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La coerenza di Erdogan

di Stefano
Galieni

È ”incoerente” che la Svezia chieda il sostegno della Turchia per il suo ingresso nella NATO quando ”sostiene i terroristi dell’YPG”, le Unità di protezione del popolo kurdo in Siria. E lo stesso vale per la Finlandia. Lo ha detto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan in una riunione dei deputati dell’AKP al Parlamento di Ankara, spiegando che la Turchia farà valere il proprio diritto di veto all’adesione di Svezia e Finlandia alla NATO fino a quando i due paesi continueranno, secondo il sultano, “a sostenere i gruppi terroristici che rappresentano una minaccia diretta per la sicurezza nazionale del paese”. Ufficialmente la richiesta turca è quella di far sì che i due paesi scandinavi permettano l’estradizione di circa 30 rifugiati kurdi considerati militanti del PKK, il Partito dei lavoratori kurdi di Abdullah Ocalan, vera spina nel fianco della dittatura in Turchia. L’elemento grottesco è che non è stata neanche specificata l’identità dei “pericolosi terroristi” da estradare né se provvedimenti in merito siano mai stati richiesti. Le uniche richieste giunte e respinte dai governi scandinavi sono quelle per alcuni elementi islamisti legati al gruppo del predicatore Fetullah Gulen, che poco o nulla a che fare con il PKK. Ma le motivazioni addotte sembrano molto pretestuose. Motivazioni a cui si aggiunge l’offesa diplomatica, cui non è nuovo il regime di Erdogan. È stato sconsigliato alle autorità finniche e svedesi anche di perdere tempo a recarsi ad Ankara. Le motivazioni reali sono altre. Intanto, come ha ricordato anche il quotidiano Daily Sabah, nel 2019, dopo l’attacco turco al nord della Siria, Svezia e Finlandia hanno imposto un embargo sull’esportazione di armi alla Turchia. La richiesta esplicita rivolta alle leader di Finlandia e Svezia è quella di eliminare tale blocco di vendita di armamenti.

Ma secondo molti analisti c’è anche altro. In parte un ricatto, come tipico di Tayyp Erdogan? Ankara potrebbe cedere, accettando il sostegno ai paesi scandinavi in cambio di nuovi armamenti americani, in particolare i nuovi aerei da combattimento F-16. Un segnale è stato rappresentato dall’incontro a livello ministeriali con il sottosegretario USA Victoria Nuland. Secondo il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu, ci sarà in tempi brevi un incontro fra Erdogan e Biden proprio per discutere delle “questioni emerse nelle relazioni bilaterali”, questo nonostante una precedente smentita di Biden rispetto ad una sua visita in Turchia. Questo accade perché la Turchia mentre cerca di ritagliarsi un ulteriore spazio come potenza regionale, anche esponendosi nei negoziati fra Ucraina e Federazione Russa, si ritrova coinvolta in scenari di guerra in cui ha bisogno di sostegno.

Il 18 aprile è iniziata in Iraq un’offensiva turca contro le basi del PKK nel nord del Paese. Il campo di Makhmour, a sud di Erbil e la città di Shengal, sono considerati non solo pericolosi esperimenti di “confederalismo democratico”, ma sono di fatto basi politiche del Partito dei lavoratori kurdi e non solo. Shengal è a maggioranza ezida, una delle minoranze più colpite da Erdogan e, prima dall’Isis. Ad essere stata presa di mira è stata una postazione delle Asaysh (le forze di difesa interne dell’Amministrazione autonoma) ed è seguito uno scontro a fuoco, mentre per vari giorni i droni turchi sono stati in azione nei villaggi del distretto. Un assalto non casuale. A Shengal vivevano un tempo 500 mila ezidi, ora la metà, molti sono in campi profughi in Iraq, altri in Europa. Far aumentare la tensione, farli diventare insicuri, è il modo per impedire il ritorno dei legittimi abitanti. In realtà gli attacchi non erano, in altre aree, mai cessati. A febbraio era partita l’operazione “Aquila d’Inverno” su villaggi e campi profughi, in violazione totale della sovranità e dell’integrità territoriale irachena. Ma in alcuni casi tali violazioni sembrano non costituire crimini da punire. Erdogan ha potuto contare sul silenzio-assenso del governo del Kurdistan iracheno di Masrour Barzani, che ha parlato di “cooperazione bilaterale per promuovere stabilità e sicurezza”. Il governo centrale iracheno ha invece reagito condannando l’operazione turca convocando anche l’ambasciatore turco. “La Turchia – ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Ahmed al-Sahaf – sta compiendo continue violazioni che non hanno appigli su alcuna base legale o accordo tra i due paesi. Invocano l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite per l’autodifesa, che non può però essere attuato senza l’approvazione ufficiale dell’Iraq”. E il presidente della Repubblica, il kurdo Salih (come stabilito dalla complessa costituzione irachena), ha ribadito che “non sono accettabili pratiche unilaterali per risolvere questioni di sicurezza. Ci rifiutiamo di essere l’arena in cui risolvere i conflitti altrui”. Ma le parole del Presidente hanno una forza relativa in un paese che dal 2021 non riesce ad avere un governo stabile, in cui sono forti le tensioni e le infiltrazioni di altre potenze regionali come l’Iran. Ma l’operazione di aprile in Iraq ha acceso il dibattito nella politica irachena. Ci sono prove di un accordo segreto che consentirebbe alle truppe turche di avanzare di almeno 30 km in territorio iracheno. L’esistenza di detto accordo è stata negata da un portavoce del ministro degli Esteri iracheno, ma non dal governo esplicitamente. Ma l’esercito turco mira anche ad approfittare della crisi in Ucraina e del proprio ruolo chiave per riprendere l’offensiva verso il nord della Siria per debellare i cantoni kurdi ancora governati col confederalismo democratico. Lo spazio aereo per i voli verso la Siria è interdetto ai voli russi, le trattative con Damasco vanno avanti nel complesso scacchiere, avanzare chilometri significa di fatto estendere l’impero, costringere Putin ad intercedere verso Assad perché l’invasione non incontri ostacoli è oggi alla portata del sultano. Questo significherà ancora una volta giocare sulla pelle dei kurdi, delle minoranze presenti in Iraq e in Siria, possibilmente utilizzando anche le risorse e le armi gentilmente fornite da USA e Unione Europea. Anche in questo modo l’esercito turco è oggi il secondo, in quanto a potenziale bellico, fra quelli della NATO e la sua potenza la sta mostrando da anni in Libia, Tunisia, Africa Orientale, anche in tal caso senza ricevere alcuna forma di condanna.

Il 4 giugno prossimo l’UIKI (Ufficio informazione del Kurdistan in Italia), insieme a tante altre associazioni solidali e forze politiche ha lanciato l’appello ad una manifestazione nazionale a Roma, di cui riportiamo uno stralcio. “Le operazioni in corso non sono solo una guerra al PKK, ma anche un chiaro attacco ai civili nelle regioni del Kurdistan in Turchia, Iraq e Siria. L’obiettivo principale e la convinzione ideologica di Erdogan è destabilizzare la regione, occupare il Kurdistan e compiere un genocidio contro il popolo kurdo. Pertanto è importante riconoscere che il nuovo attacco al Kurdistan meridionale mira a occupare il Kurdistan meridionale nel suo insieme, comprese le regioni ricche di petrolio di Mosul e Kirkuk, costituendo così una chiara violazione di tutte le norme legali, morali e internazionali.

È ancora una volta accettato silenziosamente che la Turchia, uno stato membro della NATO, stia attaccando i kurdi e violando i loro diritti umani. Mentre l’invasione russa dell’Ucraina è stata giustamente e rapidamente condannata e sanzionata, l’aggressione della Turchia contro i kurdi è stata invece tollerata per decenni dai Paesi occidentali. Non si discute di sanzioni contro l’alleato della NATO, nè i kurdi possono sperare in vie di fuga sicure e su di una protezione di base quando fuggono dalle città assediate o dai bombardamenti turchi.

Sostenuta da consegne regolari di armi e di nuova tecnologia da diversi paesi europei e della NATO, la Turchia sta facendo in Kurdistan ciò che la Russia fa in Ucraina: combattere continuamente un’intera popolazione e attraverso diversi confini nazionali. Queste due situazioni vengono invece definite “l’invasione russa dell’Ucraina” e la “presenza turca in Siria”. Le stesse pratiche di aggressione costituiscono una guerra in un caso e un’operazione militare in un altro. Gli ucraini sono considerati vittime della guerra, ma nei casi di attacchi ai kurdi si parla solo di terroristi e di postazioni del PKK e non delle popolazioni civili.

Con le recenti celebrazioni del Newroz del 21 marzo oltre 10 milioni di kurdi nel Kurdistan settentrionale e in Turchia hanno inviato un chiaro messaggio a Erdogan che non si sarebbero piegati alla sua brutalità o alla sua politica di annientamento. Milioni di kurdi hanno riproposto alla Turchia un percorso verso la pace e riaffermato che la libertà del leader del popolo kurdo Abdullah Öcalan è un elemento centrale per la soluzione della questione kurda, per la pace e la democrazia per tutti i popoli del Medio Oriente. Nonostante tutto questo dopo le celebrazioni del Newroz, le torture e gli omicidi di prigionieri politici kurdi sono aumentati, così come gli attacchi alle sedi del Partito democratico dei Popoli (HDP) e gli arresti di attivisti politici, sindacali e di esponenti della società civile.

La rottura dell’isolamento e la libertà del leader del popolo kurdo Abdullah Ocalan, l’ispiratore del modello del Confederalismo democratico, sono una condizione più che mai necessaria per la pace e la soluzione del conflitto. Nonostante egli sia deprivato dei suoi più basilari diritti e libertà fondamentali, ha ribadito più volte di essere in grado di trovare una soluzione politica alla questione kurda e al conflitto per un futuro di pace per tutti i popoli del Medio Oriente.

Dobbiamo rompere il silenzio sull’invasione turca del Kurdistan meridionale e agire!

Stefano Galieni

guerra, Kurdistan, NATO, Turchia
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