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Israele divisa sulla giustizia ma unita sull’occupazione

di Franco
Ferrari

La crisi politica israeliana sta dividendo profondamente la società e creando qualche, limitata, preoccupazione negli Stati Uniti che sono i garanti in ultima istanza della possibilità per Israele di violare qualsiasi norma del diritto internazionale e di proseguire impunemente l’occupazione dei territori palestinesi.

Lo scontro che si protrae da mesi e che ha visto scendere in piazza centinaia di migliaia di oppositori del governo di ultradestra guidato da Netanyahu, riguarda la modifica di una delle leggi fondamentali di Israele che fanno la funzione, di fatto, di una inesistente Costituzione. La legge consentiva alla Corte Suprema di valutare la “ragionevolezza” delle leggi approvate dal Parlamento. Si trattava di una formulazione sufficientemente ampia da consentire un ampio margine di manovra ai giudici che la compongono ma è anche una delle conseguenze della decisione al momento della nascita dello Stato israeliano di non dotarsi di una carta costituzionale per effetto di profonde differenze sul carattere (laico/religioso, plurietnico/monoetnico, ecc) della nuova formazione statale oltre che delle sue dimensioni territoriali.

Per la destra si trattava di un potere eccessivo messo a disposizione di una struttura giudiziaria sottratta al controllo del governo. L’approvazione della legge che restringe considerevolmente i poteri di intervento della Corte Suprema era stata in un primo momento rinviata, anche su sollecitazione del Presidente della repubblica, alla ricerca di un improbabile compromesso tra le forze politiche di governo e opposizione. Ma questa è stata considerata solo una manovra dilatoria per far sbollire il movimento di protesta che si è riacceso in tutto il paese all’annuncio dell’imminente approvazione, poi avvenuta, della modifica ad una delle leggi considerate fondamentali dell’impianto giuridico israeliano.

Le proteste hanno incontrato la dura reazione delle forze di polizia, documentate e denunciate dai media liberali. Niente di paragonabile con il trattamento quotidianamente inflitto ai palestinesi dalle forze di occupazione e dai coloni, sul quale in verità gli stessi media e le forze politiche di opposizione (con l’eccezione del fronte politico Hadash di cui fanno parte i comunisti) sono abitualmente silenziosi e compiacenti. Fa eccezione Amira Hass, opinionista di Haaretz, una delle rare voci ad occuparsi realmente di quanto accade nei territori occupati.

Approvata la legge di riduzione dei poteri della Corte Suprema si apre ora la possibilità di un complesso imbroglio politico-giudiziario. Alla Corte sono arrivate numerose petizioni che contestano la legittimità di quanto approvato dal Parlamento. Di norma la Corte interviene per valutare la corrispondenza tra una legge ordinaria e le leggi fondamentali, ma in questo caso è proprio una di queste ad essere messa in discussione. Può la Corte giudicare ed intervenire su questo? E se decidesse di respingerne la legittimità? L’ultra destra al governo contesta l’idea che la Corte possa in alcun modo pronunciarsi nel merito e Netanyahu non ha ancora chiarito se intende adempiere ad una eventuale annullamento della sua legge. Questa eventualità aprirebbe uno scontro dall’esito molto incerto ma certamente approfondirebbe il conflitto nella società.

Al di là del merito dell’iniziativa presa dalla maggioranza guidata da Netanyahu, e che trova un consenso minoritario nell’opinione pubblica, questa è considerata, a ragione, solo un primo passo di una serie di misure che riducono drasticamente gli spazi di democrazia e di pluralismo (quelli garantiti alla maggioranza ebraica). Si tratta di un armamentario noto a tutta le destre autoritarie ormai al potere in diversi paesi europei e non solo. Controllo politico della magistratura, subordinazione dei media, costruzione di una serie di paletti istituzionali tali da rendere più difficile il ritorno dell’opposizione al Governo attraverso una vittoria elettorale.

La frattura che si è aperta nella società israeliana non mette in discussione, se non per aspetti limitati, le politiche oppressive attuate nei confronti dei non ebrei, sia quelli appartenenti alla minoranza arabo-israeliana interna ai confini precedenti al ’67, che comunque possiedono alcuni diritti (sempre più precari per il crescere delle correnti ebraiche suprematiste), sia quelli dei territori occupati, che vivono in una condizione di apartheid di fatto.

Le tendenze sempre più autoritarie e reazionarie presenti in Israele, in linea con il crescere delle destre a livello globale, non sono fatti accidentali legati alla contingenza politica ma espressione di elementi di fondo dell’ideologia sulla base della quale si è costruito lo Stato israeliano. Il sionismo, sorto come espressione specifica e minoritaria all’interno del crescere del nazionalismo prima in Europa all’inizio del ‘900 e poi nel mondo colonizzato a partire dagli anni ’60, vedeva inizialmente una prevalenza delle correnti laiche. Per alcuni decenni queste, che erano espressione soprattutto dell’establishment askenazita sopravvissuto nell’Europa orientale alla Shoa, hanno prevalso. Ma contemporaneamente si sono basate su due principi di fondo: 1) il ricorso alla forza militare come strumento di affermazione della propria presenza statuale in un contesto ostile; 2) la difesa della natura ebraica e quindi mono-etnica del proprio Stato. La crescente diversificazione del mondo israeliano con l’arrivo di immigrati di paesi mediorientali e poi dall’ex Unione Sovietica, hanno indebolito fino ad eliminarla la prevalenza dell’establishment askenazita incarnata nel partito laburista, nel sindacato Histadrut e nel movimento dei kibbutz, oltre che della gran parte del mondo intellettuale.

La destra ha saputo impossessarsi delle classiche tematiche populiste anti-élite per conquistare il consenso della parte più povera del Paese. L’occupazione dei territori palestinesi ha poi dato vita ad un altro fenomeno, l’arrivo per lo più dall’estero di ebrei suprematisti e razzisti che rivendicano sulla base di una presunta concessione divina il diritto ad occupare tutte le terre palestinesi e non solo quelle loro attribuite dall’ONU al momento della nascita di Israele.

La combinazione di populismo reazionario, integralismo religioso alimentato da tutti i governi con continui finanziamenti, suprematismo ebraico dei coloni insediati sui territori palestinesi ha creato una maggioranza che, seppur prevalente di poco in termine numerici, ha conquistato l’egemonia di fatto e un crescente potere sulla società israeliana. L’insieme delle forze che si sono opposte in diversi momenti a Netanyahu, il più abile interprete e garante di questa miscela reazionaria, non hanno mai messo in discussione gli elementi di fondo che costituiscono il nocciolo ideologico della destra: l’affermazione della natura etnica dello Stato (che viene sempre più deformato in senso razzista) e il rifiuto della nascita di uno Stato palestinese realmente indipendente e sovrano.

Questo processo si è sviluppato anche grazie al contesto esterno. La protezione degli Stati Uniti che hanno sempre garantito la possibilità di Israele di negare i diritti fondamentali agli abitanti dei territori occupati e la crisi e declino delle correnti nazionaliste arabe che vedevano nella questione palestinese un elemento fondamentale di unità e di affermazione della propria liberazione del colonialismo, hanno lasciato mano libera ai governi israeliani. Il cosiddetto “patto di Abramo” ha permesso ad un crescente numero di Stati reazionari arabi di intrecciare relazioni sempre più strette con Israele senza alcuna contropartita.

Al momento gli Stati Uniti stanno spingendo per normalizzare le relazioni tra Israele e l’Arabia Saudita. Le trattative sono in corso e Washington tira le fila perché è preoccupata della crescente autonomia della monarchia reazionaria di Riad che gioca diverse partite geopolitiche in proprio, riallacciando i rapporti con l’Iran e mantenendosi in difficile equilibrio sulla questione ucraina. Per salvare la faccia, la monarchia saudita deve chiedere qualche contropartita almeno retorica a favore dei palestinesi, ma anche questo con l’attuale maggioranza di governo al potere in Israele sembra impraticabile.

Gli Stati Uniti continuano a richiamarsi all’obiettivo dei due Stati, ma è del tutto evidente che si tratta solo di una copertura per mantenere lo stato quo di cui la popolazione palestinese paga quotidianamente il costo con morti, feriti, case distrutte, interi villaggi costretti ad andarsene.

Dal punto di vista palestinese nessuna delle due forze in campo, l’Autorità palestinese e Hamas (che controlla Gaza) sembrano avere alcuna prospettiva strategica per riconquistare i diritti fondamentali dei palestinesi o per costruire un vero Stato. Sembrano più che altro accontentarsi di gestire i fondi che arrivano dall’estero grazie al quale mantengono il proprio potere fondato su basi sociali sempre più ristrette. Per ora i tentativi di costruzione di una terza forza che apra una nuova stagione di lotta e che si ricolleghi alle tradizioni migliori del nazionalismo progressista e laico palestinese non hanno avuto successo. L’incancrenirsi della situazione politica palestinese e il continuo spostamento a destra di quella israeliana non lasciano intravedere vie d’uscita positive al conflitto.

Franco Ferrari

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