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La dimensione politica della genitorialità: un dialogo ideale con Michela Murgia

di Barbara
Piccininni

Il 9 gennaio è uscito il tanto atteso libro postumo Dare la vita di Michela Murgia, intellettuale italiana di riferimento per il movimento del femminismo intersezionale deceduta il 10 agosto 2023 e autorevole voce critica sull’universo culturale e politico, nazionale e internazionale, di cui è espressione il governo di ultra destra conservatore italiano guidato da Giorgia Meloni.

Senza voler costruire una recensione, che richiede tempi di elaborazione più lunghi, ho deciso di leggere il libro interrogando idealmente l’autrice su un tema che ho già avuto modo di esplorare anche qui su transform!Italia: la dimensione politica della genitorialità, la socializzazione della maternità e paternità che fuoriescono dalla dimensione privata e assumono una dimensione collettiva e politica, definendo una precisa idea o visione di società e di relazioni che la abitano1.

Michela Murgia in tutta la sua opera e la sua militanza ha fatto della questione della maternità e paternità in un’ottica queer il fulcro non tanto del suo pensiero ma il privilegiato punto di vista attraverso cui leggere il mondo.
Sua la definizione di queerness che, a suo dire, lanciando “una sfida alle definizioni descrive i legami familiari fuori dal familismo aiutando a dare senso mai definitivo alle identità individuali e collettive”, offrendo spunti per “immaginarci come società” “non per includere” quello che la società già offre ma “per ridisegnare daccapo quelle norme che hanno definito in confini spesso illogici” la complessa trama di cosa sia una famiglia, e soprattutto ponendo una domanda fondamentale “che vale più di cento risposte”: cosa sia un genitore in luogo del chi sia un genitore. Al centro di questa complicata ma necessaria visione, che spesso viene usata o abusata a sproposito per definire tutto e quindi niente, c’è la rottura del principio biologico, e soprattutto del binarismo sessuale, cioè della necessità di un legame di sangue e genetico per definire la genitorialità, portandola in questo modo fuori dalla piccola dimensione domestica e di “famiglia tradizionale” verso un paradigma di legame universale fondante e fondativo di una visione della società in termini culturali e politici. Se il generare, il “dare vita” è una scelta intenzionale, e non un destino o un’attività meccanica comune al mondo animale per intero, che non è ancorata alla condivisione di un patrimonio genetico allora la genitorialità è in primis generativa di modelli sociali più che familiari, e il legame affettivo alla base di questa scelta diventa il motore trasformativo di tutta la società. Se le Madres di Plaza de Mayo ci dicono che sono state generate dai loro figli, dalla desaparicion, Michela Murgia ci dice che si può essere scelti come Madri senza aver generato, senza aver vissuto quello che il movimento SNOC con grande preoccupazione per i femminismi definisce “un percorso di vita” e “avventura umana straordinaria” riferendosi alla gravidanza e includendo in essa anche la maternità. Maternità e gravidanza come termini ed esperienze distinte allargano i confini di cosa sia essere madre, e per estensione padre, genitore. “Penso che andrebbe definito meglio cosa intendiamo per maternità nel XXI secolo” afferma Michela Murgia definendola “una dimensione fisica e/o spirituale che unisce al desiderio di procreare la disposizione ad assumersi la responsabilità genitoriale su una vita altrui” giacché si tratta di un “atto di volontà e consapevolezza non alienabile”.  Questo ragionamento è frutto delle conquiste culturali del femminismo, come movimento politico, che hanno costretto la società a ripensare la maternità non come destino ma come scelta, una scelta libera ed individuale, che non è descritta in modo esclusivo dalla gravidanza.

Nel linguaggio comune è usato il termine madre o padre anche in riferimento ad un’idea, ad un progetto, ad un processo politico, ma questo uso spesso non è consapevole del significato trasformativo che rivela.
In questa nuova accezione di genitorialità sono altresì contenute molte implicazioni politiche, sociali, economiche e giuridiche già vive nella società ma rifiutate da una consistente, e a volte bipartisan, coalizione politica.

Perché Michela Murgia, il suo pensiero, e le lotte dei femminismi, delle comunità razzializzate, delle persone lgbtq+ sono invise e combattute dall’estrema destra? Da quei movimenti teocon che hanno contaminato il dibattito e le istituzioni negli ultimi 10 anni? Il libro offre domande e non risposte ma nel suo insieme fornisce una strada interpretativa. Almeno io ho trovato la mia.

La negazione del biologismo come elemento centrale della definizione di famiglia e filiazione implica una nuova ridefinizione in primis di comunità, di Stato. Se la genitorialità non è di sangue che senso ha lo ius sanguinis? Se la filiazione è una scelta intenzionale il tema della natalità su scala nazionale che senso ha? Se per essere genitori non serve la condivisione di un patrimonio genetico che senso ha parlare di sostituzione etnica? Se la maternità o paternità sono nel desiderio e non nell’atto procreativo perché le famiglie lgbtq+ sono fuori dalla legge e per certi casi illegali? Se la famiglia è un processo dinamico di relazioni consapevoli, sessuali e non, aperto e fluido che senso ha mettere la famiglia alla base della comunità statutale definendola, come fanno San Paolo e i suoi eredi della tradizione del pensiero politico cattolico, una cellula pre-statutale, il famoso ente istituzione? Ed ancora: che senso ha la battaglia della superiorità della cultura familiare rispetto alle comunità scolastiche, o meglio la lotta che i gruppi anti-scelta ultra conservatori fanno alla scuola pubblica laica che ha il compito di fornire sulla base dei principi umani e costituzionali un’offerta formativa coerente?

Al centro di tutto dunque c’è l’autodeterminazione e la libertà.

In conclusione: “Rivendicare la generazione di volontà non è solo una possibilità per le famiglie che non ne hanno una, ma è una battaglia per la libertà di chiunque – perché chi vuole controllare i corpi di qualcuno alla fine cercherà di controllare tutto”.

Barbara Piccininni

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