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La fine della globalizzazione neoliberista: gli Stati Uniti sono ormai protezionisti

di Alessandro
Scassellati

La mossa di Biden di imporre dazi su diversi prodotti cinesi per proteggere settori manifatturieri considerati strategici dalla concorrenza a basso costo mira ad aumentare i posti di lavoro, ma i costi potrebbero non piacere ai consumatori perché segnano la fine dell’era de beni cinesi a buon mercato. I dazi di Biden mirano esclusivamente ridurre la pressione competitiva e a impedire che tecnologie/merci verdi più economiche, spesso migliori, raggiungano i consumatori statunitensi. Alla Cina si rimprovera di continuare ad abbracciare lo sviluppo guidato dallo Stato, adottando politiche industriali mirate che favoriscono lo sviluppo delle aziende cinesi a scapito di quelle statunitensi ed europee. Inoltre, gli investimenti e i successi delle aziende cinesi stanno sollevando preoccupazioni per la sicurezza nazionale statunitense, ossia per il mantenimento del dominio economico-politico e militare degli Stati Uniti nel mondo. Come rispondere all’ascesa della Cina è ora al centro del dibattito politico statunitense, con il presidente Biden che segue il suo predecessore, Trump, nell’adottare un approccio economico aggressivo.

Durante l’ultimo quarto di secolo, molti prodotti di consumo sugli scaffali dei negozi statunitensi sono diventati meno costosi. Un’ondata di importazioni dalla Cina e da altre economie emergenti ha contribuito a ridurre il costo di videogiochi, abbigliamento, arredi, elettrodomestici e altro ancora. Tali importazioni hanno portato prezzi più bassi per i consumatori statunitensi e maggiori profitti per le corporation americane con brand affermati che hanno lucrato sull’arbitraggio (produzione in Cina a costi cinesi e vendite negli Stati Uniti ai consumatori a prezzi statunitensi), concentrandosi su segmenti ad alto valore della catena di fornitura come ricerca e sviluppo, branding, design e marketing. Ma hanno anche fatto fallire alcune migliaia di fabbriche americane, facendo perdere il lavoro a qualche milione di lavoratori e trasformando intere regioni industriali in “left behind places” (si vedano i miei articoli qui e qui). I discount e i rivenditori online, come Walmart e Amazon, sono cresciuti rapidissimamente vendendo beni a basso costo prodotti all’estero. Ma gli elettori della Rust Belt si sono ribellati e la critica al fondamentalismo neoliberista del mercato dal lato dell’offerta promosso dagli Stati Uniti si sta intensificando. Colpiti dalle fabbriche chiuse, dalle industrie crollate e dalla prolungata stagnazione salariale, gli americani nel 2016 hanno eletto un presidente che ha promesso di rispondere alla Cina sul piano commerciale e di invertire il processo di delocalizzazione della produzione. Quattro anni dopo ne elessero un altro.

Con sforzi separati ma sovrapposti, l’ex presidente Donald J. Trump e il presidente Biden hanno cercato di rilanciare e proteggere le fabbriche americane rendendo più costoso l’acquisto di beni cinesi. Hanno tassato le importazioni di settori industriali tradizionali che sono stati svuotati nell’ultimo quarto di secolo, come l’abbigliamento e gli elettrodomestici, e di quelle più nuove che faticano a crescere in mezzo alla concorrenza globale con la Cina, come le auto elettriche e i pannelli solari.

Entrambi i candidati alle presidenziali statunitensi del 2024 si sono allontanati dal consenso sul libero scambio che un tempo regnava a Washington (il cosiddetto “Washington Consensus” forgiato a partire dagli anni ’80), secondo cui consentire a denaro e beni di fluire con il minor attrito possibile avrebbe fatto stare meglio tutti. Un periodo che ha visto gli Stati Uniti siglare l’Accordo di libero scambio nordamericano (NAFTA, con Messico e Canada) nel 1994 e che è culminato con l’adesione della Cina all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) nel 20011. La più ampia imposizione di tariffe da parte di Trump durante la sua presidenza 2017-2021 (mantenuta da Biden) ha dato il via a una guerra tariffaria con la Cina. Ora, le nuove tariffe di Joe Biden sui beni cinesi segnano il deciso rifiuto di un’ortodossia economica che ha dominato la politica americana per quasi mezzo secolo. Democratici e Repubblicani non sono d’accordo su molto, ma per molto tempo sono stati d’accordo su questo: più c’è libero scambio, meglio è. Ora concordano sul contrario: il libero scambio è andato troppo oltre. Un fatto che sarebbe stato inimmaginabile meno di dieci anni fa. La pandemia da CoVid-19 ha definitivamente minato il Washington Consensus in quanto gli Stati Uniti, dopo decenni di trasferimento della capacità produttiva all’estero, hanno scoperto di essere quasi interamente dipendenti da altri paesi per forniture basilari come le mascherine protettive e i cruciali semiconduttori. Queste criticità hanno rafforzato la posizione dei critici della globalizzazione e del capitalismo laissez-faire.

L’attuale spostamento politico sul commercio internazionale fa parte di un riallineamento più ampio che il Consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan, ha definito come il “nuovo consenso di Washington” (Sullivan ha descritto questa politica come una “politica estera per la classe media”). Ciò che unisce le tariffe di Biden con gli altri elementi centrali della sua agenda, compresi i massicci investimenti nel settore manifatturiero e una maggiore applicazione delle norme antitrust, è l’idea che il governo americano non dovrebbe più rimettersi passivamente alle forze di mercato; dovrebbe invece modellare i mercati per raggiungere obiettivi politicamente e socialmente vantaggiosi. Questa visione ha preso piede soprattutto tra i Democratici, ma si sta facendo strada anche tra i Repubblicani, soprattutto quando si tratta di commercio internazionale.

 

Le nuove tariffe di Biden sui prodotti cinesi

La decisione di Biden del 14 maggio di codificare e aumentare le tariffe (ai sensi della Sezione 301 del Trade Act del 1974) imposte da Trump ha reso chiaro che gli Stati Uniti hanno chiuso un’era che ha abbracciato il commercio con la Cina e ha premiato i guadagni di prodotti a basso costo rispetto alla perdita di posti di lavoro manifatturieri geograficamente concentrati. Un’unica aliquota tariffaria incarna questa chiusura: un’imposta del 100% sui veicoli elettrici cinesi (quadruplicando il dazio del 25% deciso da Trump a suo tempo), che partono da meno di 10 mila dollari ciascuno e sono aumentati negli showroom di tutto il mondo, ma non riescono a superare le barriere governative sul mercato statunitense2. Le aziende cinesi – BYD, Geely, SAIC, Donfeng, etc. – ora producono veicoli elettrici che sono ampiamente considerati più economici e migliori di qualsiasi cosa le aziende automobilistiche statunitensi ed europee possano attualmente produrre. Le economie di scala ottenute attraverso la produzione automatizzata e la standardizzazione dei componenti consentono alle case automobilistiche cinesi di vendere automobili a prezzi molto più bassi rispetto alle loro controparti americane o europee. Il costo del lavoro rappresenta solo il 7% del costo di un’auto americana, quindi la differenza tra il costo del lavoro americano e quello cinese spiega una parte trascurabile del differenziale di prezzo. Sebbene più di 100 case automobilistiche stiano lottando per quote di mercato in Cina, la maggior parte di loro utilizza componenti standardizzati intercambiabili che riducono drasticamente i costi3.

Il paradosso è che di fatto attualmente nessuna auto cinese è in vendita negli Stati Uniti (quindi le tariffe di Biden hanno una natura preventiva) e che per ora i veicoli elettrici rappresentano solo il 2% del mercato statunitense4, mentre le auto che arrivano da Germania, Corea del Sud e Messico sono quarantacinque volte superiori a quelle cinesi (il che rende chiaro che si tratta soprattutto di un problema politico e non tanto economico). Soprattutto, le case automobilistiche americane, giapponesi, francesi, tedesche e sudcoreane dipendono dalla tecnologia automobilistica cinese5.

La Cina ha protestato, accusando gli Stati Uniti di “minare il commercio equo e la protezione dell’ambiente”, affermando che saranno i consumatori statunitensi a sopportare il peso maggiore delle tariffe. “Ironicamente, gli Stati Uniti sono un paese che promuove l’economia aperta e il libero scambio, ma le sue azioni vanno contro le sue parole. Promette inoltre che non cercherà di separarsi dalla Cina e di ostacolare lo sviluppo del paese, ma le sue pratiche raccontano un’altra storia”. Il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha esortato gli Stati Uniti a seguire le regole del WTO6 e ad annullare immediatamente le nuove tariffe sui prodotti cinesi e ha promesso ancora una volta di adottare tutte le misure necessarie per difendere gli interessi cinesi.

Non lasceremo che la Cina inondi il nostro mercato, rendendo impossibile per le case automobilistiche americane competere equamente”, ha detto Biden nel suo discorso in cui ha annunciato le tariffe. Biden ha affermato che l’aumento dei dazi è una risposta proporzionata alla “sovraccapacità produttiva” della Cina nel settore dei veicoli elettrici7. Fonti affermano che la Cina produce 30 milioni di veicoli elettrici all’anno, ma potrebbe venderne solo 22-23 milioni a livello nazionale. È assai probabile che di fatto la Cina ignorerà le tariffe americane8. Secondo una previsione dell’Agenzia Internazionale per l’Energia nel 2023, le vendite globali di veicoli elettrici raggiungeranno i 45 milioni nel 2030. L’associazione cinese dell’industria automobilistica prevede un aumento del 22% delle esportazioni automobilistiche del paese nel 2024, a seguito di un aumento di oltre il 60% nel 2023, con la crescita più forte nell’Asia orientale e nel Medio Oriente. A un prezzo pari o inferiore a 10 mila dollari, la domanda di veicoli elettrici o ibridi cinesi fuori dagli Stati Uniti e, in particolare, nel Sud del mondo è effettivamente illimitata, spingendo i produttori statunitensi fuori dai mercati mondiali. I veicoli elettrici cinesi potrebbero comunque entrare negli Stati Uniti attraverso altre vie, come il Messico, il Canada o il Vietnam o gli stessi Stati Uniti (come fecero a partire dagli anni ’80 i produttori giapponesi, coreani ed europei), poiché le tariffe vengono applicate in base a dove avviene l’assemblaggio finale del veicolo9.

Biden è favorevole a ciò che funzionari come Sullivan o Yellen chiamano “piccolo cortile e recinzione alta”: importanti restrizioni su una manciata di tecnologie essenziali provenienti da determinati paesi come la Cina. Perciò, la tariffa del 100% sui veicoli elettrici di fabbricazione cinese annunciata da Biden fa parte di un pacchetto di misure volte a proteggere i produttori statunitensi dalle importazioni cinesi a basso costo, in particolare per impedire che i prodotti cinesi inondino il mercato statunitense e soffochino la crescita del settore americano della tecnologia verde. Oltre all’aumento delle tariffe dal 25% al 100% sui veicoli elettrici, i dazi aumenteranno dal 7,5% al 25% sulle batterie al litio, dallo zero al 25% sui minerali critici, dal 25% al 50% sui pannelli fotovoltaici e dal 25% al 50% sui semiconduttori. Le tariffe su acciaio, alluminio, gru portuali– che vanno dallo zero al 7,5% – saliranno al 25%. Quelle per prodotti medicali, come siringhe, aghi e dispositivi di protezione individuale, da 0% al 25% e 50%. Tutti i settori su cui sono stati imposti dazi ammontano a circa il 4,2% (beni cinesi importati per circa 18 miliardi di dollari10) del commercio USA-Cina nel 2023. Secondo l’U.S. Census Bureau, gli Stati Uniti hanno importato beni dalla Cina per 427 miliardi di dollari nel 2023 e ne hanno esportati per 148 miliardi in Cina, un divario commerciale che persiste da decenni e che è diventato un argomento sempre più delicato a Washington. Nel 2023, la Cina rappresentava circa il 14% del totale delle esportazioni globali, in aumento di 1,3 punti percentuali rispetto al 2017 (prima dell’inizio della guerra commerciale USA-Cina). Ancora più sorprendente è il fatto che il surplus commerciale della Cina ammontava a circa 823 miliardi di dollari nel 2023, quasi il doppio di quello del 2017.

Se le politiche protezionistiche venissero mantenute ristrette a livello settoriale e non ampliate, allora il decoupling (disaccoppiamento) tra le due economie potrebbe essere evitato11. Ma un’ulteriore escalation di questo tipo di misure tra le due più grandi potenze del mondo, le due più grandi economie, sembra essere ormai all’ordine del giorno12. Dopo aver appreso la notizia delle nuove tariffe, il rivale del presidente Biden, l’ex presidente Donald Trump, ha detto ai giornalisti che avrebbe voluto più dazi su più prodotti. “La Cina sta mangiando il nostro pranzo in questo momento”, ha detto Trump. Ha posto la minaccia dei veicoli elettrici cinesi al centro della sua campagna 2024, parlando del “bagno di sangue” che deriverebbe se fossero fatti entrare nel paese13. Invece di attaccare le tariffe, Trump ne ha rivendicato il merito, dicendo alla folla nel New Jersey che “Biden finalmente mi ha ascoltato” e dichiarando che lui avrebbe aumentato le tariffe al 200%. La maggior parte delle critiche da entrambe le parti dello spettro politico sono arrivate da coloro che sostengono che Biden abbia impiegato troppo tempo per aumentare le tariffe o non sia andato abbastanza lontano.

Nei primi anni 2000, Democratici e Repubblicani avevano unito le forze per impegnarsi economicamente con Pechino, guidati dalla teoria secondo cui l’America avrebbe tratto beneficio dall’esternalizzazione della produzione a paesi che avrebbero potuto produrre determinati beni a un prezzo più basso, in parte pagando meno i propri lavoratori.

Nell’ultimo decennio, invece, negli Stati Uniti è sostanzialmente diventato bipartisan dirigere la politica estera e quella interna attraverso il prisma della “competizione esistenziale” con la Cina, anche se i dazi, come altre misure discriminatorie nei confronti di aziende e prodotti cinesi, sono giustificate da parte del governo statunitense in base all’accusa – assolutamente non provata14 – che Pechino ha in parte distorto alcuni mercati introducendo massicci sussidi (quelli che in Unione Europea vengono definiti “aiuti di Stato”, ma i dati sono frammentari) e “rubando” la proprietà intellettuale statunitense15. Si è creata un’atmosfera generale di nazionalismo, protezionismo e di riarmo e militarizzazione(su questo tema si vedano i nostri articoli qui e qui), di guardare a qualsiasi cosa attraverso una lente di “sicurezza nazionale”, attraverso una lente protezionistica. Un movimento che sta portando anche altri paesi e regioni (come Unione Europea, India, Brasile, Vietnam, Tailandia, Messico, UE, etc.) a seguire questo approccio e a mettere in pratica le proprie politiche protezionistiche, industriali e di riarmo, facendo pressioni sui propri alleati affinché facciano altrettanto.

Nell’attuale contesto globale delle relazioni sino-americane, la Cina è inquadrata come lo sfidante sistemico e il concorrente di Washington a tutti gli effetti, con o senza la pretesa di sovraccapacità produttiva. Tuttavia, Pechino è stata riluttante a riconoscere l’impostazione di Washington delle relazioni sino-americane, cercando apparentemente di evitare qualsiasi collisione aperta con la superpotenza unipolare. Nel corso degli anni, le relazioni economiche sino-americane sono rimaste tese. La Cina è stata incessantemente alle prese con una catena apparentemente infinita di azioni ostili e discriminatorie da parte degli Stati Uniti. I controlli restrittivi sulle esportazioni imposti sulle tecnologie all’avanguardia e la minaccia del disaccoppiamento e della riduzione dei rischi nei confronti della Cina sono mosse concertate e orchestrate da Washington con i suoi alleati occidentali. Tutte azioni che convergono verso l’obiettivo finale di contenere, accerchiare e sottomettere la Cina. Per la Cina, quindi, non sarà certamente una sorpresa se si verificheranno altri episodi di rivalità sino-americana mascherati da competizione. In questo contesto, forse l’attuale affermazione di un eccesso di capacità produttiva e l’imposizione unilaterale di dazi da parte di Biden sono solo l’inizio di una nuova ondata di iniziative progettate per ostacolare l’ascesa della Cina mentre si intensifica l’angoscia degli Stati Uniti di mantenere un primato in declino.

 

Protezionismo e spazio fiscale per le politiche industriali

I sogni dei sostenitori del libero mercato di un mondo senza attriti in cui beni e servizi si spostano senza soluzione di continuità da un paese all’altro sono finiti. Se ci si interroga su cosa, esattamente, il protezionismo sta cercando di proteggere negli Stati Uniti, quattro sembrano essere i principali scopi potenziali delle tariffe:

  1. Tutelare i posti di lavoro nel settore automobilistico e/o i profitti aziendali. La tutela del lavoro è un tema importante per molti progressisti, e forse anche per Trump. L’aspetto positivo è che se le case automobilistiche cinesi potessero essere persuase a stabilire le loro fabbriche negli Stati Uniti, come hanno fatto le case automobilistiche giapponesi, i protezionisti del lavoro ne sarebbero felici;
  2. Ridurre gli squilibri commerciali con la Cina. Questo è ciò di cui tutti parlano. Gli articoli sul Secondo Shock Cinese di solito menzionano cose come i sussidi governativi, il sottoconsumo cinese16, la grande crisi immobiliare, la sovraccapacità produttiva, gli squilibri commerciali e un renminbi notevolmente sottovalutato (il risultato di elevati deflussi di capitali causati sia dalle politiche interne che dalle restrizioni statunitensi sugli investimenti in Cina). Il Rhodium Group ha pubblicato un rapporto intitolato “Overcapacity at the Gates” che riassume bene questo punto di vista (si vedano anche le pubblicazioni della serie China Pathfinder). Non è chiaro se gli squilibri commerciali di per sé costituiscano una preoccupazione legittima o se siano un indicatore generico delle preoccupazioni relative all’occupazione e ad altre questioni. Inoltre, non è chiaro se i dazi possano riequilibrare la bilancia commerciale: è possibile che la colpa sia del caro dollaro e che solo l’abdicazione del dollaro come valuta di riserva globale possa sistemare le cose. Ciò che è chiaro è che molte persone sono turbate dagli squilibri commerciali, e le tariffe sono una delle politiche disponibili per cercare di affrontare tali squilibri.
  3. Eliminare i rischi per la sicurezza – in questo caso per la cybersecurity – derivanti dall’hacking cinese. Il timore (per non dire la paranoia) è che i servizi di sicurezza cinesi mettano delle backdoor nei prodotti fabbricati in Cina e che, quindi, potrebbero sfruttare quelle vulnerabilità intrinseche per provocare il caos negli Stati Uniti in caso di guerra. Una posizione articolata dal segretario al Commercio Gina Raimondo che ha affermato che le auto connesse “sono come smartphone su ruote” e rappresentano un serio rischio per la sicurezza nazionale. “Questi veicoli sono connessi a Internet. Raccolgono enormi quantità di dati sensibili sui conducenti: informazioni personali, informazioni biometriche, dove va l’auto“, ha detto. La raccolta dei dati non è l’unica preoccupazione, hanno detto lei e altri funzionari. I veicoli connessi potrebbero anche essere abilitati o manipolati da remoto da malintenzionati. “Immaginate se ci fossero migliaia o centinaia di migliaia di veicoli cinesi connessi sulle strade americane che potrebbero essere immediatamente e simultaneamente disattivati da qualcuno a Pechino”, ha detto Raimondo. “Quindi è spaventoso contemplare i rischi informatici e di spionaggio che questi comportano”.
  4. Proteggere la capacità produttiva nazionale nel settore della difesa. In tempo di guerra, le fabbriche civili vengono generalmente riconvertite per produrre materiale bellico, ad esempio quando la Ford sfornò enormi quantità di bombardieri B-24 durante la Seconda Guerra Mondiale. Il Defense Production Act (DPA) consente al governo di ordinare alle aziende statunitensi di cambiare le loro linee di produzione per produrre attrezzature militari o altri beni fondamentali per la sicurezza nazionale (ad esempio, il DPA è stato utilizzato per costringere le aziende a produrre ventilatori durante il CoVid-19). Ma il DPA è inutile se non si hanno le fabbriche da riconvertire. Se l’industria pesante e metalmeccanica statunitense deperisse e morisse di fronte alla concorrenza cinese17, gli Stati Uniti non sarebbero in grado di aggiungere molto alla propria capacità produttiva nel settore della difesa militare in caso di guerra. Ciò potrebbe portare a una rapida e devastante sconfitta degli Stati Uniti per mano della Cina. Quindi, per avere la produzione nazionale disponibile per scopi militari, viene probabilmente considerato necessario erigere barriere commerciali per proteggerla dalle ondate di importazioni cinesi a basso costo.

Qualunque sia la motivazione, la cosa più importante delle tariffe di Biden è probabilmente il messaggio che inviano. Il protezionismo è ora la politica economica di consenso di entrambi i principali partiti politici negli Stati Uniti. Una evoluzione che la rivista globalista The Economist considerauna cattiva politica, una peggiore leadership”, sottolineando come “il consenso necessario per sostenere un sistema commerciale aperto si sta disintegrando, un processo accelerato dal fatto che la Cina non si comporta in modo corretto, così come dall’ascesa della visione “America first” di Donald Trump”. Gli Stati Uniti hanno costruito e hanno spesso parlato dell’importanza di “un ordine internazionale basato su regole”. Ma sta diventando sempre più chiaro che gli stessi Stati Uniti spesso non rispettano le regole sul commercio globale di cui predicano da molti decenni. E per questo motivo anche altri paesi (come quelli dell’Unione Europea) sono incentivati a farlo, ma così l’intero sistema commerciale multilaterale globale, sul cui buon funzionamento dovrebbe vegliare il WTO, sembra essere truccato o andare in frantumi. Se gli Stati Uniti – promotori e fautori del sistema globale di libero scambio dalla fine della Seconda guerra mondiale e soprattutto dai primi anni ’90 del secolo scorso – stanno ricorrendo unilateralmente al protezionismo, minando il sistema che hanno costruito, ci si interroga su cosa questo possa significare per il futuro della globalizzazione. Sembrerebbe aprirsi una fase caotica perché il commercio mondiale non sarebbe più governato da alcuna regola, ma solo dalle decisioni unilaterali di chi ha il potere economico-politico e militare di imporle.

Una deriva che dovrebbe preoccupare seriamente quei paesi – come Corea, Germania, Italia, Regno Unito – che hanno un alto rapporto commercio/PIL (che attribuiscono al commercio un ruolo centrale per il loro benessere e la creazione di posti di lavoro nelle loro economie), che fanno parte del sistema commerciale multilaterale e per i quali dunque un sistema basato su regole è importante. Sarebbe bene che questi paesi sviluppino un punto di vista condiviso che promuova il ripristino di un sistema basato su regole.

Man mano che concetti come “tariffe doganali”, “reshoring”, “friendshoring”, “de-risking” e “messa in sicurezza delle proprie catene di approvvigionamento” diventeranno più popolari in Occidente, secondo il direttore generale del WTO, Ngozi Okonjo-Iweala, i paesi più poveri perderanno i benefici del libero scambio (anche se molti paesi poveri non hanno beneficiato della globalizzazione quanto avrebbero dovuto e sono stati lasciati ai margini del commercio globale). Attualmente, il 75% del commercio mondiale avviene sulla base della clausola della “nazione più favorita”, la base che il WTO – l’organizzazione internazionale custode dei numerosi accordi che regolano il commercio mondiale e lo mantengono stabile, aperto, prevedibile e, possibilmente, equo – accorda ai suoi membri e che ha consentito la notevole diminuzione delle tariffe globali (dai prelievi medi sulle importazioni superiori al 10% negli anni ’70 al 3% attuale). Ma l’aumento del protezionismo nel mondo potrebbe avere un impatto sulla frammentazione del commercio in due blocchi geopolitici, uno con gli Stati Uniti e uno con la Cina. Il WTO e il FMI stimano che per questa evoluzione nel lungo termine si registrerebbe una perdita molto significativa, intorno al 5-7%, del PIL reale globale. E, ovviamente, le perdite sarebbero maggiori per i paesi emergenti e più poveri. “Quando facciamo questi studi su una tale rottura, mostrano che tutti perderebbero. Gli Stati Uniti perderebbero. La Cina perderebbe. E i paesi in via di sviluppo perderebbero di più se dividessimo [il mondo] in due blocchi geopolitici in questo senso. Quindi siamo molto preoccupati”, ha affermato Ngozi Okonjo-Iweala.

Per ora, la maggioranza degli Stati membri del WTO sostiene il sistema, sta cercando di mantenere il sistema basato su regole e di arrivare a una situazione in cui le due maggiori economie del mondo saranno in grado di dialogare tra loro e non frammentare il sistema. Mentre da dicembre 2019, gli Stati Uniti sono riusciti a impedire all’organo d’appello del WTO di emettere decisioni su eventuali ricorsi in corso, chiudendo di fatto il sistema di risoluzione delle controversie commerciali globali (neutralizzando quindi l’azione del WTO; si veda il nostro articolo qui), l’Unione Europea, la Cina e altri paesi hanno risposto a questa mossa iniziando a negoziare un meccanismo arbitrale alternativo che potrebbe creare un nuovo forum per risolvere le controversie commerciali senza gravare sull’influenza americana18.

Sono i paesi ricchi occidentali – gli Stati Uniti e i paesi dell’Unione Europea – che stanno spingendo per una torsione verso il protezionismo e la “globalizzazione selettiva” guidata dalla competizione geopolitica. Le interruzioni e le vulnerabilità che sono state riscontrate durante la pandemia da CoVid-19, in particolare nelle catene di approvvigionamento globali, hanno portato questi paesi a pensare che “siamo vulnerabili e forse non dovremmo esserne dipendenti”. Certo bisognerebbe saper distinguere tra eccessiva “dipendenza” e “interdipendenza”, senza essere ossessionati dal clima attuale dominato dal concetto di “economic security” (ovvero la riduzione delle dipendenze economiche per evitare di trovarsi nuovamente in difficoltà come nel caso del gas dalla Russia)19. Ma oggi in base a considerazioni relative alla competizione geopolitica e geoeconomica incardinate su un paradigma suprematista (o, per usare un vecchio termine, imperialista; si vedano i nostri articoli qui e qui) che visceralmente si oppone all’”ascesa del resto” (del mondo), molti governanti occidentali considerano pure l’interdipendenza come “problema”. Adottano idee e politiche protezionistiche anche perché sono solo i paesi più ricchi che possono attuare politiche industriali creando debito pubblico per finanziare i sussidi (si veda il nostro articolo qui). Dal suo arrivo in carica, il presidente Biden ha promulgato una serie di misure – come il Bipartisan Infrastructure Act, l’Inflation Reduction Act (IRA) e il Chips Act – con centinaia di miliardi di dollari di investimenti pubblici che sono stati riversati per rilanciare l’industria privata americana nei settori hi-tech e negli Stati politicamente in bilico (soprattutto della Rust Belt), dove probabilmente si decideranno le elezioni del 2024 con Trump (Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, North Carolina, Pennsylvania, Wisconsin)20.

Il “resto” è già straordinariamente indebitato e non ha ulteriori margini fiscali. I paesi più piccoli e poveri non saranno in grado di “proteggersi” per non essere lasciati indietro in un mondo in cui le principali potenze – Stati Uniti e Cina – lottano per imporre la loro egemonia, la loro versione di “un ordine internazionale basato su regole” (sulle tensioni egemoniche fra USA e Cina si vedano i nostri articoli qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui e qui). In effetti, i paesi più piccoli e più poveri che non hanno lo spazio fiscale per sovvenzionare nella misura in cui possono farlo i paesi più grandi si troveranno in svantaggio perché non saranno in grado di competere.

D’altra parte, anche se si persegue una politica industriale basata sui sussidi, non necessariamente si ottengono guadagni a lungo termine. Le industrie potrebbero diventare meno competitive, per esempio, e quindi il gioco dei sussidi potrebbe diventare molto costoso per tutti. Allo stesso tempo, non tutti i sussidi sono negativi. Ci sono ambiti in cui è possibile utilizzare le sovvenzioni in modo sensato per sostenere la ricerca e lo sviluppo, ad esempio per diventare più ecologici. È il modo in cui si utilizzano i sussidi che potrebbe avere ricadute negative sui paesi che non dispongono delle stesse risorse.

Alessandro Scassellati

  1. Come condizione per l’ammissione, Pechino si era impegnata ad attuare un’ampia serie di riforme economiche, tra cui forti tagli tariffari per le merci importate, la tutela della proprietà intellettuale e la trasparenza delle sue leggi e regolamenti. All’epoca, il presidente Clinton e i suoi consiglieri sostenevano che l’inserimento della Cina nel sistema commerciale globale non solo avrebbe portato benefici agli Stati Uniti, ma avrebbe anche favorito la riforma economica e, in ultima analisi, democratica in Cina. Il libero scambio non si sarebbe limitato ad arricchire gli Stati Uniti, la Cina e il resto del mondo, ma avrebbe anche reso il mondo più pacifico: paesi legati da un destino economico condiviso non avrebbero osato fare la guerra l’uno contro l’altro. Il mondo sarebbe diventato più democratico, poiché la liberalizzazione economica avrebbe portato alla libertà politica. Tuttavia, questa mossa era stata contrastata dai sindacati statunitensi, Bernie Sanders e molti democratici del Congresso, i quali hanno sostenuto che la debole tutela dei lavoratori e dell’ambiente in Cina avrebbe incentivato pratiche simili altrove e avrebbe portato ad una “corsa al ribasso”. Anche la destra nazionalista repubblicana, guidata da Pat Buchanan, aveva duramente contestato queste teorie economiche e politiche. In Occidente, gli anni dopo il 2001 sono stati caratterizzati dal “China Shock” perché la concorrenza delle merci cinesi alle industrie americana ed europee causò processi di deindustrializzazione i cui effetti sono percepibili ancora oggi per le economie e le aree territoriali coinvolte.[]
  2. Se le auto elettriche cinesi fossero offerte nel mercato statunitense, schiaccerebbero la concorrenza americana, anche con l’attuale tariffa del 25%. La Chevy’s Bolt, un veicolo elettrico con un prezzo di 29 mila dollari, ha le stesse dimensioni e un’autonomia inferiore rispetto alla berlina Dongfeng Nammi 01 venduta in Cina al prezzo di soli 11 mila dollari. Non a caso, l’Alliance for American Manufacturing ha affermato che l’introduzione delle auto cinesi nel mercato statunitense rappresenterebbe un “evento a livello di estinzione” per le sue case automobilistiche. La United Auto Workers, un sindacato politicamente importante che ha sostenuto Biden, ha affermato che le modifiche tariffarie garantiranno che “la transizione ai veicoli elettrici sia una transizione giusta”. Grazie alle economie di scala, i produttori cinesi di veicoli elettrici – quasi inesistenti nel 2019 – stanno comprimendo in pochi mesi i prezzi delle loro auto. Se la Cina volesse vendicarsi delle nuove tariffe americane, potrebbe contare su un contesto ricco di obiettivi. La General Motors lo scorso anno ha venduto 2,1 milioni di automobili in Cina. Nella maggior parte degli anni, GM vende più automobili in Cina che negli Stati Uniti. Le poche voci critiche statunitensi sostengono che “la verità è che queste nuove tariffe sui veicoli elettrici sono poco più che un sussidio alle aziende automobilistiche tradizionali come General Motors e Ford. Gli americani della classe media dovrebbero avere accesso a queste auto [elettriche cinesi a basso costo] e, a causa di queste tariffe, rimarranno un lusso, disponibile principalmente per i ricchi. Con più contanti e un credito migliore, i ricchi americani sono gli unici che possono permettersi i veicoli elettrici attualmente sul mercato, che costano in media oltre 55.000 dollari. Un recente sondaggio ha rilevato che i proprietari dell’83% degli E.V. negli Stati Uniti avevano un reddito familiare superiore a 75.000 dollari, che è la mediana del paese; il 57% aveva un reddito superiore a 100.000 dollari”. In un altro articolo pubblicato in un blog specializzato nel settore dei veicoli elettrici si afferma: “Se gli Stati Uniti e l’Europa ottenessero ciò che vogliono – un giro di vite sulle importazioni cinesi – non sembra che ciò si tradurrebbe in automobili migliori. Sembra che ciò manterrebbe gli acquirenti di quei mercati bloccati su auto che non vengono prodotte altrettanto bene. È palesemente protezionista perché, nel profondo, tutti i dirigenti automobilistici occidentali e alcuni esperti falchi verso la Cina capiscono che i modelli cinesi di veicoli elettrici e ibridi sono più convincenti di quelli che i marchi europei, asiatici e americani hanno inventato”.[]
  3. Al recente Salone dell’Auto di Pechino sono stati presentati non meno di 278 modelli di veicoli elettrici. Ciò è indicativo di un mercato che comprende 139 marchi di veicoli elettrici. Anche il produttore cinese di smartphone Xiaomi ha presentato la sua prima offerta di auto elettrica, prodotta in una fabbrica che produce una nuova auto ogni 76 secondi, ovvero 40 all’ora, senza che sia toccata da mani umane.[]
  4. I trasporti sono responsabili di quasi il 30% delle emissioni di carbonio degli Stati Uniti, ovvero circa il 4% del totale globale. Se gli Stati Uniti non riuscissero a passare ai veicoli elettrici, ciò potrebbe ostacolare gli sforzi di decarbonizzazione in misura piccola ma evidente. E se i Repubblicani trasformassero i veicoli elettrici in una guerra culturale, come hanno fatto con la carne coltivata in laboratorio, potrebbero attuare politiche restrittive a livello statale che rallenterebbero ulteriormente la transizione.[]
  5. GM sta negoziando con CATL, il più grande produttore cinese di batterie che impiega 18 mila addetti nella ricerca e sviluppo, per ottenere la concessione in licenza della tecnologia cinese per i propri veicoli elettrici e costruire un mega-impianto congiunto negli Stati Uniti. L’anno scorso Ford ha annunciato una joint venture da 3,5 miliardi di dollari con CATL con l’intenzione di costruire uno stabilimento nel Michigan, ma ha sospeso il progetto a causa delle pressioni politiche. Tesla, Hyundai Motor e Kia nel frattempo collaboreranno con la società Internet leader cinese Baidu nella geolocalizzazione e nelle funzionalità di intelligenza artificiale per le auto senza conducente, mentre Nissan Motor si è alleata con la cinese Tencent per la modellazione di intelligenza artificiale. Con 3,4 milioni di stazioni base 5G installate contro le 100 mila americane, la Cina è anche ben posizionata per la guida autonoma. La bassa latenza (risposta quasi istantanea) e l’elevata capacità di dati sulle reti 5G, onnipresenti in tutte le città cinesi, supportano le applicazioni di intelligenza artificiale per i veicoli autonomi e la prevenzione degli incidenti. Le città cinesi, inoltre, sono dotate di nuove strade adatte alla guida autonoma.[]
  6. Gli Stati Uniti non hanno presentato alcun reclamo al WTO, mentre la Cina lo ha fatto per i sussidi statunitensi per i veicoli elettrici della IRA, che includono requisiti di contenuto locale che violano le regole del WTO.[]
  7. Ad aprile, Biden aveva affermato che “non stava cercando uno scontro con la Cina”, ma che gli Stati Uniti dovevano opporsi alle “pratiche economiche sleali e alla sovraccapacità industriale” della Cina. “Cerco concorrenza, ma una concorrenza leale”, aveva detto, sostenendo di non volere che nuove misure economiche minassero gli sforzi degli ultimi mesi per allentare le tensioni con il presidente cinese Xi Jinping. La teoria della “sovraccapacità industriale cinese” è che la Cina stia producendo troppe cose a basso costo che non vengono acquistate nel mercato interno, quindi le “scaricano”, come sostengono i leader di Stati Uniti (in particolare, la Segretaria del Tesoro Janet Yellen) e UE (la presidente della Commissione Ursula von der Leyen), nel resto del mondo esportandole. Yellen è arrivata ad affermare che l’eccesso di offerta da parte dell’industria cinese rappresenta una “minaccia allo sviluppo dell’energia pulita” in tutto il mondo. La stampa cinese fa notare che “in realtà, resta il fatto che l’esportazione del 12% dei veicoli elettrici di fabbricazione cinese è ancora una novità, molto indietro rispetto all’80% delle esportazioni di prodotti automobilistici tedeschi, seguite dal 50% del Giappone e dal 25% degli Stati Uniti. Tuttavia, la “sovraccapacità” non è mai stata una questione sollevata contro queste nazioni”.[]
  8. Le nuove tariffe statunitensi entreranno in vigore dopo 90 giorni a partire dal 14 maggio, un periodo che sarà attentamente osservato per individuare eventuali segnali di ritorsione da parte della Cina.[]
  9. Alcuni esperti avvertono che potrebbe esserci uno spostamento accelerato della produzione cinese in Messico, poiché le case automobilistiche cercano di aggirare le tariffe, con alcuni segnali che ciò sta già accadendo. Gli Stati Uniti sono consapevoli di questo rischio e probabilmente ci saranno misure future per evitare problemi di evasione tariffaria da parte dei produttori cinesi. La cinese BYD, il più grande produttore di veicoli elettrici al mondo, ha presentato lo Shark, un pick-up ibrido-elettrico che sarà venduto esclusivamente in Messico. È la prima volta che lancia un nuovo prodotto fuori dal suo paese d’origine. Il capo delle Americhe di BYD, Stella Li, ha affermato di aver scelto il Messico a causa della rapida crescita della domanda di pick-up nel paese. Li ha precedentemente respinto le speculazioni su qualsiasi ambizione negli Stati Uniti, dicendo a febbraio: “Non abbiamo intenzione di venire negli Stati Uniti”. “È un mercato interessante, ma è molto complicato”, aveva aggiunto Li.[]
  10. Le batterie agli ioni di litio rappresentano 13 miliardi di dollari del totale delle importazioni su cui Biden ha aumentato le tariffe, mentre alcuni prodotti in acciaio e alluminio, così come articoli come guanti medicali e siringhe, rappresentano i restanti 5 miliardi di dollari. Le batterie sono la principale fonte di valore aggiunto nella costruzione di un veicolo elettrico. È interessante notare che nei primi anni 2010 il governo degli Stati Uniti scelse di non sostenere una società allora poco conosciuta denominata A123. Attraverso vari passaggi, la tecnologia dell’A123 è infine arrivata in Cina, dove è stata sviluppata nell’attuale batteria LFP (ferrofosfato di litio), una tecnologia che richiede una quantità significativamente inferiore di minerali critici e che ora rappresenta circa il 40% del mercato globale. Entità cinesi trasformano oltre il 60% dei componenti essenziali delle batterie come litio, grafite, cobalto e nichel e producono circa l’80% di catodi, anodi e celle di batterie.[]
  11. La Casa Bianca ha affermato che l’obiettivo non è quello di aumentare le tensioni commerciali ma di aiutare parti dell’economia americana dove si è verificato un ciclo di disinvestimento. La consigliera economica nazionale di Biden, Lael Brainard, ha riassunto lo scopo delle nuove enormi tariffe affermando che garantirebbero che gli investimenti pubblici in posti di lavoro non vengano compromessi dalle “esportazioni sottocosto dalla CinaOggi, la Cina è semplicemente troppo grande per agire imponendo le sue regole. La capacità industriale e le esportazioni del paese asiatico in certi settori sono così ampie che minano gli investimenti negli Stati Uniti e in altre nazioni… In parte, l’eccesso di capacità produttiva della Cina è ottenuto grazie alle imprese che vendono al costo o al di sotto di esso, grazie a decisioni politiche che deprimono ingiustamente i costi di capitale, lavoro ed energia… Sottoquotando i prezzi globali di questi beni, l’eccesso di capacità cinese guidato dalla politica interrompe il necessario segnale della domanda che consentirebbe agli investimenti basati sul mercato di essere sostenibili”.[]
  12. Ulteriori tariffe statunitensi seguiranno nel 2025 e nel 2026 sui semiconduttori, nonché sulle batterie agli ioni di litio non utilizzate nei veicoli elettrici, sulla grafite e sui magneti permanenti, nonché sui guanti medici e chirurgici in gomma. Sotto la presidenza Biden, Washington ha compiuto i passi più seri finora verso l’indebolimento del ruolo della Cina per il dominio economico. Ha firmato una legislazione che potrebbe portare al divieto del gigante dei social media di proprietà cinese TikTok; ha mantenuto tariffe su prodotti per un valore di circa 360 miliardi di dollari, nonché numerose sanzioni applicate da Trump su individui cinesi associati a violazioni dei diritti umani nello Xinjiang e a Hong Kong; introdotto controlli sulle esportazioni senza precedenti che limitano la capacità di Pechino di ottenere tecnologia avanzata; e ha vietato alcuni investimenti statunitensi in tecnologie sensibili che i legislatori temono possano essere utilizzate per aiutare la crescente forza militare cinese. Ha anche aumentato le tariffe su molti prodotti cinesi. Nel frattempo, diversi governatori statunitensi hanno firmato leggi che impediscono ai fondi pensione statali di investire in azioni di aziende controllate dallo Stato cinese.[]
  13. A marzo, Trump aveva affermato che, se eletto presidente entro la fine dell’anno, avrebbe imposto una tariffa del 100% su “ogni singola auto che attraversa la linea” proveniente dagli stabilimenti di produzione di proprietà cinese in Cina. “Non venderanno quelle auto”, ha detto. Trump ha promesso di aumentare le tasse su tutte le importazioni cinesi del 60%, mentre il think tank conservatore che appoggia Trump, la Heritage Foundation, chiede un divieto assoluto dei veicoli elettrici cinesi. Un approccio che, secondo i critici, aumenterebbe i prezzi per i consumatori statunitensi già alle prese con un’inflazione elevata.[]
  14. La Commissione Europea sta attualmente conducendo un’indagine sui sussidi cinesi ai veicoli elettrici con l’obiettivo di arrivare ad imporre proprie tariffe sulla loro importazione. Gli analisti prevedono che l’UE applicherà un dazio del 15-30% sui veicoli elettrici (dal 10% esistente), anche se questo potrebbe non essere sufficiente a scoraggiare le case automobilistiche cinesi. Il Rhodium Group ha recentemente pubblicato un rapporto intitolato “Ain’t No Duty High Enough”, sostenendo che l’Europa avrebbe bisogno di tariffe del 40-50% per escludere i veicoli elettrici cinesi. Per ora, la questione sull’opportunità o meno che l’Europa imponga dei dazi sulle importazioni di auto elettriche cinesi divide Germania e Francia (Volkswagen, BMW e Mercedes vendono molti veicoli in Cina – rispettivamente il 36%, il 32% e il 36% nel 2023 – e sono preoccupate per possibili ritorsioni), con una spaccatura anche tra socialdemocratici tedeschi e socialisti francesi. Nel 2023 gli europei hanno importato auto elettriche cinesi per 13,5 miliardi di dollari. Per scongiurare l’impatto degli eventuali maggiori dazi che Bruxelles potrebbe imporre sui veicoli elettrici di Pechino al termine dell’indagine della Commissione Europea, sempre più case cinesi stanno annunciando l’apertura di nuove fabbriche sul suolo europeo, così da evitare le dogane. Dopo l’annuncio da parte di Geely dell’impianto polacco e quello di BYD in Ungheria, Chery sarà con ogni probabilità il primo brand cinese a sfornare un proprio veicolo elettrico in Europa, e per la precisione a Barcellona, entro la fine dell’anno. Ma potremmo essere solo all’inizio della serie di annunci: BYD ha espresso l’intenzione di costruire una seconda fabbrica nel 2025, per Great Wall si vocifera un sito produttivo ungherese, Leapmotor starebbe per annunciare l’avvio della produzione in Polonia negli stabilimenti del suo azionista Stellantis, Dongfeng è in trattativa con il governo italiano per sbarcare nel nostro Paese e MG sta cercando attivamente da mesi un sito dove aprire una fabbrica. D’altra parte, le aziende cinesi erano già arrivate in Europa per aprire le proprie gigafactory di batterie. Sono almeno sette le fabbriche di batterie già in funzione o in via di apertura in UE per rifornire tutti i marchi, europei inclusi, che dipendono per la maggior parte dalla tecnologia cinese. Questi investimenti cinesi in Europa nel settore della mobilità elettrica sono quasi sempre accompagnati da generosi sussidi pubblici da parte dei paesi che li ospitano.[]
  15. L’accusa è che i pianificatori economici cinesi desideravano accelerare lo sviluppo del settore dei veicoli elettrici, quindi, quasi un decennio fa, hanno mirato ai veicoli elettrici per fornire un’assistenza statale speciale (che include crediti d’imposta, prestiti agevolati, pagamenti diretti, etc.) attraverso il loro programma di politica industriale Made in China 2025 attivato nel 2015. Quel programma prevedeva di innovare l’industria cinese in dieci settori target, nei quali la Cina sarebbe dovuta diventare leader globale e con una sostanziale capacità di produzione autarchica entro il 2025. Ad un passo dalla scadenza decennale del 2025, un’analisi del quotidiano di Hong Kong South China Morning Post rileva come più dell’86% degli obiettivi prefissati sia stato raggiunto, nonostante le sanzioni e i dazi imposti da Trump in poi. Questo dato va però pesato settore per settore. Infatti, se per quanto riguarda la produzione di semiconduttori avanzati, lo sviluppo di una rete internet satellitare e l’industria dell’aeronautica intercontinentale c’è ancora strada da fare, in altri la Cina ha ampiamente superato le aspettative. Il fiore all’occhiello è quello delle auto elettriche e delle tecnologie per le energie rinnovabili, per le quali Pechino può vantare oggi il primato mondiale.[]
  16. Anche volendo cambiare il modello economico, bisognerebbe intervenire in modo significativo sulla capacità di spesa delle famiglie per espandere il consumo interno. Michael Pettis sul Financial Times ha ripresentato la sua consolidata interpretazione sulla capacità industriale cinese: non è tanto eccesso di capacità, quanto piuttosto eccesso di risparmio. In sintesi, le politiche cinesi deprimono i salari per mantenere bassi i prezzi e favorire i produttori. Il risultato è che i cinesi non importano a sufficienza perché non hanno sufficiente capacità di consumo e ciò significa inevitabilmente che i beni in eccedenza sfornati dalle sue fabbriche trovano la loro strada nei mercati globali e il surplus commerciale si allarga. Man mano che il surplus commerciale della Cina cresce sempre di più, il sentimento protezionistico negli Stati Uniti diventerà più pronunciato. Per riequilibrare questa situazione servirebbero scelte radicali di ridistribuzione delle risorse tra produzione e domanda che però potrebbero avere contraccolpi politici che Pechino vuole evitare. Anche perché impegnata nella competizione tra grandi potenze.[]
  17. In una delle industrie a doppio uso, civile e militare, quella navale, la Cina ha conquistato il primato mondiale, mentre quella statunitense è stata drasticamente ridimensionata rispetto a qualche decennio fa, al punto che viene lanciato un allarme sulla rivista Foreign Policy. Anche la crisi della Boeing, un’azienda simbolo indiscutibile della potenza del capitalismo industriale statunitense fino a due decenni fa, è emblematica del declino industriale attraversato dagli Stati Uniti (si veda il nostro articolo qui).[]
  18. Secondo Ngozi Okonjo-Iweala, il sistema commerciale multilaterale ha dato risultati positivi e continua a dare risultati per gli Stati Uniti. “Ha aiutato gli Stati Uniti. Secondo alcune stime, nel corso dei decenni trascorsi dall’entrata in vigore del GATT [Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio] fino al 2023, gli Stati Uniti hanno guadagnato circa 2,6 trilioni di dollari nella loro economia attraverso il commercio internazionale. Questo è enorme. Queste sono stime del Peterson Institute, della Banca Mondiale e di altri enti. Quindi penso che dobbiamo ricordare che, su base pro capite, le famiglie americane hanno guadagnato dal commercio internazionale. È spesso accusato della perdita di posti di lavoro. E sì, ci sono alcune perdite nel settore manifatturiero, ma se guardiamo al turnover dei posti di lavoro – circa 50 milioni all’anno negli Stati Uniti – il commercio internazionale rappresenta solo lo 0,6% circa di questo. E il commercio internazionale crea posti di lavoro in altri settori, come i servizi, di cui nessuno parla mai. Ci siamo concentrati sul settore manifatturiero e sui beni, ma i servizi trainano gran parte dell’economia anche negli Stati Uniti. Direi agli americani che, tutto sommato, il commercio internazionale è stato vantaggioso e può ancora esserlo. Non è perfetto, ma possiamo certamente affrontare i problemi in cui il commercio internazionale non funziona come dovrebbe. Quindi: non buttate via il bambino con l’acqua sporca”. Rimane il fatto che oggi il deficit commerciale americano di beni è al livello record di circa mille miliardi di dollari all’anno.[]
  19. Un conto è essere eccessivamente dipendenti in determinati settori e da determinate aree geografiche in alcune catene di approvvigionamento. Questo è qualcosa su cui un paese o un blocco di paesi (come l’UE) dovrebbe lavorare con adeguate politiche industriali per cercare di diversificare e deconcentrare queste catene di approvvigionamento. Ad esempio, durante la pandemia oltre l’80% dei vaccini e di altri equipaggiamenti medicali (come i respiratori) sono stati prodotti ed esportati da 10 paesi del mondo e questo ha significato che la gran parte della popolazione del mondo non riusciva ad ottenerli e moriva. Da questo punto di vista, si può pensare che sarebbe bene diversificare e deconcentrare quelle catene di approvvigionamento e produrre di più in altre parti del mondo (allentando la presa dei diritti dei brevetti). Analogamente, si può considerare un problema di eccessiva dipendenza il fatto che il 95% dei semiconduttori di ultima generazione (quelli utilizzati per l’IA) siano prodotti in un unico posto (a Taiwan). Forse il mondo dovrebbe guardare alla deconcentrazione e diversificazione. Se nel settore delle rinnovabili c’è una quasi assoluta primazia delle supply chians e imprese cinesi (tra l’altro, i dati mostrano che nel 2023 la Cina ha contribuito con più della metà della capacità installata globale di energia rinnovabile pari a 510 milioni di kilowatt), nel settore dei semiconduttori sono USA e alleati (Taiwan, Corea e Giappone) i leader da un lato e cinesi a inseguire dall’altro. Anche per la lavorazione di minerali critici e “terre rare” c’è un problema di eccessiva dipendenza nel momento in cui il 90% è concentrato in un solo paese, la Cina, che ha speso miliardi di dollari attraverso la Belt and Road Initiative negli anni 2010 per garantirsi l’approvvigionamento e ha sostenuto gli investimenti delle aziende in paesi ricchi di minerali. Perché non sviluppare ora quelle catene del valore in alcuni dei paesi che dispongono di queste risorse (ad esempio, per il litio Cile, Bolivia, Argentina), invece di andare lì solo per estrarre ed esportare le materie prime? Sviluppando l’intera catena del valore si creerebbero posti di lavoro in quei paesi, si creerebbe valore in quei paesi, portandoli al centro del commercio globale. L’eccessiva dipendenza è una condizione da evitare, ma il mondo può essere interdipendente attraverso il commercio che ha portato molti benefici (negli ultimi decenni ha fatto uscire dalla povertà 1,5 miliardi di persone). Ha portato benefici sia ai paesi occidentali che a quelli emergenti, nonostante la prevalente logica dell’estrattivismo. Quindi il mondo può trarre vantaggio da un altro tipo di globalizzazione che può favorire resilienza e inclusione.[]
  20. Nonostante una legislazione economica di alto profilo portata avanti dalla sua amministrazione, i sondaggi mostrano che Biden fatica a convincere gli elettori dell’efficacia di queste politiche. In un contesto di bassa disoccupazione e crescita economica superiore a quella della maggior parte degli altri paesi occidentali, la Casa Bianca spera che le nuove tariffe non peggiorino i tassi di inflazione che hanno già fatto arrabbiare gli elettori statunitensi. Alcune industrie e produttori statunitensi subiranno aumenti dei costi e interruzioni della catena di approvvigionamento a seguito delle nuove tariffe, ma l’amministrazione Biden è chiaramente del parere che questi saranno modesti e potranno essere gestiti. Gli economisti cinesi, invece, ritengono che i dazi sulle importazioni cinesi peggioreranno “inevitabilmente” l’inflazione statunitense, con consumatori e imprese che pagheranno il conto. In effetti, l’aumento dei prezzi delle automobili ha contribuito enormemente all’aumento dell’inflazione nel periodo 2021-2023.[]
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