Di Luca De Simoni e Samuel Wittenstein –
Premessa del redattore:
Questo articolo ci è stato proposto da due giovani da poco laureati che si stanno affacciando al mondo del lavoro e alle forme di integrazione sociale di oggi. Uno vive a Roma con la speranza di potersi trasferire a Bruxell, impiegato in uno studio che svolge attività di lobbyng, un altro vive a New York. La loro è una visione delle cose che possiamo considerare comune tra una parte dei giovani di oggi: generosa e meritevole di attenzione.
Di Luca, che ha già scritto per transform! alcuni articoli, va ricordato che è tra i promotori dell’associazione e del sito BlackPost, l’informazione nero su bianco. Si tratta di una iniziativa che si può considerare una tessera tra i processi di “integrazione” e scambio interculturale oppure un momento di partecipazione da parte di giovani provenienti da Paesi, culture, religioni diverse.
La decisione degli autori di scrivere un articolo a due mani ci è sembrata significativa e che richiedesse una cornice. Infatti vorremmo leggere dietro a questo embrione di collettivo una disponibilità al confronto o alla interlocuzione che transform! con la sua attività ha implicitamente -o indirettamente- sollecitato e costruito e che la rende una interlocutrice. Per questi stessi motivi –in sostanza per reciprocità verso la loro identità di giovani impregnati della realtà di oggi- ci è sembrato naturale chiedere loro una versione inglese accanto a quella italiana.
Viviamo in un’epoca dominata dai social media. A un’estremità dello spettro abbiamo gli “influencer”, la celebrità dei social media, che attirano l’attenzione di decine di milioni di follower ogni giorno. Dall’altro lato dello schermo vive spesso un soggetto solitario, che cerca di sfuggire alla realtà della vita attraverso il suo telefono.
Il paradosso è reale, anche per gli individui che utilizzano più piattaforme. Prendiamo un utente di LinkedIn e Facebook, ad esempio. Su LinkedIn tutti mettono in mostra il loro profilo professionale, evidenziando come e perché saremmo dei dipendenti eccezionali e ci presentiamo tutti vestiti come se dovessimo andare ad un gala. Spesso poi passando sul profilo Facebook di quella stessa persona potresti trovare vecchie foto che probabilmente non vorresti che il tuo datore di lavoro vedesse, sia che si tratti di bere, fumare o fare feste.
La stretta che le piattaforme di social media hanno sulle nostre vite sta cominciando a sembrare una dittatura, che da una parte impone la nostra piena attenzione e dall’altra rimane sempre in bilico sullo sfondo, influenzando il modo in cui viviamo, se mai ce ne rendessimo conto. Il termine da noi scelto, dittatura, non è casuale dal momento che i social ci portano a fare e a desiderare cose di cui altrimenti non avremmo neanche contezza. Gli algoritmi e la politica dei Cookie ormai invadono le nostre giornate e spesso dettano le nostre azioni.
Allo stesso tempo, ci sono anche molte cose positive che i social media hanno generato: app come Twitter (usato ormai come mezzo stampa) Facebook che hanno democratizzato ed esteso i dibattiti internazionali, politici e non , dando voce a coloro che in precedenza potevano essere esclusi dall’organizzazione dei media tradizionali; ha consentito la trasmissione istantanea delle informazioni, fornendo accesso ad eventi che si svolgono in tutto il mondo in pochi istanti; azioni sociali come quelle possibili su GoFundMe hanno contribuito a migliorare la vita di molti che altrimenti non sarebbero stati in grado di pagare per le cose di cui hanno bisogno, da un supporto per pagarsi gli studi fino al crowdfunding per aprire un’attività commerciale; forse la cosa più importante, ha reso incredibilmente facile comunicare con amici e familiari, indipendentemente da dove ti trovi nel mondo.
Tuttavia, ciascuno di questi aspetti positivi è controbilanciato da aspetti negativi. La democratizzazione dell’informazione ha portato a un calo della fiducia nelle fonti di notizie tradizionali e ha creato condizioni mature per la diffusione della disinformazione a macchia d’olio.
L’accesso immediato alle informazioni provenienti da tutti gli angoli del mondo ha portato a un bombardamento di informazioni in streaming nella vita di tutti, un enorme cambiamento in pochi decenni. Il cervello umano non è fatto per acquisire così tante informazioni su base giornaliera, o per preoccuparsi di cose che accadono a migliaia di chilometri di distanza che non hanno alcun impatto immediato sulla vita quotidiana.
In questo panorama mentre alcuni membri delle comunità online si riuniscono con fini umanitari, altri usano i loro gruppi per intimidire, insultare e molestare coloro con i quali non sono d’accordo.
E mentre rimanere in stretto contatto con gli amici e formare comunità online è una cosa fantastica, questo porta tuttavia anche al formarsi di comunità online più nefaste. Mentre 25 anni fa poteva essere difficile per gli estremisti trovare appoggio e fare comunità, ora è facile per i membri radicali e marginali della società, coloro che hanno opinioni estremiste, trovare online persone che la pensano allo stesso modo e nutrire i peggiori istinti dell’altro. Nello specifico queste forze di estrema destra sono particolarmente avvezze al linguaggio dei social che inducono spesso a semplificazioni ed assolutismi.
Non c’è bisogno di guardare oltre a ciò che è accaduto il 6 gennaio a Washington D.C. per vedere cosa può accadere quando gli estremisti formano comunità online e vivono nella loro realtà inventata, quella in cui i democratici hanno truccato le elezioni presidenziali e hanno rubato la presidenza a Donald Trump. Le conseguenze per il sistema politico americano e per la democrazia si sentiranno sicuramente per molti anni a venire.
Anche le elezioni politiche devono essere vinte e svolte principalmente sui social media. Pochi giorni fa, abbiamo tutti seguito la notizia che ha segnato, a cominciare da Twitter, piattaforma dopo piattaforma il “ban” definitivo per l’account dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump. La nostra perplessità su questa azione è grande quanto il disaccordo che abbiamo con le politiche e il modo di comunicare di Trump. Sebbene siamo fortemente in disaccordo con quasi tutto ciò che Trump rappresenta, vale la pena considerare il processo attraverso il quale queste società hanno deciso di bandire il presidente degli Stati Uniti in carica. Se Trump avesse vinto la rielezione lo avrebbero comunque bandito?
Sebbene Twitter accusasse Trump di aver violato le loro regole incoraggiando la violenza e incitando alla ribellione, potremmo ribattere che c’erano molte altre occasioni negli anni passati, in cui il Tycoon le aveva già violate. Parliamo di un uomo che solo pochi mesi fa ha chiamato i neonazisti brave persone, ha mentito sui risultati della sua elezione persa per mesi e proprio l’estate scorsa ha twittato: “quando iniziano i saccheggi iniziano le sparatorie”. La lista potrebbe continuare all’infinito. È giusto chiedersi perché Twitter abbia reagito solo dopo che la sede del governo americano è stata profanata e cinque persone hanno perso la vita.
Da un lato, questo modo apparentemente arbitrario di decidere chi può e chi non può utilizzare le piattaforme non è più accettabile. Potrebbe essere il momento per la comunità internazionale, che oggi stenta su diversi fronti, di riunirsi e regolamentare questi giganti digitali che hanno accumulato enormi quantità di potere. Sarebbe pericoloso consentire loro di diventare i decisori di ciò che è accettabile e non nel dibattito online.
D’altra parte, dovrebbe essere lo Stato a dettare condizioni ad aziende private su come dovrebbero gestire le loro piattaforme? Di norma le società private come Twitter e Facebook dovrebbero avere il diritto unilaterale di bandire chi vogliono. La libertà di parola non garantisce alle persone il diritto di utilizzare e abusare di qualsiasi piattaforma social che desiderino.
Inoltre, dovrebbe forse essere motivo di orgoglio per le democrazie liberali che le aziende che operano all’interno dei loro confini possano decidere di bandire attori potenti, compreso il presidente degli Stati Uniti. Riuscite a immaginare uno scenario in cui il presidente cinese Xi Jinping viene bandito da una società privata in Cina? Una cosa del genere chiaramente non sarebbe mai accaduta. Al contrario, uno scenario molto più probabile coinvolge quello in cui le società apparentemente private in Cina sono costrette dallo Stato a trasmettere il messaggio del PCC.
Non ci sono risposte facili a queste ipotesi. È vero che le società di social media hanno un’influenza enorme sul mondo e sempre più probabilmente ne avranno; ma è anche vero che sarebbe un pericoloso precedente da stabilire se lo Stato intervenisse e dirigesse queste società su ciò che possono e non possono fare.