La maggioranza parlamentare di Macron è alla prese con una nuova crisi politica scoppiata intorno all’articolo 24 della legge per la “sicurezza globale”. Venendo incontro alle richieste dei sindacati di polizia, il Ministero dell’Interno Darmanin ha pensato di introdurre un divieto a diffondere sulle reti sociali video di poliziotti impegnati in attività di repressione. Iniziativa che è subito apparsa come un evidente tentativo di limitare la libertà di stampa da un lato ma anche la possibilità per i cittadini di denunciare il comportamento delle forze dell’ordine che, sotto la presidenza di Macron, è diventato particolarmente aggressivo.
La mano pesante utilizzata in molte occasioni durante le manifestazioni dei “gilet gialli” ha prodotto un vasto risentimento in settori di opinione pubblica, quella che normalmente non scendeva in piazza e quindi non era abituata a sperimentare la repressione sulla propria pelle. Il Ministero dell’Interno, un ex seguace di Sarkozy passato come tanti al macronismo, ha tradotto disegno di legge un impegno di tutela dei poliziotti preso dallo stesso Presidente della Repubblica. Anche ad una parte dei parlamentari di La Republique en Marche era apparso evidente che questa norma lasciava spazio ad una deriva illiberale, come denunciava l’opposizione, ma la grande maggioranza del partito ha ubbidito e votato a favore.
La protesta è andata crescendo da più parti ed è coincisa con due vicende che hanno reso immediatamente chiaro qual è l’indirizzo di fondo del governo nella gestione dell’ordine pubblico. Per primo lo sgombero violento di un gruppo di migranti afghani da Place de la Republique a Parigi, nel quale sono stati coinvolti anche esponenti politici e di associazioni di solidarietà. Per secondo il pestaggio a sfondo razzista di un produttore musicale. Le immagini, riprese in quest’ultimo caso dalle telecamere di videosorveglianza hanno dimostrato inequivocabilmente come i verbali sottoscritti dai poliziotti coinvolti nella vicenda fossero del tutto falsi. La procura, che sulle base di quei verbali stava incriminando la malcapitata vittima del pestaggio, ha dovuto cambiare direzione all’indagine e procedere all’arresto di due poliziotti.
Il successo delle manifestazioni popolari che si sono tenute in tutta la Francia sabato scorso e l’isolamento in cui si è trovato il partito di maggioranza, hanno prodotto una retromarcia il cui esito non è ancora chiaro, dato il desiderio da un lato di lasciare mano libera alla polizia e dall’altro il bisogno di non perdere consensi in settori di elettorato moderatamente di centro-sinistra sempre più perplesso sulla direzione di marcia del macronismo.
All’interno del governo si è parallelamente accesa una discussione fra chi vuole rimettere in moto la riforma delle pensioni, che aveva sollevato una diffusa opposizione nel mondo del lavoro e che era stata sospesa cogliendo come occasione o pretesto la pandemia di Covid19, e chi vuole lasciarla nel cassetto.
Tutti questi elementi di crisi sono un segnale più complessivo di difficoltà per la Presidenza Macron oscillante tra una retorica “progressista” in ambito europeo e la realtà di una politica che unisce liberismo economico e pulsioni autoritarie. Il “macronismo”, a differenza di quanto avvenne in un’altra fase storica con il “gollismo” non è mai riuscito a costruirsi una vera base di massa e un consenso solido.
In questo quadro e con l’orizzonte relativamente lontano delle elezioni presidenziali del 2022, iniziano a definirsi le possibili candidature. Se Macron tenterà di confermarsi all’Eliseo, a destra è già certa la riproposizione di Marine Le Pen, anche se l’investitura ufficiale del suo partito, il Rassemblement National, avverrà solo a fine giugno, dopo le elezioni regionali e dipartimentali. L’esponente dell’estrema destra ha mantenuto in generale un profilo basso in tutta la prima fase dell’attuale presidenza, ma il Rassemblement mantiene uno zoccolo elettorale piuttosto solido da cui partire.
Più complessa, per usare un eufemismo, è la situazione sul versante sinistro dello scenario politico. Circolano molti nomi di candidati, ma per ora uno solo ha avviato ufficialmente la propria campagna elettorale ed è Jean-Luc Melenchon, che già si era presentato nelle due precedenti occasioni, prima come candidato del Front de Gauche e poi co La France Insoumise, sostenuto con qualche mal di pancia anche dal PCF.
Melenchon ha prima annunciato in televisione che si sarebbe candidato qualora avesse ottenuto il patrocinio di 150.000 elettori, una richiesta che non ha valore legale ma simbolico. Ottenuto questo risultato in pochi giorni, ha avviato le prime iniziative elettorali, utilizzando abilmente anche le nuove tecnologie di comunicazione digitale.
Nelle ultime elezioni presidenziali Melenchon ha sfiorato il 20% dei voti arrivando però quarto dietro a Macron, Le Pen e al gollista Fillon. Rispetto alla prima campagna elettorale, nella quale aveva difeso i colori del Front de Gauche, il leader di France Insoumise aveva cercato di assumere un profilo meno schierato simbolicamente a sinistra e più espressione di una ribellione populista e trasversale. Meno bandiere rosse e canti dell’Internazionale e più tricolori e intonazione della Marsigliese. Difficile dire se questa impostazione comunicativa abbia realmente contribuito alla crescita di consensi rispetto al quasi 12% delle elezioni precedenti.
Per la nuova campagna elettorale Melenchon ha lanciato lo slogan “Noi siamo per”. Una scelta che lascia intendere di puntare più sulla credibilità delle proposte per governare piuttosto che sul solo voto di protesta. Per il candidato della France Insoumise, che più che un vero partito è un movimento di opinione fluido costruito attorno alla figura del suo leader, pesano a favore l’immediata riconoscibilità, la capacità oratoria e l’esperienza politica. Gioca a suo sfavore una certa immagine di arroganza e di scarsa disponibilità a rappresentare una coalizione di forze unite attorno ad un progetto comune.
France Insoumise ha sempre rifiutato l’idea di riproporre una qualche forma di unione delle sinistre e di quella che sprezzantemente viene considerata una “zuppa di sigle”. La lettura “populista” del conflitto sociale e della sua rappresentanza politica spinge a ritenere che si possano mobilitare gli elettori vogliosi di “degagisme”, ovvero di un “cacciamoli tutti” che attraversa i tradizionali confini di appartenenza politica.
Una conseguenza di questa strategia è però che ogni forza politica a sinistra di Macron punta a difendere il proprio spazio e quindi a voler presentare un proprio candidato, sentendosi minacciata più che rappresentata dall’impostazione melenchoniana. Vale per i Verdi che hanno ottenuto importanti successi elettorali negli ultimi appuntamenti e che ritengono di potere credibilmente puntare a coalizzare l’alternativa di centro-sinistra a Macron e Le Pen. Non hanno ancora definito un candidato e per ora sono soprattutto due i nomi che circolano, l’europarlamentare Yannick Jadot, che rappresenta l’anima più moderata e centrista, e Eric Piolle, sindaco di Grenoble e più spostato a sinistra.
I socialisti sono usciti massacrati dalla presidenza Hollande ma hanno confermato, nell’ultima tornata elettorale, di mantenere una certa presenza sul territorio, grazie soprattutto ad una rete di notabili indebolita ma non cancellata. La candidatura che sembra prendere piede in quest’ambito è quella della sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, che governa con i comunisti e con i verdi, ma che ultimamente proprio contro questi ultimi ha sollevato una polemica che ha reso più complicati i suoi rapporti. Aleggia, per ora sulla stampa e poco oltre, la figura di Arnaud Montebourg, ex esponente della sinistra socialista, poi ritiratosi dalla politica per occuparsi dei suoi affari privati e che ora è rientrato sulla scena con interviste ed un nuovo libro. Per certi aspetti sarebbe il candidato più vicino a Melenchon ma senza le sue asprezze di carattere.
Abbiamo poi il Partito Comunista Francese, molto indebolito, ma ancora con una significativa presenza sul territorio per militanti, sindaci e il legame, allentato ma non interrotto, con la CGT. La linea scelta nell’ultimo Congresso che ha portato all’elezioni di Fabien Rousselha puntato a rilanciare l’identità del partito e quindi a garantirne la presenza autonoma nelle scadenze elettorali. Lo stesso segretario ha lasciato aperto la porta ad una possibile partecipazione diretta dei comunisti come un fatto normale. La scelta definitiva però non è stata ancora fatta.
La decisione di Melenchon di lanciare la propria candidatura, anticipando tutti, parte dalla scommessa di poter dimostrare, sondaggi a supporto, di essere l’unico candidato dotato di una solida base elettorale di partenza e quindi di essere l’unica vera alternativa possibile ad una riedizione del duello Macron-Le Pen. Convincendo, se non le singole forze politiche, quanto meno gli elettori a convergere sul suo nome, anche turandosi un po’ il naso. E’ una scommessa che potrebbe vincere, ma è per ora, una scommessa.