Negli ultimi sei mesi, con la guerra Russia-Ucraina, la concorrenza cinese e lo spettro della de-globalizzazione che avanza, il modello economico tedesco ha perso buona parte dei driver su cui basava la propria competitività: le importazioni a basso costo di gas russo e materie prime; l’eccellenza nell’ingegneria meccanica a media tecnologia, in particolare nella produzione di automobili con motori a combustione interna e macchine utensili; le elevate esportazioni nel resto del mondo. Per ora l’unica leva rimasta sono i salari relativamente bassi nelle imprese industriali. Governo ed imprenditori si interrogano sulle decisioni strategiche da prendere. Olaf Scholz ha iniziato a disegnare una strategia di rilancio economico basata sull’espansione di nuovi settori che sia sostenuta insieme da Stato ed imprese e che preveda anche una nuova partnership tra Germania e gli altri Paesi dell’Unione Europea.
Zeitenwende, per un cambiamento d’epoca
Ai tempi di Angela Merkel, per oltre 15 anni la Germania aveva costruito una sua politica di riappacificazione con la Russia – iniziata con l’Ostpolitik degli anni ’701 – che faceva leva sull’utilizzazione delle ampie riserve energetiche russe a basso costo per la produzione industriale2: con la guerra questo presupposto fondamentale è saltato e le conseguenze economiche che si annunciano con l’autunno appaiono devastanti per la Germania, in particolare (con la prospettiva di un razionamento energetico), ma anche per l’Italia e gli altri Paesi agganciati alla locomotiva industriale tedesca. Anche perché la Germania ha deciso di smantellare i suoi impianti ad energia nucleare (circa il 5% della produzione di elettricità) ed è nel bel mezzo della transizione da carbone e derivati del petrolio verso le rinnovabili.
L’autonomia dell’Unione Europea si sta riducendo sia sul piano politico, perché nessuna iniziativa viene prevista al di fuori della politica della NATO, evidentemente orientata dagli USA desiderosi soprattutto di logorare la Russia (e forse anche la UE), sia sul piano economico, perché accanto al ridimensionamento industriale, si annuncia anche un forte indebolimento finanziario segnalato dalla netta svalutazione dell’euro rispetto al dollaro (in questi giorni l’euro ha raggiunto la parità con il dollaro). Un’evoluzione che favorisce le esportazioni3, ma che al momento fa crescere in Germania (come nel resto dei Paesi dell’Eurozona) maggiore inflazione attraverso la crescita del costo delle importazioni di materie e prime e componenti (cresciute del 26,5%)4. Una seria minaccia per la sopravvivenza del modello economico tedesco: le sue vendite all’esportazione rischiano di essere sopraffatte dal forte aumento dei costi delle importazioni (come quelle energetiche ed alimentari, di cui la Germania è un grande importatore, e la gamma crescente di minerali delle terre rare difficili da reperire, ma necessari per la produzione di auto elettriche).
La guerra in Ucraina ha modificato fortemente la situazione, ponendo la Germania davanti ad uno Zeitenwende, ad un “cambiamento d’epoca”. Il nuovo governo è costretto a rivedere la dipendenza tedesca dal gas fornito dalla Russia. Vengono fortemente criticati vari politici ormai in pensione (fra cui l’ex-cancelliere Gerhard Schröder) per il loro coinvolgimento nelle società di fornitura russe. Nella situazione geopolitica post 24 febbraio, la Germania (come anche l’Italia) è stata costretta – a cominciare dal presidente socialdemocratico, Frank-Walter Steinmeier, e dall’ex ministro delle finanze democristiano, Wolfgang Schäuble – ad ammettere che è stato un terribile errore diventare così dipendente da gas e petrolio russi. Durante gli anni della Merkel, il governo tedesco si era piegato alle forze dell’industria che premevano per il gas a basso costo, ignorando o sottovalutando completamente i rischi geopolitici.
Tra le conseguenze del nuovo scenario vi è un importante aumento delle spese militari tedesche, annunciato dal governo di Olaf Scholz il 27 febbraio, rompendo in tal modo un tabù che durava dal dopoguerra e una tendenza dicontinua alla riduzione, dalla riunificazione, sia del numero di soldati e armamenti, sia delle risorse destinate alla difesa. Per invertire velocemente tale tendenza, con apposita modifica costituzionale, si intende creare un fondo speciale di 100 miliardi di euro con cui modernizzare la Bundeswehr, aggiornare rapidamente e in modo massiccio gli armamenti e rispettare in futuro l’obiettivo NATO di una spesa militare del 2% del PIL (rispetto all’attuale spesa di circa l’1,5% del PIL)5.
Inoltre, come altri Stati della NATO, anche la Germania fornisce missili anticarro e antiaereo alle forze armate ucraine, rompendo un pluridecennale tabù giuridico e politico che impediva di fornire armi in “aree di conflitto”. “Manterremo questo supporto, in modo affidabile e, soprattutto, per tutto il tempo necessario!“, ha detto Scholz in un importante discorso dal titolo “L’Europa è il nostro futuro” all’Università Carlo di Praga il 29 agosto, impegnandosi ad inviare all’Ucraina armi all’avanguardia, inclusi sistemi di difesa aerea, radar e droni da ricognizione.
Nel corso dello stesso discorso, Scholz si è anche dichiarato favorevole ad un allargamento dell’UE, per cui i Paesi dei Balcani occidentali, Ucraina, Moldova e alla fine anche Georgia dovrebbero unirsi al blocco6. Ha affermato anche che una transizione graduale dal voto all’unanimità (che consente ai singoli Paesi di porre il veto a decisioni collettive chiave) al voto a maggioranza in aree “in cui è particolarmente cruciale che l’Europa parli con una sola voce” come “nella politica estera comune, ma anche in altri ambiti, come la politica fiscale”, sarebbe un trampolino di lancio per la crescita del blocco, aggiungendo che “dobbiamo esercitare il peso della nostra Europa unita in modo molto più forte“. Scholz è arrivato al punto di parlare di “un’Unione Europea di 30 o 36 Stati”, molto “diversa dalla nostra Unione attuale”. “Il centro dell’Europa si sta spostando verso est“, notando che “l’esperienza degli ultimi mesi dimostra che i blocchi possono essere superati. Le regole europee possono essere modificate, in brevissimo tempo, se necessario. E anche i Trattati europei non sono scolpiti nella pietra. Se, insieme, siamo certi che i Trattati debbano essere modificati affinché l’Europa possa progredire, allora dobbiamo farlo”, ha detto.
Intanto, il debito pubblico, a lungo considerato il peggior pericolo per la stabilità anche istituzionale dell’intera Europa, supererà in Germania i 200 miliardi di euro nel 2022, la metà dei quali è dovuta al fondo speciale per aumentare la spesa per la difesa. Per il bilancio federale del 2022, la Germania invocherà così ancora una volta un’eccezione alla disciplina costituzionale del debito, per la quale è richiesta un’altra modifica della costituzione; giustificando l’attuale sospensione del “freno all’indebitamento” con la situazione di emergenza, si annuncia il ritorno alla regola costituzionale del debito a partire dal 2023.
Le sfide del futuro, come il cambiamento climatico e il radicale mutamento del contesto geopolitico e geoeconomico, richiedono capacità di rapido adeguamento e una maggiore elasticità decisionale e rendono pertanto necessario un processo di ripensamento del “modello tedesco”. Tale ripensamento è solo iniziato sotto Angela Merkel, nonostante alcune importanti riforme (il sistema federale, la perequazione finanziaria, etc.) che hanno tuttavia rappresentato una manutenzione del sistema più che cambiamenti radicali.
Il compito di accelerare il percorso di riforme spetta ora al nuovo governo, in particolare a Olaf Scholz, che deve provare di saper modernizzare il Paese realizzando l’ambizioso slogan del suo governo: “osare più progresso”. Saranno soprattutto le politiche della tutela climatica e della politica estera e di difesa quelle in cui serviranno gli interventi più coraggiosi.
Bisognerà vedere se basterà sviluppare e perfezionare ulteriormente il modello economico tedesco per confrontarsi positivamente con l’aumento della volatilità economica nei prossimi anni. Un settore dei servizi più ampio e dinamico, in particolare se in grado di offrire ulteriore supporto ai produttori tedeschi, potrebbe compensare le fluttuazioni nel settore industriale. Inoltre, la Germania ha bisogno di una base produttiva di alta qualità più innovativa, di una rete infrastrutturale superiore e di altri motori di crescita duratura. È anche necessaria una riforma del sistema di istruzione, nonché la volontà, da parte delle imprese e della società tedesca nel suo insieme, di anteporre il rinnovamento alla conservazione dello status quo.
Il modello economico tedesco e il dominio sulle filiere industriali europee
Per decenni, il modello economico tedesco si è basato su quattro driver principali: le importazioni a basso costo di gas russo e materie prime; l’eccellenza nell’ingegneria meccanica a media tecnologia, in particolare la produzione di automobili con motori a combustione interna e macchine utensili complesse; la soppressione degli aumenti dei salari nelle imprese industriali; le elevate esportazioni nel resto del mondo. Dalla riunificazione in poi, i governi successivi, indipendentemente dal loro colore politico, hanno perseguito lo stesso obiettivo: trasformare la Germania nel più grande esportatore manifatturiero del mondo per valore, con circa un posto di lavoro su quattro che attualmente dipende dai settori industriali che lavorano per l’export.
Ciò ha portato a massicci surplus commerciali – che hanno suscitato notevole fastidio dei partner europei – durante quattro distinte fasi successive alla Seconda guerra mondiale: sotto il sistema di Bretton Woods guidato dagli Stati Uniti, che ha fornito tassi di cambio fissi e accesso al mercato in Europa, Asia e nelle Americhe; poi, dopo il crollo di Bretton Woods, quando il Mercato Unico Europeo si dimostrò altamente redditizio per le esportazioni tedesche; in seguito all’introduzione dell’euro e alla crescita dell’export verso le periferie europee; e, infine, quando, dopo la Grande Recessione del 2008, la Cina è diventata un grande mercato per prodotti manifatturieri intermedi, proprio mentre si stava smorzando – a seguito della crisi dell’euro e dell’applicazione delle politiche di austerità – la domanda per i beni tedeschi nell’Europa meridionale7.
Se le relazioni commerciali con la Cina dovessero subire un duro colpo, l’economia tedesca ne risentirebbe enormemente. La Cina è il principale partner commerciale della Germania e non solo sta alimentando l’industria tedesca di esportazione, ma è anche essenziale per mantenere in funzione il motore industriale tedesco fornendo materie prime e componenti di cui ha disperatamente bisogno8.
Considerando la situazione critica di oggi, si può dire che gli abnormi surplus fiscali accumulati da Berlino nel corso di oltre due decenni hanno rappresentato tuttavia un fallimento monumentale: la grande capacità di investimento della Germania, favorita da lunghi anni di tassi di interesse ultra-bassi, non è stata indirizzata nella transizione energetica, nella realizzazione delle nuove infrastrutture critiche (banda larga, ferrovie ad alta velocità, autostrade, etc.), e nelle due tecnologie cruciali del futuro: le batterie elettriche e l’intelligenza artificiale. In effetti, oggi la Germania non ha alcun “campione nazionale” a livello globale nei settori più innovativi (il discorso vale anche per gli altri Paesi dell’UE). Così la locomotiva dell’economia europea ha continuato a macinare surplus a una velocità tale da non accorgersi che lo spazio di frenata non avrebbe impedito all’economia tedesca di finire nel burrone: troppo alta la dipendenza dal gas russo e dalla domanda cinese.
Il governo tedesco ha anche lasciato credere ai propri cittadini che sarebbe stato possibile salvare l’euro, dopo la crisi del 2008, se gli altri Paesi dell’area avessero applicato politiche di austerità. Ma, ora i tedeschi si stanno rendendo conto che pure la BCE è in cul de sac: se aumenta sostanzialmente i tassi di interesse, mette in difficoltà l’Italia e altri Paesi finanziariamente dissestati (per questo motivo Francoforte ha da poco varato lo scudo antispread); se non lo fa, l’inflazione continuerà probabilmente a salire.
In tutto ciò, le esportazioni tedesche sono già rimbalzate, aiutate dal basso valore dell’euro. E Volkswagen venderà molte più auto elettriche una volta ripristinate le catene di approvvigionamento. BASF si riprenderà, una volta che le forniture energetiche saranno assicurate. Ciò che invece non tornerà è il “modello tedesco”: una grande fetta dei ricavi di Volkswagen andrà in Cina, da dove arriveranno le tecnologie delle batterie elettriche che rappresentano la parte preponderante del valore delle auto elettriche, e enormi quantità di valore si sposteranno dall’industria chimica – settore particolarmente energivoro (assorbe il 30% dell’energia consumata da tutti i settori industriali) in cui operano due global corporations tedesche come BASF e Bayer (che nel giugno 2018 ha acquisito l’americana Monsanto) – ai settori legati all’intelligenza artificiale, in cui le imprese tedesche sono finora quasi del tutto assenti.
Anche prima che il CoVid-19 colpisse, le vendite all’esportazione tedesche erano sotto pressione. L’investimento mirato del governo cinese in macchine utensili e altri beni strumentali, una parte fondamentale della sua strategia “Made in China 2025“, pubblicata nel 2015, ha esposto gli esportatori tedeschi alla concorrenza diretta nel loro più grande mercato estero. Sebbene i salari della produzione cinese siano aumentati fortemente negli ultimi anni, rimangono ben al di sotto di quelli tedeschi e, con le aziende cinesi sostenute da ingenti investimenti, sussidi e sostegno diretto del governo sotto forma di politica industriale, gli esportatori stanno lottando e dovranno lottare contro concorrenti più economici che vendono prodotti sempre più sofisticati e comparabili L’industria solare tedesca, ad esempio, è stata drammaticamente spazzata via dalla concorrenza cinese alcuni anni fa. Nel frattempo, i lockdown nel 2020 e oltre hanno anche martellato la domanda di prodotti tedeschi.
Emerge uno scenario cupo per la quarta economia al mondo, ma non nero. Come vedremo nell’ultima parte dell’articolo, la Germania ha un asso nella manica per provare a progettare un nuovo modello economico: si chiama sovranità, articolata sia a livello nazionale che europeo, ovvero la possibilità di fare qualcosa – nuovi investimenti – senza dover chiedere il permesso dei creditori. Un vantaggio che, ad esempio, la Grecia non ha avuto nel 2010.
Al momento, l’unico dei 4 driver del modello economico tedesco che rimane ancora in piedi è quello relativo al contenimento dei salari e degli stipendi tedeschi. Questo è stato un successo straordinario per il capitale tedesco sin dalla riunificazione. Investendo in nuovi stabilimenti in Slovacchia, Polonia, Cechia, Ungheria e altrove nell’Europa orientale (ma anche meridionale) dall’inizio degli anni ’90, le aziende tedesche hanno integrato le economie a salari relativamente bassi dell’Europa orientale nelle loro catene di approvvigionamento, riducendo direttamente i costi, ma anche esercitando una pressione al ribasso sui salari in Germania9.
All’inizio degli anni 2000, questo attacco al tenore di vita dei lavoratori era stato ripreso dal governo di Gerhard Schröder. Il programma “Agenda 2010” è consistito in una serie di importanti riforme del welfare che hanno creato una forza lavoro duale all’interno della Germania: da una parte, una sezione più anziana relativamente protetta (ma in diminuzione), in grado di godere dei vantaggi e del sostegno del modello sociale tedesco giustamente famoso, dall’altra, un contingente crescente di lavoratori, tipicamente più giovani, meno istruiti e spesso immigrati, sistematicamente esclusi e spinti verso lavori sottopagati, part-time e precari. I salari reali medi in Germania sono cresciuti a malapena dagli anni ’90 alla crisi finanziaria del 2008, e sono persino leggermente diminuiti tra il 2004 e il 2008. La disuguaglianza è aumentata notevolmente10.
Dopo il crollo del 2008, i salari reali in Germania sono aumentati, ma la crisi dell’Eurozona ha creato l’opportunità di mantenere la stessa pressione di riduzione dei costi sul tenore di vita. Le istituzioni economiche dell’UE erano essenziali per questo. I disavanzi commerciali e governativi dei membri dell’euro dell’Europa meridionale come Spagna e Grecia hanno creato un mercato all’interno dell’Eurozona per i prodotti tedeschi mentre, al di fuori dell’Eurozona, la presenza di queste economie più deboli nella moneta unica ha significato che l’euro è stato permanentemente svalutato, rendendo le esportazioni tedesche, vendute in euro dopo il 1999, più economiche e quindi più competitive a livello internazionale.
La quota dei lavoratori industriali tedeschi sul reddito nazionale è diminuita, mentre i profitti sono cresciuti. Ma anche la spesa per investimenti delle imprese tedesche è scesa da oltre il 25% del PIL negli anni ’80 a circa il 20% negli anni 2010. Questa era un’economia che viveva di rendita: sfruttava la sua posizione internazionale piuttosto che investire per il futuro.
Con lo spettro della de-globalizzazione che avanza e la rimozione di tre driver del modello di crescita tedesco, è probabile che il governo Scholz faccia molto affidamento sull’unico sostegno rimasto: il contenimento di salari e stipendi. I salari reali sono diminuiti negli ultimi due anni e gli imprenditori tedeschi avvertono che il peggio verrà.
L’alternativa sarebbe abbandonare il modello di esportazione e rilanciare l’economia interna tedesca ed europea, spingendo verso l’alto i salari reali come obiettivo primario, spremendo i profitti nei settori orientati all’export secondo necessità e aumentando gli investimenti pubblici per creare posti di lavoro. Ma né l’attuale governo né la sua opposizione sembrano intenzionati a rompere con l’eredità economica post-riunificazione per cui, in primis, saranno i lavoratori tedeschi a dover pagare il prezzo maggiore della crisi.
Ma, un alto prezzo lo pagheranno anche il lavoratori del centro Europa che lavorano nelle imprese che sono strettamente integrate nelle catene del valore e della fornitura delle grandi e medie imprese tedesche (per cui il FMI parla di “German-Central European supply chain”). Un hinterland a pochi chilometri di distanza dal confine tedesco, comprendente 64 milioni di abitanti, che è stato trasformato in una piattaforma di produzione neo-Fordista delocalizzata dell’industria tedesca (e su scala minore anche di quelle italiane, francesi e inglesi).
Un recente studio comparativo realizzato per conto della Rosa Luxemburg Foundation da Giuseppe Celi, Valentina Petrović e Veronika Sušová-Salminen, 100 Shades of the EU. Mapping the Political Economy of the EU Peripheries (Brussels, Giugno 2022) ha concentrato l’analisi su 17 Stati membri dell’UE che fanno parte di due periferie dell’Unione europea – l’Europa meridionale (Portogallo, Spagna, Italia, Malta, Slovenia, Croazia, Romania, Bulgaria, Grecia e Cipro) e l’Europa centro-orientale e sud-orientale (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Cechia, Slovacchia e Ungheria) – con l’obiettivo di comprendere come la loro perifericità sia radicata economicamente e politicamente all’interno dell’UE e in relazione ai Paesi centrali, in particolare alla Germania. Lo studio si concentra sugli sviluppi più recenti nel periodo 1990-2020, analizzando la perifericità come un prodotto multidimensionale complesso dell’essere dipendente – nelle dimensioni socio-economica, politica, culturale e ideologica – nel contesto delle interazioni soprattutto con il capitalismo tedesco. In questa prospettiva, la ricerca ha mirato a comprendere la struttura dell’economia politica dell’UE contemporanea, ovvero la complessa interazione tra politica ed economia.
Tra i vari temi, lo studio offre un’analisi e un confronto dei modelli economici esistenti in ciascuna delle periferie, nonché un’analisi delle reti commerciali e delle catene del valore globali (GVC), con un focus particolare sull’industria automobilistica europea. Concentrandosi sulle caratteristiche economiche strutturali, lo studio mostra che entrambe le periferie dell’UE condividono una posizione di dipendenza in termini di capitali, investimenti e tecnologie (e loro trasferimenti), che determina un vincolo particolarmente importante per il loro sviluppo economico. La dipendenza porta anche a una limitata autonomia nei processi decisionali, non confinati esclusivamente alla sfera economica. Tuttavia, queste dipendenze si sviluppano all’interno di economie o modelli economici strutturati in modo diverso, che vengono analizzati nei loro contesti storici.
In particolare, le economie del Sud Europa, di fronte alla crisi degli anni ’70, hanno arrestato o prematuramente rallentato il processo di industrializzazione. Negli anni successivi – segnati dalla deregolamentazione e liberalizzazione dei mercati a livello europeo e globale – hanno intrapreso la strada della finanziarizzazione e dell’ipertrofizzazione dei servizi e del settore pubblico. La concorrenza della periferia orientale, la cui espansione nella produzione di beni intermedi per l’industria manifatturiera tedesca ha parzialmente soppiantato i fornitori meridionali, ha contribuito all’ulteriore indebolimento della già fragile base produttiva dell’Europa meridionale. In questo modo, l’incorporazione di una periferia nell’UE potrebbe aver contribuito a diminuire lo sviluppo economico dell’altra.
Guardando alla periferia orientale dell’UE, anche il robusto sviluppo industriale dei Paesi più dinamici dell’Europa centro-orientale – principalmente i cosiddetti Paesi di Visegrád: Polonia, Slovacchia, Cechia e Ungheria – mostra i suoi punti deboli, legati alla dipendenza da capitali e tecnologie esteri, mercati interni limitati e salari bassi. In altre parole, la parte sostanziale della storia di successo orientale è la sua dipendenza dalla mono-specializzazione nel settore automobilistico, che, a sua volta, è strettamente integrato nella catena del valore tedesca e quindi dipende dagli investimenti diretti esteri tedeschi11. Questa mono-specializzazione è una caratteristica distintiva della perifericità economica della regione. D’altra parte, lo sviluppo dei Paesi dell’Europa orientale meno dinamici riflette, in una certa misura, vulnerabilità simili a quelle incontrate nella periferia meridionale. Infatti, gli investimenti diretti esteri in ambito FIRE (finanza, servizi assicurativi e immobiliare) sono importanti per le economie baltiche con le loro economie sostanzialmente finanziarizzate, o per Bulgaria e Croazia (in entrambi i casi per quanto riguarda l’industria del turismo).
Il caso della filiera produttiva dell’automobile
Il settore automobilistico è un osservatorio privilegiato per comprendere le dinamiche legate al modello economico tedesco e alla riorganizzazione gerarchica della struttura industriale europea degli ultimi decenni. Questo per una serie di fattori che hanno determinato finora l’importanza generale di questo settore:
- la sua scala dimensionale in termini di occupazione, produzione, collegamenti diretti e indiretti con gli altri settori dell’economia, nonché la presenza significativa di attività di R&S;
- si tratta di un settore caratterizzato dalla presenza di un numero limitato di imprese oligopolistiche che sono comunque in grado di influenzare un gran numero di mercati e attori economici;
- il settore automobilistico è fortemente internazionalizzato e frammentato in termini di produzione ed è quindi associato a lunghe catene del valore che coinvolgono numerosi Paesi e aree geografiche;
- è un’industria che presenta una gerarchia tecnologica sostanziale lungo la catena del valore, con le società principali che sviluppano le proprie tecnologie all’avanguardia e le società periferiche che si adattano in termini di subordinazione tecnologica.
Per quanto riguarda le politiche di delocalizzazione, mentre le aziende francesi e italiane hanno avuto la tendenza a delocalizzare intere filiere produttive, le aziende tedesche hanno mantenuto in patria le fasi di produzione a maggior valore aggiunto e trasferito all’estero le attività produttive a minor valore aggiunto. Ciò ha consentito alla Germania di ottenere due risultati: mantenere alti livelli di produzione e occupazione interni e rafforzare la competitività internazionale riducendo i costi di produzione attraverso il trasferimento di fasi a minor valore aggiunto ad est.
Inoltre, dopo la flessione del 2009 dovuta agli effetti immediati della grande crisi del 2008, la Germania e i Paesi di Visegrád già nel 2010 hanno riconquistato il livello produttivo dell’anno iniziale, superandolo notevolmente negli anni successivi. In particolare, i Paesi di Visegrád mostrano la crescita più pronunciata della produzione. Al contrario, Francia, Italia e Spagna hanno registrato un calo della produzione nella maggior parte del periodo e solo nel 2014-2015 sono state in grado di superare il livello di produzione dell’anno iniziale.
Dall’inizio dell’euro e soprattutto nel decennio successivo alla crisi del 2008, l’evoluzione della produzione nei principali Paesi produttori di automobili europei ha subito un profondo cambiamento nella geografia dell’industria automobilistica. I tratti distintivi di questa trasformazione sono stati, da un lato, l’ascesa della Germania a leader europeo indiscusso del settore e terzo produttore mondiale, dopo USA e Giappone; e, dall’altro, la conquista di posizioni significative nelle gerarchie produttive regionali da parte di alcune economie dell’Europa orientale (soprattutto le economie del gruppo di Visegrád). Inizialmente, nel 2000, quattro Paesi (Germania, Francia, Italia e Spagna) rappresentavano il 67% della produzione automobilistica europea, mentre la quota detenuta dai Paesi dell’Europa orientale era relativamente trascurabile (poco più del 7% complessivamente).
Tra la nascita dell’UEM e la grande crisi del 2008 il quadro è sostanzialmente cambiato. Mentre la Germania ha continuato ad aumentare la propria quota (raggiungendo il 28% nel 2008), Francia, Italia e Spagna hanno ridotto significativamente le proprie quote di produzione e, cosa più impressionante, i Paesi dell’Europa orientale (gruppo Visegrád + Romania) hanno raddoppiato le proprie quote.
Un decennio dopo, nel 2019, alla vigilia dello shock da coronavirus, anche la Germania ha iniziato a ridurre le proprie quote di produzione di automobili, a causa di un contesto globale più protezionista (con le guerre commerciali scatenate dall’amministrazione Trump con la Cina e l’UE) e meno favorevole per l’export tedesco verso i mercati extraeuropei (verso Cina e Asia orientale). Al contrario, i Paesi dell’Est Europa hanno continuato ad aumentare la loro quota di produzione nel settore automobilistico anche nell’anno della pandemia (nel 2020 hanno raggiunto una quota totale del 21%). Negli ultimi anni Paesi come Repubblica Ceca e Slovacchia hanno nettamente superato l’Italia – storicamente uno dei principali Paesi produttori – in termini di veicoli prodotti (e quote di produzione). Così, solo pochi anni dopo il loro ingresso nell’UE (2004), i Paesi di Visegrád, diventando parte integrante della matrice produttiva tedesca e partecipando alla formazione di un’area regionale integrata, hanno potuto trasformare la loro base industriale e diventare produttori competitivi nel settore automobilistico.
Dopo il crollo del blocco socialista, l’espansione verso est nel settore automobilistico da parte della Germania (e di altri Paesi) iniziò a prendere slancio. Il produttore tedesco Volkswagen ha aperto la strada nel 1991 acquisendo Škoda, per poi aprire due stabilimenti Audi in Ungheria nel 1993. Anche aziende di altri Paesi stavano investendo nell’Europa orientale; per esempio, in Polonia: Fiat espandendo i suoi stabilimenti a Tychy per produrre la 500, l’americana Ford a Plońsk nel 1995, Opel (GM) e la coreana Hyundai-Kia a Gliwice nel 1998. Dopo il 2000, soprattutto dopo che i Paesi dell’Europa orientale hanno aderito all’UE , gli investimenti esteri si sono intensificati con la presenza, ad esempio, di Hyundai-Kia in Slovacchia (2006) e in Repubblica Ceca, e della cinese Great Wall in Bulgaria (2012). Se l’obiettivo di questa intensa attività di investimento non era solo quello di rifornire i mercati dell’Europa orientale, ma anche di ottenere l’accesso ai mercati occidentali, è chiaro che il livello di complessità e gerarchia all’interno del blocco orientale tendeva ad aumentare, data la crescente capacità produttiva e il richiesto maggiore grado di internazionalizzazione. Progressivamente, ondate successive di investimenti diretti esteri nell’Europa orientale hanno ampliato la capacità di produzione nel settore automobilistico nella regione, rendendo i Paesi dell’Est un contributo fondamentale nella catena manifatturiera del settore. Nel periodo dal 2000 al 2008, l’industria automobilistica ha raccolto la quota maggiore di investimenti diretti esteri da Germania, Francia e Italia nei Paesi dell’Est. A loro volta, gli investimenti nel settore automobilistico hanno rappresentato quasi il 20% degli investimenti totali nella regione e la produzione automobilistica è diventata l’industria dominante.
Quali sono state le ragioni di questa proiezione verso est della piattaforma manifatturiera europea nel settore automobilistico? I differenziali del costo del lavoro sono stati e sono uno dei principali motori dell’espansione verso est. Le imprese tedesche, in particolare, tendevano a delocalizzazione, almeno inizialmente, dei segmenti ad alta intensità di manodopera, pur mantenendo attività ad alta intensità di conoscenza tecnologica in Germania. Nel 2002, le principali aree target per gli IDE tedeschi – Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Slovacchia – avevano salari orari compresi tra un quarto e un quinto di quelli della Germania dell’Est.
Il trasferimento verso est ha contribuito a rafforzare la competitività tedesca attraverso due canali. Diretto, attraverso l’importazione di beni intermedi prodotti ad est con un costo del lavoro notevolmente inferiore a quello domestico. E uno indiretto, legato alla capacità di moderare il costo del lavoro (in Germania), e quindi il prezzo dei beni finali esportati, anche grazie alla minaccia della delocalizzazione.
La prospettiva di delocalizzazione delle attività in aree a basso salario è stata un importante fattore di moderazione salariale in Germania dall’inizio degli anni 2000, rappresentando uno degli strumenti chiave attraverso cui le imprese hanno ottenuto il consenso dei sindacati coinvolti negli organi interni di co-determinazione delle grandi imprese manifatturiere.
Oltre ai differenziali del costo del lavoro, alle differenze nella tassazione delle società, alle sovvenzioni e, più in generale, il sistema fiscale favorevole alle imprese che caratterizza le economie dell’ex area socialista costituisce un secondo fattore trainante. I generosi vantaggi fiscali e sussidi diretti offerti alle aziende manifatturiere tedesche dalla Slovacchia, ad esempio, hanno svolto un ruolo importante nell’attrarre Volkswagen, Hyundai, Kia e Peugeot. Questi incentivi hanno contribuito allo “spostamento” anche dei produttori dell’Europa meridionale. Nel 2002, ad esempio, il gruppo Volkswagen ha deciso di trasferire il 10% della produzione della SEAT Ibiza dallo stabilimento di Martorell (Catalogna) a Bratislava, a seguito del fallimento delle trattative con i sindacati spagnoli per ottenere una maggiore flessibilità del lavoro.
La proiezione verso est dell’industria automobilistica in Europa includeva ovviamente la produzione di parti e componenti. Il consolidamento della leadership tedesca nel settore automotive è andato di pari passo con una sostanziale riorganizzazione della rete produttiva dei componenti. L’integrazione nella catena del valore tedesca ha accresciuto il peso relativo dei produttori di componenti dell’Europa orientale (ma allo stesso tempo ha anche accresciuto la loro dipendenza).
Questi sviluppi hanno anche comportato effetti di spostamento per i produttori di componenti dell’Europa meridionale. Prima dell’introduzione dell’UEM, l’industria automobilistica tedesca faceva un uso intensivo di input intermedi prodotti da aziende francesi, italiane e spagnole. Successivamente, dopo la nascita dell’euro, la composizione geografica delle importazioni tedesche di beni intermedi è cambiata radicalmente. Tale cambiamento si è concretizzato in una significativa crescita dei volumi di beni intermedi forniti all’industria tedesca dai Paesi dell’Est (soprattutto quelli del gruppo Visegrád) e in una contrazione dei componenti forniti da Italia e Francia. Nel 2015 la quota di valore aggiunto imputabile ai Paesi di Visegrád ha rappresentato un impressionante 25% del valore aggiunto estero presente nelle esportazioni tedesche nel settore dei mezzi di trasporto, mentre la quota dei Paesi dell’Europa meridionale era solo del 13%.
Pertanto, dai dati finora menzionati emergono tre principali fatti di base:
- l’espansione verso est della sua rete di produzione non ha impedito, ma anzi consentito, alla Germania di mantenere alti livelli di produzione di automobili e occupazione in patria;
- i Paesi della periferia orientale dell’UE – in particolare le economie del blocco di Visegrád – sono ora un elemento chiave della produzione automobilistica in Europa;
- Francia, Italia e periferia meridionale (con la parziale eccezione della Spagna) stanno riducendo il loro peso nella produzione totale (beni finali e componenti) dell’industria automobilistica europea.
L’impoverimento della struttura produttiva in Paesi come l’Italia, ma anche la Francia, è associato a strategie di internazionalizzazione che hanno puntato a trasferire all’estero intere linee di produzione. La Germania, invece, ha seguito un approccio di riorganizzazione verticale della produzione, trasferendo all’estero solo fasi a basso valore aggiunto e mantenendo e sviluppando in patria quelle a più alto valore aggiunto e tecnologicamente più avanzate. Inoltre, ha progressivamente trasferito ad Est la produzione di vetture di fascia bassa e di piccola cilindrata, mantenendo internamente la produzione di vetture di alta qualità.
Inoltre, la Germania ha anche seguito diverse strategie di internazionalizzazione in diverse aree geografiche. Mentre nelle aree extraeuropee (Nord e Sud America, Est e Sud-Est asiatico) lo scopo della strategia di delocalizzazione della Germania è stato quello di servire i mercati interni di queste aree, nel caso dei Paesi dell’Est Europa la produzione è stata riesportata verso Germania o esportata in Paesi terzi. Pertanto, i Paesi dell’Europa orientale fungono da pura piattaforma di esportazione e gli effetti delle attività di delocalizzazione tedesca in questi Paesi in termini di espansione del mercato interno sono stati trascurabili.
La creazione di una rete integrata di produttori di componenti – di proprietà di società tedesche o composta da fornitori locali per filiali tedesche – aumenta il grado di dipendenza dell’industria locale dalle società tedesche, che possono decidere unilateralmente ubicazione, tecnologia e mercati di sbocco per le imprese nella loro catena del valore.
In queste condizioni, le opportunità di intraprendere una traiettoria di aggiornamento tecnologico, diversificazione ed emancipazione dalle aziende subfornitrici sono inevitabilmente limitate. L’integrazione con l’industria automobilistica tedesca ha però aumentato l’intensità tecnologica della produzione del gruppo Visegrád: è aumentata la quota delle esportazioni di prodotti a tecnologia medio-alta ed è diminuita la quota di prodotti ad alta intensità di manodopera. Negli ultimi anni c’è stato uno spostamento dei Paesi dell’Europa orientale verso segmenti manifatturieri più high-tech, che, tuttavia, non si rispecchia in un corrispondente miglioramento della composizione occupazionale. Solo i Paesi dell’Europa occidentale (essenzialmente Germania e altri Paesi centrali) mostrano uno spostamento della composizione occupazionale nella direzione di un aumento della componente più ad alta intensità di conoscenza (più precisamente, servizi alle imprese ad alta intensità di conoscenza).
Tuttavia, la continuazione di questo processo di potenziamento della produzione è fondamentale per i Paesi dell’Europa orientale, in quanto il progressivo aumento dei salari riduce il vantaggio competitivo del costo del lavoro. La polarizzazione della produzione verso l’Europa Orientale (soprattutto il gruppo Visegrád) potrebbe diminuire man mano che la delocalizzazione delle attività si sposta nel Sud-Est (Romania, Bulgaria, ma anche Slovenia e Croazia).
Il divario tra i Paesi europei nella performance del settore automotive – in particolare quello tra la Germania e i restanti principali Paesi produttori, come Francia, Italia e Spagna – si giustifica non solo in termini di livelli produttivi, ma anche in termini di livello tecnologico e investimenti in ricerca e sviluppo. Della top ten europea delle case automobilistiche europee in termini di investimenti in R&S, sei sono aziende tedesche, mentre solo tre sono francesi e solo una italiana. Il divario tecnologico è stato accelerato dal 2000. Secondo i dati dell’OCSE, tra il 2001 e il 2008 la spesa tedesca in ricerca e sviluppo nell’industria automobilistica è cresciuta del 3,5%, rispetto al 2,4% e all’1,4% rispettivamente di Francia e Italia. Tra il 2013 e il 2016, le case automobilistiche tedesche hanno aumentato gli investimenti in ricerca e sviluppo dell’8,6%, rispetto all’1,4% e al -1,5% rispettivamente delle società francesi e italiane. La trasformazione strutturale e la riorganizzazione della produzione negli ultimi due decenni ha reso la Germania il quarto Paese produttore automobilistico mondiale (dopo Cina, Stati Uniti e Giappone) e il primo in Europa. È il Paese europeo con il maggior numero di stabilimenti OEM (Original Equipment Manufacturers) (41 unità).
La proiezione verso est delle strategie di internazionalizzazione delle aziende tedesche ha contribuito anche a una crescita significativa degli stabilimenti di produzione (di veicoli, parti e componenti) nei Paesi dell’Europa orientale. Il blocco di Visegrad conta 34 stabilimenti, più tre stabilimenti situati rispettivamente in Romania e uno stabilimento in Slovenia e Croazia. Soprattutto la Germania e le economie dell’Europa orientale (Paesi di Visegrád, ma anche Romania) sono i Paesi con una quota significativa di occupazione allocata nell’industria automobilistica, con una quota che supera la media UE.
Questa evidenza porta ad una riflessione sulle possibili ricadute sull’industria tedesca – e, di conseguenza, su quella dei Paesi inclusi nella catena del valore tedesca – delle nuove radicali trasformazioni previste per il settore automotive. Negli ultimi anni, ad esempio, sono comparsi nuovi attori globali, in particolare la Cina, che oggi è il primo produttore mondiale di automobili in termini di volumi prodotti. La quota cinese è balzata dal 9% nel 2005 al 33% nel 2020, mentre la quota europea si è contratta dal 31% al 22% nello stesso periodo.
In questo contesto di accresciuta concorrenza globale, la Germania e gli altri produttori europei devono fare i conti anche con altre nuove sfide: cambiamenti nella tecnologia e nei consumi (car sharing, guida autonoma, auto elettriche), revisione degli accordi commerciali. Queste circostanze potrebbero portare a una drastica riduzione della domanda di automobili, cambiamenti nella qualità e nella tecnologia della produzione, cambiamenti nell’organizzazione internazionale della produzione. Con riferimento alla riconversione produttiva e alla transizione tecnologica richiesta dalla produzione su larga scala di auto elettriche, ad esempio, l’aspettativa è che il numero dei componenti diminuisca drasticamente e i tempi di montaggio diminuiscano da 6,2 a 3,7 ore. Inoltre, il ciclo di vita di un’auto elettrica sarà molto più lungo e le esigenze di manutenzione molto inferiori rispetto ai veicoli convenzionali.
Questi cambiamenti radicali nella produzione e nella tecnologia portano a chiedersi quale impatto avrà lo sviluppo del settore delle auto elettriche sulla domanda di componenti, produzione, occupazione e sulla stessa ristrutturazione delle catene del valore globali, soprattutto nei Paesi europei specializzati in componenti (Europa dell’Est, Nord Italia e la stessa Germania)12.
I produttori europei devono rendersi conto che la rivoluzione elettrica sembra essere ben avviata e che i produttori cinesi sono in prima linea nella ricerca sulle batterie e nella produzione di veicoli elettrici. In questo contesto, le strategie di investimento nel settore dei veicoli elettrici potrebbero offrire sostanziali vantaggi di primo ingresso nel mercato delle nuove auto elettriche. Inoltre, i produttori europei dovranno tenere presente che le modifiche in corso negli accordi commerciali potrebbero modificare i vantaggi di localizzazione degli impianti precedenti e delle loro specializzazioni.
Guardare al futuro della Germania insieme a quello dell’Unione Europea
Nel suo discorso su “L’Europa è il nostro futuro” all’Università Carlo di Praga il 29 agosto, Scholz ha parlato di sovranità europea intesa come una maggiore autonomia in tutti i settori e una assunzione di “maggiori responsabilità per la nostra stessa sicurezza”. I riferimenti espliciti sono andati alle dipendenze che l’UE deve affrontare come le importazioni di energia russa e le carenze nella fornitura di semiconduttori13. “Dobbiamo porre fine a queste dipendenze unilaterali il prima possibile!”, ha detto. “Quando si parla di approvvigionamento di risorse minerarie o di terre rare, si pensa principalmente a Paesi lontani dall’Europa. Eppure, spesso si dimentica che gran parte del litio, cobalto, magnesio e nichel di cui le nostre aziende hanno così disperatamente bisogno si trova in Europa. In ogni cellulare, in ogni batteria dell’auto, preziose risorse aspettano di essere sfruttate. Quindi, quando parliamo di sovranità economica, dovremmo anche pensare a utilizzare questo potenziale in modo molto più efficiente. In molti casi, la tecnologia per raggiungere questo obiettivo è già disponibile. Ciò di cui abbiamo bisogno sono standard comuni per la transizione verso un’economia circolare veramente europea, quello che chiamo un aggiornamento strategico del nostro mercato interno.” Per questo Scholz ha sollecitato che “dobbiamo stabilire un progetto, qualcosa come una strategia Made in Europe 2030” per “sforzarci di colmare le nostre lacune”.
Il cancelliere ha sostenuto la necessità di una maggiore sovranità e autonomia europea “in tutti i campi“, come l’energia, i minerali rari, i semiconduttori, la mobilità dei dati, il settore spaziale e Internet a banda larga, nonché la tecnologia verde necessaria per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Ma, “indipendenza economica non significa autosufficienza. Questo non può essere l’obiettivo di un’Europa che ha sempre beneficiato e continua a beneficiare dell’apertura dei mercati e del commercio“, ha affermato.
Per chip e microprocessori l’UE ha messo a punto un piano – l’EU Chips Act – che prevede di mobilitare fino a 43 miliardi di euro (soprattutto da parte di aziende private e dei governi nazionali), attraendo Intel ad investire alcuni miliardi in Francia, Polonia, Germania, Irlanda e Spagna. Altre grandi aziende come Infineon, Bosch, NXP e GlobalFoundries stanno mettendo a punto piani di investimento. Ma, Scholz sostiene che “la nostra ambizione non dovrebbe limitarsi alla fabbricazione in Europa di prodotti che possono essere prodotti altrove. Voglio un’Europa che sia all’avanguardia nella produzione di tecnologie chiave. Prendiamo l’esempio della mobilità futura. I dati digitali giocheranno un ruolo cruciale, non solo per i sistemi di guida autonoma, ma anche per il coordinamento dei diversi mezzi di trasporto e la gestione intelligente dei flussi di traffico. Per questo occorre, al più presto, istituire uno spazio unico europeo per il trattamento transfrontaliero dei dati sulla mobilità. Abbiamo iniziato in Germania con lo spazio dati sulla mobilità. Colleghiamolo a tutta l’Europa. È aperto a chiunque voglia dare una scossa alle cose. Così, possiamo essere pionieri del mondo.”
Per quanto riguarda la digitalizzazione, secondo Scholz, “dobbiamo pensare in grande e includere il dominio spaziale nelle nostre politiche. Dopotutto, preservare la nostra sovranità nell’era digitale dipenderà dalle nostre capacità spaziali. Accesso indipendente allo spazio, moderni satelliti e mega-costellazioni: tutto questo è cruciale non solo per la nostra sicurezza ma anche per l’azione ambientale, l’agricoltura e, soprattutto, per la transizione digitale. Si tratta di creare un Internet paneuropeo.”
Anche l’obiettivo di raggiungere la neutralità climatica come Unione Europea entro il 2050 offre un’enorme opportunità “per essere i primi ad agire in un’area cruciale per il futuro dell’umanità, sviluppando qui in Europa le tecnologie necessarie e utilizzate nel mondo.” Le sollecitazioni di Scholz sono diverse:
- per quanto riguarda l’elettricità, la creazione di una rete e di un’infrastruttura di stoccaggio per un vero mercato interno dell’energia che fornisca all’Europa energia idroelettrica dal nord, energia eolica dalle coste e energia solare dal sud, in modo affidabile in estate e inverno;
- una rete europea dell’idrogeno che colleghi produttori e consumatori e porti a un boom dell’elettrolisi in Europa. Solo sfruttando l’idrogeno il settore industriale può essere reso neutrale dal punto di vista climatico;
- allestire una fitta rete di punti di ricarica per veicoli in ciascuno dei Paesi – per le auto elettriche, ma anche per i mezzi pesanti;
- investimenti in nuovi carburanti per l’aviazione a impatto climatico zero e nelle relative infrastrutture, ad esempio negli aeroporti, in modo che l’obiettivo del trasporto aereo a impatto climatico zero non rimanga un pio desiderio, ma diventi una realtà, qui in Europa.
“Questa trasformazione ambientale e digitale della nostra economia richiederà ingenti investimenti privati. Per questo è assolutamente necessario creare un mercato europeo dei capitali solvibile e un sistema finanziario stabile.” Per questo, secondo Scholz, “l’Unione dei mercati dei capitali e l’Unione bancaria sono fondamentali per la nostra prosperità futura.”
Anche su un tema controverso come quello dell’immigrazione occorrono nuove politiche. “Abbiamo bisogno dell’immigrazione. Attualmente stiamo vedendo nei nostri aeroporti, nei nostri ospedali e in molte aziende che siamo a corto di manodopera qualificata dappertutto“, ha affermato. Secondo il cancelliere, l’UE ha esaurito l’attuale sistema che fornisce risposte ad hoc ogni volta che scoppia una crisi migratoria. Invece, ha suggerito, il blocco dovrebbe elaborare una nuova politica per facilitare la migrazione legale, ridurre gli ingressi irregolari e offrire asilo alle persone “che necessitano di protezione“.
Sulla politica fiscale, il cancelliere ha descritto la pandemia di CoVid-19 come un punto di svolta, quando “l’ideologia ha lasciato il posto al pragmatismo” con la creazione del fondo per la ripresa da 750 miliardi di euro a livello dell’UE. Gli Stati membri stanno attualmente discutendo la riforma delle regole di bilancio dell’UE, che sono state sospese per resistere alle ricadute della pandemia. Le regole hanno lo scopo di garantire che tutti i Paesi mantengano il proprio disavanzo al di sotto del 3% e il debito al di sotto del 60% del PIL, limiti che molti ora superano di un margine molto significativo. Le discussioni vertono sulla velocità di riduzione del debito e sulle possibili eccezioni al calcolo. “Vogliamo parlarne apertamente con tutti i nostri partner europei, senza pregiudizi, senza tenere conferenze, senza che si giochi ad attribuire colpe a nessuno“, ha affermato Scholz.
Alessandro Scassellati
- Presentata per la prima volta in un importante discorso nel luglio 1963 da Egon Bahr, allora il più vicino consigliere del sindaco di Berlino Ovest e futuro cancelliere, Willy Brandt.[↩]
- Una relazione definita Wandel durch Handel (cambiamento attraverso il commercio) che per decenni è andata a vantaggio di entrambe le parti: la Germania ha fornito macchine e altri beni industriali di alta qualità; la Russia ha fornito la materia prima per alimentare l’industria tedesca. I gasdotti ad alta pressione e le relative infrastrutture di supporto hanno unito i due Paesi, poiché richiedevano fiducia, cooperazione e dipendenza reciproca. Nel 1979, il cancelliere Helmut Schmidt aveva spiegato il suo sostegno al gasdotto che nel 1984 ha portato la dipendenza tedesca dal gas russo dal 15% al 30%, dicendo al presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter: “Coloro che sono impegnati in scambi commerciali tra loro non si sparano l’un l’altro“. Se negli anni ’70 la Germania si era impegnata a non fare mai affidamento sulla Russia neanche per il 10% delle sue forniture di gas, nel 2021 la Russia ha fornito più della metà del gas naturale tedesco (55%), grazie al gasdotto Nord Stream 1 operativo dl 2011, e circa un terzo di tutto il petrolio che i tedeschi bruciavano per riscaldare case, fabbriche di energia e rifornire di carburante i veicoli.[↩]
- Per decenni l’economia tedesca ha grandemente beneficiato dall’euro debole, divenendo il campione mondiale delle esportazioni. Nonostante i problemi delle catene di approvvigionamento e la tesa situazione globale, le esportazioni tedesche sono aumentate del 13,4% nella prima metà del 2022 rispetto all’anno precedente. La svalutazione dell’euro rispetto al dollaro è soprattutto il risultato della politica monetaria: mentre la FED ha alzato più volte i tassi di interesse a causa dell’aumento dell’inflazione, la gestione della BCE procede con maggiore esitazione; per cui il differenziale dei tassi di interesse tra America ed Eurozona si è ampliato.[↩]
- Un euro può comprare sempre meno sui mercati mondiali, il che significa che le merci in Germania stanno diventando più costose. Pertanto, l’eccedenza del commercio estero è scesa nella prima metà dell’anno da oltre 96 miliardi di euro dell’anno precedente a soli 34 miliardi di euro circa.[↩]
- Scholz ha parlato anche della necessità di creare un Consiglio Europeao dei Ministri della Difesa con l’obiettivo di una migliore sinergia in Europa per quanto riguarda le capacità di difesa, rafforzare l’interoperabilità delle forze militari, riducendo il numero dei sistemi d’arma e incrementando alleanze e collaborazioni tra le imprese del military-industrial complex europeo.[↩]
- Dall’ingresso della Croazia nel 2013, l’ultimo Paese ad entrare nell’UE, il processo di adesione si è fermato, provocando aspre lamentele da parte dei Paesi candidati, lasciati oggi in una sorta di limbo dell’allargamento.[↩]
- Il successo delle esportazioni tedesche, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2008, si è basato sulla vendita di prodotti ad alto valore aggiunto, come macchine utensili complesse o automobili di fascia alta, ai mercati in rapida crescita in Cina e nell’Asia orientale. Nel 2020, la Cina era seconda solo agli Stati Uniti come mercato per la Germania, essendo cresciuta rapidamente nel decennio precedente fino a rappresentare l’8% di tutte le esportazioni tedesche. Quelle esportazioni hanno sostenuto sia la grande industria automobilistica sia il Mittelstand (le società di medie dimensioni a gestione familiare che alimentano l’economia tedesca) che ha esportato soprattutto beni capitali – macchine con cui realizzare altri prodotti. L’apparentemente insaziabile domanda cinese di macchinari e attrezzature, mentre l’economia ha continuato a crescere nel 2008-2009 e oltre, ha sostenuto le crescenti esportazioni tedesche. L’aumento della prosperità delle famiglie in Cina ha significato anche un mercato interno dei beni di consumo in espansione, con il mercato automobilistico cinese già il più grande del mondo nel 2009 e le automobili tedesche particolarmente favorite dalla sua classe media in espansione e recentemente benestante.[↩]
- Anche qui, come per la dipendenza dal gas russo, la Germania corre un alto rischio, dato il progressivo deterioramento delle relazioni tra Cina e Occidente e la possibilità che il disaccoppiamento dalla Cina diventi il nuovo imperativo politico ed economico nel prossimo futuro. Un tema analizzato in un nostro articolo qui. Non a caso a giugno Siegfried Russwurm, presidente della BDI, la potente associazione industriale tedesca, ha avvertito: “C’è un errore che non dobbiamo fare: promuovere la formazione di blocchi e la disintegrazione dell’economia globale dividendola in campi ideologici“. Mentre il 46% di tutte le aziende tedesche afferma di essere attualmente in gran parte dipendente dalle importazioni cinesi, più di due terzi ammette di essere impegnata a cercare di diversificare la propria catena di approvvigionamento, secondo uno studio dell’istituto IFO.[↩]
- Da notare che in nessuno dei Paesi dell’Europa centro-orientale, a differenza di quelli occidentali, esiste un sistema di contrattazione collettiva salariale – né aziendale, né settoriale – salvo che per le sedi distaccate di poche multinazionali. Per chi lavora nelle fabbriche si applica solo il salario minimo di legge e questo è generalmente intorno ai 4-6 euro all’ora, pari a circa un decimo dell’operaio tedesco che costa 35-40 euro l’ora lorde (26-30 euro di retribuzione netta) e la cui produttività effettiva non è di tanto superiore. Quasi un terzo dei lavoratori rumeni riceve il salario minimo e un altro quinto ha contratti precari che offrono salari inferiori. In Polonia la produttività è cresciuta il 43% in più dei salari negli ultimi 10 anni e il rapporto è molto simile in Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Paesi baltici.[↩]
- Accanto ad alcuni milioni di lavoratori dell’industria che hanno relativamente alti salari e un posto di lavoro quasi garantito, ci sono circa 18-20 milioni di “lavoratori atipici” che lavorano soprattutto nel settore dei servizi, 6,7 milioni sono mini-jobbers (che lavorano fino a 51 ore al mese) con un reddito mensile massimo di 424 euro, circa 300 mila sono gli addetti nel lavoro familiare, 8,3 milioni sono gli occupati part-time e 2,5 milioni lavorano con contratti a tempo, mentre circa 1,6 milioni di stranieri percepiscono il sussidio di disoccupazione di lunga durata. Questo ha significato una crescita del settore dei bassi salari, con persone che guadagnano meno del 60% dello stipendio medio, molto vicino alla definizione ufficiale di povertà, che ora contiene più del 20% della forza lavoro. In particolare, i lavoratori impiegati in posti di lavoro a basso costo nel settore dei servizi costituiscono un nuovo “proletariato di servizi“. Quando si è parlato di “piena occupazione” tedesca (il jobwunder merkeliano) ci si sarebbe dovuti chiedere se questi lavori flessibili e precari fossero sufficienti per arrivare a fine mese, a non cadere nella “trappola della povertà” e ad essere ancora capaci di pianificare il proprio futuro, nel modo in cui possono farlo le persone con altri tipi di impiego. Di fatto, negli ultimi anni abbiamo assistito alla fine del sogno tedesco-occidentale di un’egalitaria “economia sociale di mercato” con “prosperità per tutti“, dopo aver assistito alla fine del sogno di una società socialista della Germania dell’Est dopo il 1989. Questa massa di lavoratori precari e poco pagati rappresenta l’altra faccia dell’aristocrazia operaia tedesca in via di restringimento che lavora nell’industria automobilistica e negli altri settori industriali che per anni hanno segnato record di esportazione. Ormai, anche in molte aziende industriali tedesche la forza lavoro è ormai divisa in lavoratori stabilizzati coperti da accordi collettivi di lavoro e in un crescente numero di lavoratori precari con contratti di lavoro temporaneo. La presenza di questi ultimi ricorda agli stabilizzati che il loro futuro potrebbe presto diventare meno sicuro.[↩]
- Con Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria, l’economia tedesca gestisce un volume di scambi più ampio rispetto a quello con la Cina. La Germania è il più grande partner economico dell’Ungheria, con circa il 30% delle esportazioni e circa un terzo dei nuovi posti di lavoro ungheresi (almeno mezzo milione) è stato creato da un’azienda tedesca. Una parte importante della competitività dell’industria tedesca, soprattutto di quella dell’automobile, è il risultato di processi di investimento diretto nel capitale delle imprese e della costruzione di reti di subfornitura della componentistica che hanno consentito di mantenere in Germania l’assemblaggio finale, così come i laboratori di ricerca e sviluppo, che rappresentano le fasi di produzione a più alto valore aggiunto.[↩]
- Ad esempiio, complessivamente, in Slovacchia oltre 250 mila persone, con l’indotto di oltre 200 aziende, lavorano per il settore auto che oggi rappresenta il 47% dell’intero settore industriale nazionale. Un Paese industriale, ma il 75% degli investimenti nell’industria è nelle mani di imprese straniere, soprattutto tedesche, per cui il suo futuro dipende dalle loro decisioni e sulla capacità di continuare ad offrire manodopera qualificata e a prezzi competitivi. La grande incognita per il futuro di questa monocoltura industriale riguarda se e quando arriveranno gli investimenti per la produzione delle auto elettriche che, tra l’altro, elimineranno le produzioni relative a motori, pistoni, filtri, marmitte e tanti altri componenti.[↩]
- L’industria tedesca dei semiconduttori non è in grado di soddisfare la domanda interna da sola e la quota europea della produzione mondiale di semiconduttori è scesa dal 44% nel 1990 a circa il 10% oggi. Di conseguenza, la carenza globale di semiconduttori ha colpito duramente i produttori automobilistici tedeschi negli ultimi 18 mesi. Il governo tedesco (come quello di altri membri dell’UE) si sta ora affrettando ad aumentare gli investimenti interni nella produzione di semiconduttori. Si veda il nostro articolo qui[↩]
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