualmente le quote di mercato maggiori del comparto ferrotranviario sono del gruppo franco-tedesco Altrsom-Bombardier, seguita da Hitachi, che nel primo caso non hanno stabilimenti direzionali sul territorio italiano, mentre nel secondo gli insediamenti si limitano prevalmentemente ad impianti rilevati da alienazioni del gruppo Ferrovie dello Stato.
Nel comparto autobus a pesare sono le razionalizzazioni di impiegati e mezzi, perpetrate fino al 2018 con tagli e riduzioni delle flotte, con un’età media dei mezzi di 12 anni, a dispetto dei 7 anni di media europea. Lo stesso Piano Strategico Nazionale per la Mobilità elaborato nel dicembre 2018 dal Ministero dei Trasporti ha previsto stanziamenti per nuovi veicoli ed il potenziamento delle infrastrutture, pari a 3,7mld.€ fino al 2033, così come 2mln.€ per progetti innovativi e 100mln.€ per il supporto alla filiera produttiva.
Secondo lo studio della Fondazione Rosa Luxemburg infatti l’industria orientata ecologicamente ad una ‘giusta transizione’ può funzionare solo con investimenti pubblici e un coinvolgimento esteso della partecipazione sociale, a cominciare da lavoratrici e lavoratori negli organi aziendali.
Altri aspetti da mettere a fuoco sono il posizionamento nella filiera di valore internazionale, l’impatto di investimenti diretti esteri, la struttura locale del lavoro ed il potere di contrattazione sindacale. Un elemento dirimente è però l’accentramento decisionale nei quartier generali delle multinazionali dell’auto e non nei siti produttivi, dove titolari e addetti si trovano spesso a recepire decisioni calate dall’alto.
Occorre insomma una pianificazione pubblica di politica industriale, con “piani auto”, come quelli sviluppati in Germania e Francia, diversamente dalla passività del governo italiano, che al massimo ha proposto una sorta di regolamentazione delle delocalizzazioni, nonostante le pressanti richieste pervenute dalle vertenze in corso.
La stessa confederazione dei sindacati europei (ETUC) nel documento sul quadro normativo per una ‘Giusta Transizione’ evidenzia come la proposta di revisione del Sistema sulle Quote di Emissioni o il bando di veicoli a motore combustibile entro il 2035 avranno un profondo impatto sul comparto industriale, in termini di riduzioni e riconversioni. A questo si affianca perciò un tema importante di protezione sociale degli addetti, così come la loro riqualificazione professionale.
Tommaso Chiti
Info:
https://www.rosalux.eu/en/article/2066.the-need-for-transformation.html
https://www.rosalux.de/en/news/id/42876/position-paper-on-the-future-of-the-automotive-industry