Del film di Segre ha già scritto bene su Transform Stefano Galieni1, raccontando anche del lavoro minuzioso di conoscenza fatto dal regista.
Scelgo di tornarci dopo averlo visto di persona perché penso utile continuare la riflessione personale e collettiva. Il film sta avendo un grande successo come già accaduto con C’è ancora domani. Mi azzardo in questo raffronto perché ne traggo l’idea che questo Paese ha bisogno di ritrovare le sue radici democratiche. Recise, con il rischio di consegnare la sua memoria all’altra parte, quella da cui viene in buona parte l’attuale governo.
Mentre però C’è ancora domani aveva un fondo di finzione consolatoria, La grande ambizione è una Storia che sta il più possibile nella realtà. Merito come ricordavo di Segre che ha attinto a documenti e alla memoria più vicina a Berlinguer. E ci ha messo di suo, lui che ha un’età e un percorso diverso, un acume politico e umano importante.
Il film è sulla dignità di una sconfitta. Dove per dignità c’è il come ci si rapporta alle responsabilità che la Storia ti consegna. E la sconfitta è quella della grande ambizione di portare tutto il Paese verso il socialismo, nella democrazia. Sconfitta dal vecchio Mondo bipolare e dal nuovo neoliberismo nascente.
Berlinguer nel film non è né un santino né un precursore revisionista. Sa dove sta, nel mondo bipolare, e dove vuole andare, verso il socialismo nella democrazia. Sa delle contraddizioni di entrambe le parole, socialismo e democrazia. Si affida ad un cammino collettivo che riguarda le grandi masse, il partito e la sua famiglia. Di cui lui, il grigio funzionario, è diventato il leader sotto i riflettori. Umano e comunista.
La dignità che Segre riconosce alle scelte, dure, che si fanno nel film, e nella Storia, è ciò che mi ha colpito. In epoca di aggressività sguaiata e non controllata che va da fb agli atti parlamentari che sembrano scritti da leoni da tastiera, c’è una educazione all’autocontrollo che è figlia dell’essere adulti consapevoli che c’è chi e cosa dipende da te. La sconfitta è tanto più profonda perché poi, dopo ancora sussulti e resistenze, si aprirà l’epoca della restaurazione piena del controllo devastante da parte dei dominanti.
Nel film ancora è il tempo in cui si può coltivare la grande ambizione, con gli altri. Al ferroviere che gli chiede se deve o no far pagare il biglietto ai giovani senza soldi Berlinguer risponde che è lui il ferroviere, è lui che deve decidere. E ai figli che hanno incrociato i cortei del ‘77 e chiedono lui da che parte sta risponde che è sempre dalla stessa.
Segre, più che Bellocchio, fa un film per noi.
Per questo ci metto “il dibattito”. La mia storia è legata al Pdup e sono entrato a Botteghe Oscure quando Berlinguer era morto. Ho lavorato in direzione con suo fratello, Giovanni, con cui poi sono stato Parlamentare Europeo insieme. Berlinguer Enrico come scrivo in un libretto auto pubblicato, Granelli di falci e di martelli, l’ho incontrato a Torino alla grande conferenza del PCI sulla alleanza dei produttori voluta e aperta da Fassino. Mentre intervenivo io a nome del Pdup e contro il progetto Mito, la integrazione tra Milano e Torino, la lunga presidenza si era svuotata. Era rimasto lui, Enrico Berlinguer, che mi ascoltò e mi diede la mano.
Da tempo ero convinto che il Pdup dovesse entrare nel PCI. Lo ero da quando dopo il terremoto, a Salerno, Berlinguer pose fine al rapporto con la DC, per l’alternativa, con una nuova consapevolezza della reazione in atto che lo portò ai cancelli della Fiat.
Il Pdup era una piccola forza non anti PCI. Stava appieno nei movimenti post ’68 ma non giudicava il PCI nemico o dannoso per la Storia. Chi vuole può leggere Lucio Magri nel Sarto di Ulm e avere una idea abbastanza compiuta del rapporto con la Storia del Comunismo del’ 900. Questione per me fondamentale perché questa è per me la politica, cioè una grande ambizione. Il’68 è stata una sua grande manifestazione ma la Storia del ‘900, errori ed orrori compresi, è quella del movimento comunista, socialista ed operaio. Io, per ragioni generazionali, ho vissuto, anche con le scelte personali (familiari, di lavoro, di vita) la pienezza dell’onda lunga del’68. Ma la mia ambizione, e la mia ancora, stava in quel paese nel paese che volevo “conquistare”. Per lungo tempo tra i “gruppi” l’accusa massima era “tu vuoi entrare nel PCI”. Un po’ come oggi il “mai col PD”, anche se allora la cosa era più seria e riguardava più gente. Ad un certo punto, fu nel ’77 quando stavo nei movimenti di lotta per la casa mentre quel movimento parlando di masse mi sembrava “usare” i “miei proletari”, pensai che era tempo che si operassero scelte diverse. Non ce n’erano le condizioni. Ma quando col terremoto Berlinguer cambia cominciai a proporre che ci si avvicinasse portando le energie che ancora c’erano nella nuova sinistra a contribuire a quella svolta. Dissi la mia per le elezioni comunali di Roma. La “pagai” ma si fece la lista PCI Pdup per Petroselli che fu un grande successo. Poi nel dibattito in direzione. Prima “sotto di brutto” ma poi con la partecipazione del Pdup alle liste PCI alle politiche ed alle europee. C’erano però, a mio giudizio, attendismo, tatticismi, paura di disperdersi. Io sono sempre stato un po’ avventato ma penso che allora avessi ragione. Fatto sta che entrammo quando Berlinguer era morto. Il PCI mi si mostrò grande ma confuso. Feci in tempo a fare una grande battaglia contro il nucleare che mi confermò che si poteva provare a cambiare quel partito. Feci in tempo ad imparare che c’è differenza tra quando fai e dici ma succede poco e quando invece succede molto perché conti. Cioè imparai molto meglio il “mestiere”. Feci in tempo a partecipare alla lotta contro Occhietto in cui fummo importanti perché eravamo determinati e non potevamo essere confusi col vecchio.
La storia vuole che dopo essere stati accusati di essere quelli che entravano al PCI fossimo poi quelli che col 30% di quel partito, donne e uomini di una lunga Storia, fondammo Rifondazione reincontrando parti della mia storia. Ma questa è un’altra storia.
Roberto Musacchio