Nell’immaginare l’esito possibile della guerra in corso sul territorio ucraino a seguito dell’invasione russa, un tema largamente ignorato riguarda la possibilità di ripristinare condizioni di convivenza in una popolazione che già prima del febbraio 2023 si era andata polarizzando lungo linee di frattura etnica.
L’Ucraina che è emersa dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica non è mai esistita nelle linee territoriali in quel momento definite, fino alla metà degli anni ’50 quando Krusciov decise di trasferire la Crimea alla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina. Parte dei territori occidentali erano stati integrati da Stalin con il patto Molotov-Ribbentrop e consolidati con la vittoria sovietica contro il nazismo.
All’interno di quei territorii erano presenti varie minoranze. La più consistente era evidentemente quella russa che comprendeva circa un quarto della popolazione, ma con presenze minori di bielorussi, ungheresi, romeni. E poi un’altra componente etnica, quella piuttosto misconosciuta dei rusini o carpato-ruteni, che comprende circa un milione di persone, che i nazionalisti ucraini hanno sempre rifiutato di riconoscere considerandoli semplicemente degli ucraini “di montagna” (un po’ come i curdi per i nazionalisti turchi).
La distinzione tra russi etnici e ucraini etnici in realtà non è mai stata così netta dato che le vicende storiche avevano determinato la tendenza di una parte significativa degli ucraini (in senso etnico) ad utilizzare correntemente il russo come lingua abituale. Tanto è vero che circa il 20% di ucraini etnici utilizzavano il russo come lingua madre (parlata abitualmente in casa). Si è inoltre diffusa una parlata che mescolava entrambe le lingue ed utilizzata soprattutto nelle zone centrali del paese (una sorta di “itagnolo” per intenderci).
La questione linguistica è stata un importante elemento di divisione politica all’interno del Paese. L’est e il sud del Paese hanno sempre rivendicato il riconoscimento del russo come seconda lingua, mentre questa richiesta è stata sempre fieramente avversata dai nazionalisti ucraini. Il progetto dei nazionalisti, il cui consenso era però sostanzialmente concentrato nelle regioni occidentali del Paese, è sempre stato quello di spingere per l’ucrainizzazione forzata, cancellando la possibilità di riconoscere il russo come lingua di utilizzo pubblico (scuola, ospedali, tribunali, ecc.) anche nelle regioni dove la quasi totalità della popolazione parla russo.
Il progetto nazionalista, almeno fino al febbraio del 2022, non è mai stato maggioritario ma ha trovato incarnazione in alcuni governi, soprattutto con Yuschenko e poi con Poroschenko. Occorre ricordare che il consenso per le posizioni nazionaliste etniche (basate sull’idea che lo stato-nazione dovesse essere etnicamente puro) avevano al momento della dichiarazione dell’indipendenza il consenso di non più del 25% della popolazione, come ha ben analizzato lo storico Andrew Wilson nel suo libro sull’estrema destra nazionalista dei primi anni ‘90. Solo la formazione di una componente di “comunisti nazionali” orientati verso l’idea di un nazionalismo civico e quindi di difesa di un paese multietnico ha spostato una parte significativa dell’opinione pubblica nelle regioni orientali (ma non in Crimea) verso l’accettazione dell’indipendenza.
Il rafforzamento dell’estrema destra nazionalista (Svoboda, Pravy Sektor, Azov) che pure è rimasta fortemente minoritaria, ha influito sul dibattito politico complessivo del Paese anche grazie al fatto che è stata fatta propria da forze politiche di governo.
L’influenza ideologica dell’estrema destra si è concentrata su alcuni temi e obbiettivi. Innanzitutto il processo di ucrainizzazione e riduzione dei diritti delle minoranze, in particolare quella russa ma non solo. In secondo luogo un revisionismo storico teso a legittimare e ad imporre per legge una ricostruzione mitologica della storia dell’Ucraina. In particolare, come ha spiegato lo storico di origine ucraina Jean-Paul Himka che per questo è stato accusato di “tradimento”, su due punti storici: l’interpretazione della grande carestia degli anni ’30 come frutto di un preciso disegno staliniano di genocidio degli ucraini in quanto tali (l’invenzione del cosiddetto “Holodomor”) e la rimozione della natura fascista e anti-semita dei movimenti nazionalisti degli anni ’30 (l’OUN e l’UPA di Stepan Bandera). In terzo luogo la cosiddetta operazione di decomunistizzazione che ha portato a numerose iniziative simboliche come l’abbattimento di tutti i monumenti che ricordavano la vittoria sovietica contro il nazismo, il cambio di nome di migliaia di strade a paesi (ad esempio a Kiev una strada dedicata al generale sovietico che liberò la città dai nazisti e stata ribattezzata in onore di un collaborazionista antisemita degli stessi). Anche se la decomunistizzazione non è arrivata fino al punto di mettere in discussione quei mutamenti territoriali a favore dell’Ucraina decisi dal potere sovietico nel corso degli anni.
Dopo il colpo di mano di Maidan tutti i processi di polarizzazione etnica del paese da parte delle forze politiche dominanti si sono accentuati. I gruppi dell’estrema destra, compresi quelli apertamente neonazisti, e le relative milizie armate sono stati assorbiti all’interno dell’esercito e, con un ruolo importante, nell’SBU che costituisce di fatto una polizia politica non diversa per modalità d’azione dal suo corrispondente russo, l’FSB.
Le ultime elezioni presidenziali che hanno sancito una netta sconfitta del presidente Poroschenko e la vittoria del comico populista Zelensky sono state interpretate da molti osservatori come un insuccesso della visione etnonazionalista. Zelensky è stato eletto soprattutto grazie ai voti delle regioni dell’est, ovvero dei russi etnici rimasti dopo la separazione del Donbass e della Crimea e degli ucraini etnici russofoni ai quali apparteneva lo stesso candidato presidente. Anche se la sua campagna elettorale era basata soprattutto su una retorica anti-corruzione e anti-casta aveva preso posizione contro alcuni aspetti della politica di ucrainizzazione forzata e sembrava poter favorire un reale processo di pacificazione del paese.
In questo quadro sembrava possibile far fare passi avanti agli accordi di Minsk che prevedevano il riconoscimento della natura multietnica del paese, un’ampia autonomia alle regioni dell’est e altre garanzie per le minoranze. Ma tutte queste misure erano avversate dalle correnti etnonazionaliste che benché minoritarie minacciavano permanente il ricorso alla violenza contro la loro applicazione.
In realtà la presidenza di Zelensky è stata caratterizzata fino all’inizio della guerra da molti elementi di incompetenza, confusione e bruschi cambi da rotta. Tanto che il suo consenso stava rapidamente precipitando. Non erano mancate iniziative di dubbia legittimità democratica tese ad eliminare i suoi principali oppositori (sia di “destra” che di “sinistra”) che a sopprimere tutti i mezzi di stampa critici nei suoi confronti.
La guerra ha sicuramente rafforzato le componenti oltranziste e etno-nazionaliste da cui il Presidente ucraino non si è mai smarcato ma a cui, al contrario, ha sempre dato spazio e legittimazione, in questo sostenuto dall’ampia opera di ripulitura dell’immagine delle formazioni di ispirazione fascista e neo-nazista da parte dei media occidentali.
Le responsabilità nella polarizzazione etnica da parte di Putin con la decisione di alzare drasticamente il livello del conflitto militare in corso dal 2014 e di procedere all’annessione delle regioni dell’est occupate (comprese alcune da cui poi le truppe russe si sono dovute ritirare) così come l’esistenza di ideologie etno-nazionaliste sempre più forti all’interno della Federazione Russe, analoghe quelle dominanti in Ucraina, sono evidenti.
Ora il problema che emerge è la possibilità di ricostruire un’Ucraina multietnica così com’era alla fine dell’Unione Sovietica, al termine di una storia che era stata contraddittoria tra fasi di rafforzamento dell’identità ucraina e della sua dimensione culturale (negli anni ’20 e poi dopo la destalinizzazione) e altri invece di repressione delle tendenze considerate nazionaliste (soprattutto nella fase di affermazione dello stalinismo, collettivizzazione forzata, ecc.). Nel cosiddetto “piano di pace” di Zelensky, che costituisce in realtà un tentativo di vincere la guerra “a tavolino” e in altri interventi non emerge alcun elemento tale da garantire il riconoscimento del pluralismo ucraino. Semmai si sono sentite le minacce indiscriminate contro veri o presunti “collaborazionisti” da parte del capo dell’SBU.
Le scelte politiche in questi mesi sono state tutte tese ad eliminare qualsiasi presenza della cultura di lingua russa dalla vita del Paese sul piano politico (eliminazione dei partiti critici verso l’etno-nazionalismo ucraino) informativo (soppressione dei media critici), persecuzione delle correnti religiose non allineate al governo e così via, cancellazione di autori che, benché ucraini, non aderivano all’ideologia nazionalista.
L’integrità territoriale rivendicata da Kiev e sostenuta dal blocco occidentale fin ora ha totalmente evaso qualsiasi interrogativo su quale dovrà essere il destino delle minoranze russe che in Crimea e nel Donbass hanno rifiutato, dopo il colpo di mano di Maidan, il loro destino di cittadini di serie B in un Paese reso etnicamente omogeneo. Né sappiamo in realtà quale sia in proposito la reale opinione dei cittadini del Paese, dato che il controllo dell’informazione non è certo meno rigida di quella messa in atto in Russia da Putin. Anche se si può facilmente prevedere che la logica e legittima reazione all’invasione da parte di Mosca abbia spostato una parte significativa dell’opinione pubblica verso le posizioni dell’estrema destra etno-nazionalista e russofoba.
Alcune esperienze storiche in Europa ci indicano che laddove si è creata una frattura etnica (anche espressa in forma religiosa) che ha dato vita ad un conflitto militare questa ha portato ad una divisione permanente del Paese in questione. Si pensi a tre casi precisi diversi nel tempo ma con alcune analogie di fondo come la divisione Serbia-Kosovo, la frattura tra turchi e greci a Cipro e la stessa divisione dell’Irlanda fra la parte indipendente e le sei contee del nord rimaste unificate alla Gran Bretagna.
Nel caso del Kosovo la Nato e l’Occidente (autoproclamatosi “comunità internazionale”) hanno bombardato la Serbia, molto più massicciamente di quanto Putin abbia bombardato l’Ucraina, in nome della difesa della minoranza albanese dall’oppressione della maggioranza serba dominata dalle tendenze etno-nazionaliste. La guerra ha portato alla creazione di fatto di uno stato indipendente e quindi alla violazione dell’integrità territoriale serba, a suo volta nata dalla distruzione della Jugoslavia in quanto stato multi-etnico.
Nel caso di Cipro, dove si contrapponevano l’estrema destra greca che spingeva per l’enosis (l’unificazione) con la Grecia e la minoranza turca contraria, un colpo di stato favorito dai colonnelli di Atene, imponeva l’adesione alla Grecia. A questa decisione seguiva l’invasione militare turca del nord dell’isola e la divisione di fatto che ancora perdura. La parte turca ha proclamato la propria indipendenza anche se la Repubblica che ne è nata è riconosciuta solo dai turchi.
Nel caso dell’Irlanda, benché fosse del tutto evidente, trattandosi di un’isola, che l’integrità territoriale avrebbe dovuto portare al ritiro della Gran Bretagna da tutte le contee, si decise di garantire la separazione della minoranza protestante del nord (in buona parte di origine scozzese) per preservarla dall’integrazione forzata in uno stato che rivendicava la sua natura cattolica o, come veniva detto dai protestanti, “papista”.
In tutti questi casi si è creata una situazione di fatto (anche se per l’Irlanda venne universalmente accettata sul piano del diritto) alla cui soluzione si ritiene di poter provvedere solo con percorsi pacifici e condivisi dalle rispettive minoranze. Anche i nazionalisti irlandesi, che hanno ritenuto per alcuni decenni di poter riunificare l’isola con la forza, hanno accettato il principio del consenso da parte della popolazione delle sei contee. Per quanto riguarda Cipro è l’ONU ad essere da decenni ormai impegnata a costruire un percorso di riunificazione, anche in questo caso basato sulla premessa del consenso delle due comunità per uno stato di tipo federale o comunque bi-comunale. Nessuno propone di imporre la riunificazione con la guerra. Lo stesso si può dire del Kosovo. Anche chi si è opposto alla guerra voluta dalla Nato e ai bombardamenti della Serbia non ritiene che si debba ricorrere ad una nuova guerra per riportare i kossovari dove evidentemente non vogliono stare.
Nel caso dell’Ucraina, Nato ed Occidente, al contrario dei principi da loro applicati in altre situazioni, ritengono che le minoranze russe debbano essere ricondotte con la forza militare all’interno di uno Stato che non intende riconoscere i loro diritti fondamentali. Sembra evidente che la prosecuzione della guerra, oltre ai danni che provoca ogni giorno, e ai pericoli concreti di allargamento, rende sempre più difficile proprio il ritorno ad una Ucraina nella quale possano convivere pacificamente popolazioni diverse sul piano etnico, linguistico e culturale.
Franco Ferrari