Fanno riflettere molto le manganellate date a titolo gratuito agli studenti che in varie città italiane hanno osato manifestare in protesta, chiedendo giustizia per Lorenzo Parelli, studente diciottenne di Udine. Lorenzo è morto mentre svolgeva un PCTO (Percorso per le competenze trasversali e per l’orientamento) quella che per sintesi chiamiamo “alternanza scuola lavoro”. Una morte orribile ed inaccettabile che ha visto montare nelle piazze rabbia e dolore. Le ragazze e i ragazzi che si sono radunati nelle in molte città non erano i violenti black bloc- neanche in tal caso ci sarebbero state sufficienti giustificazioni – ma giovani che forse per la prima volta nella vita, hanno incontrato il volto duro del potere. Solo un paio di giorni dopo al Pantheon a Roma, si sono radunati circa 300 ragazzi e giù bastonate come se piovesse. La scena si è ripetuta nei giorni seguenti a Torino, Milano, Napoli. La scuola è tornata, per un istante, in prima pagina e non per parlare di Dad o di distanziamenti o contagi ma di loro, le studentesse e gli studenti, dotati di un sapere critico come non ce li ricordavamo. Prima a Roma, poi a Torino, Milano, Napoli, stessa ricetta, qualche mazzata sulle ossa perché per loro la critica al potere, al sistema scolastico, alla buona scuola che fa entrare in classe come un morbo la normalità della morte in un cantiere, non è ammessa. C’è stato, fra i più anziani come chi scrive, chi ci ha colto un nesso con le prime avvisaglie di un fuoco coperto sotto la brace, come accadeva negli anni Settanta ma non lasciamoci ingannare. La frammentazione delle vite, dei tempi e un distanziamento sociale iniziato molto prima della pandemia, a suon di lezioni di individualismo spicciolo, rende ardua ogni comparazione. Negli anni Settanta (ma allora erano diversi tanto il sistema comunicativo quanto la capacità di rendere memoria stabile la coscienza collettiva), si sarebbe parlato per giorni di questa oscena morte. E ancor più sarebbe divenuto tema di discussione quello dei pestaggi operati dalle sedicenti forze dell’ordine. Anche quel luogo di rappresentanza democratica che un tempo era il parlamento, avrebbe dovuto discuterne, non restare assente. Oggi sono pochi i parlamentari a protestare e infinitesimo pare il ruolo degli organismi di rappresentanza. L’ipocrisia governativa parla della necessità di un dialogo con i giovani, balbetta frasi di circostanza ma nulla più. Ci sarebbero state, quaranta, cinquanta anni fa, piazze piene per giorni e una morte del genere avrebbe costretto anche la pubblica opinione ad aprire una riflessione più ampia tanto degli omicidi sul lavoro (92 nel solo mese di gennaio quest’anno). Nessuno avrebbe osato parlare di incidente o fatalità, nessuno squallido commentatore su twitter avrebbe avuto la sfacciataggine di paragonare la morte di Lorenzo a quella di un ragazzo in gita o in un campeggio. Erano gli anni in cui nei tecnici industriali, persino nelle scuole professionali, si contestava il fatto che la formazione impartita alludeva ai ritmi di lavoro in fabbrica e che in quei luoghi di formazione, si andava riproducendo una catena di comando di cui si contestava la radice. Criticavamo selezione, orari, disciplina, autoritarismo, gli elementi strutturali per far funzionare quella che allora era ancora una produzione solo vagamente post-fordista.
Verrebbe da dire e pensare che a quelle forme radicali di contestazione era scontato doversi ritrovare ad affrontare un apparato repressivo statuale che si macchiava quasi normalmente le mani di sangue. Ci eravamo abituati e si andava in piazza sapendolo. E si era abituati all’idea che le cariche arrivavano a chi contestava il sistema di sfruttamento fra fabbrica e scuola mentre le squadracce fasciste potevano manifestare protette e indisturbate a rappresentare ordine e disciplina. Quelli erano i “bravi ragazzi” da prendere ad esempio, destinati a formare la nuova classe dirigente del Paese, tanto simile a quella da Ventennio che l’aveva preceduta. Il paragone potrà sembrare forzato ma la provocazione è inevitabile. Oggi, chi governa, con strumenti di controllo molto più raffinati – altro che dittatura sanitaria – ma a colpi di leggi repressive e securitarie che si sommano da decine di anni, a colpi di annientamento preventivo di ogni forma di conflitto che abbia parvenza di critica sociale, a colpi di una cultura dominante che sgretola sul nascere ogni forma di collettivizzazione del dissenso, trova un terreno già fertile e pochi ostacoli. E come accadeva 50 anni fa – evidentemente i manuali delle questure non sono stati aggiornati – esistono pseudo opposizioni comode, come l’arcipelago No vax a cui tutto è permesso, anche entrare nelle sedi sindacali, non rispettare le norme anti assembramento, girare senza mascherina, occupare piazze, senza che se ne paghi le conseguenze. Si un gruppuscolo di leader neofascisti sono oggi in carcere ma era il “minimo sindacale”, in fondo si tratta di pochi arnesi già sputtanati per cui entrare e uscire di galera è solo una formalità. Intanto hanno potuto traversare indisturbati le piazze centrali della capitale in centinaia, ricordando le immagini statunitensi di Capitol Hill. Un’opposizione di facciata che fa comodo, su cui tenere accesi i riflettori, che anzi rafforza il governo e la sua immagine rassicurante da buon padrone. Un buon padrone che intanto, elimina il blocco dei licenziamenti, dà il via libera agli sfratti per morosità incolpevole. I pochi e le poche che riescono a difendersi da simili violenze costituiscono una eccezione a volte tollerata più spesso presa di mira in nome della ripresa che, annunciano le sirene dell’informazione da regime, porterà prosperità per tutti. E chi si oppone non lo capisce, meritando così le cariche. I ragazzi e le ragazze delle piazze di questi giorni rappresentano una pericolosa e suggestiva eccezione, come i lavoratori della GKN e la loro battaglia sostenuta dall’intera comunità locale. Pericoli da scongiurare, soprattutto se si aggregano, se si incontrano, se rompono il vero distanziamento sociale che non è dovuto alla pandemia o alle misure per fronteggiarla.
Quasi in contemporanea il 2022 iniziava con un pugno di ferro nei confronti di chi crea problemi in quanto non in grado di consumare, degli “scarti” del Paese che vivono ai margini, spesso senza fissa dimora, sopravvivendo giorno dopo giorno unicamente grazie all’assistenza di enti caritatevoli. Uomini e donne fastidiosi perché ritenuti d’intralcio alle attività economiche. Se qualcuno di loro crepa in ipotermia, mancando le strutture emergenziali, poco importa, due righe in cronaca e tutto sparisce, un po’come gli omicidi sul lavoro. Al massimo, in assenza di materiale più notiziabile, qualche vicenda guadagna 30 secondi in più su un tg o 30 righe su un quotidiano. Il rapporto Oxfam, pubblicato pochi giorni fa, ci dice che, a causa della crisi sociale ed economica connessa alla pandemia, oltre 1 milione di persone sono precipitate in condizioni di povertà assoluta, ma questi non sono dati su cui soffermarsi, la ripresa è vicina, come si diceva e le imprese vedranno presto i soldi del PNRR. Già le imprese. E a coloro che sono impegnati nell’impresa di sopravvivere al giorno dopo?
Due esempi macroscopici che fanno da contorno a tante situazioni simili attuate in altre città italiane. Roma, Stazione Termini, da sempre rifugio di chi non ha da vivere e luogo in cui le associazioni caritatevoli sanno di incontrare ormai stabilmente i propri beneficiari. Su alcune testate è apparsa la notizia che l’esercito era intervenuto per impedire che venisse erogato cibo o generi di prima necessità a chi ne aveva bisogno. Interessante nella capitale del cattolicesimo, quella che dovrebbe essere la città dell’accoglienza e della solidarietà. Le notizie sono rimbalzate per un paio di giorni e confermate da reporter che si sono sentiti dire come tali operazioni erano utili a togliere intralci alle attività commerciali della Stazione. Ma più interessante è la smentita diramata alcuni giorni dopo dall’Esercito con una nota: “La presenza dei militari presso la stazione è tesa ad espletare un servizio di vigilanza attiva a protezione del sito, in supporto e in concorso alle Forze di Polizia, finalizzato alla prevenzione e contrasto della criminalità“. E poi: “Si ricorda che il personale di ‘Strade Sicure’ è posto a disposizione del ministero degli Interni attraverso i Prefetti che definiscono, per le esigenze di controllo del territorio e per garantire la sicurezza dei cittadini, le specifiche attività di vigilanza, sorveglianza e pattugliamento da porre in essere nelle vicinanze dei siti considerati ‘sensibili’, tra cui le stazioni ferroviarie e della metropolitana. In particolare – spiega l’Esercito – , il servizio svolto presso la Stazione Termini esula da attività o contatti con i volontari impegnati nella distribuzione di cibo ai senza fissa dimora che riparano dentro alla stazione: è pertanto del tutto infondato sostenere che i militari abbiano mai contrastato l’azione benefica di tali associazioni“. Falsità giornalistiche allora? È ancora il comunicato a chiarire “Si specifica, inoltre, che le autorità competenti in materia hanno disposto che, a causa delle restrizioni anti-Covid per garantire la sicurezza dei viaggiatori in transito ed evitare assembramenti, le donazioni alimentari e di beni di prima necessità a favore dei senza tetto avvengano all’esterno della stazione, in un’area non di competenza dei militari. Peraltro, alcune delle maggiori associazioni di volontariato che operano a Termini hanno smentito, anche oggi, su altri organi di stampa, eventuali ostacoli alla loro opera di sostegno quotidiano da parte dell’Esercito”. Traduzione dell’arrampicata sugli specchi: l’esercito permette di portare assistenza solo fuori dalla Stazione, dentro, dove magari ci si rifugia per non crepare di freddo, no. O stai al caldo e a digiuno o mangi qualcosa, magari rimedi una coperta ma lontano dal tepore, in realtà scarso, offerto da una galleria. Ovviamente nessun cenno alle necessità di ampliare i luoghi per l’emergenza freddo, nessuna programmazione per affrontare quella che ancora si ha il coraggio di chiamare emergenza e costituisce la norma. Ah dimenticavamo, ora Roma è governata da un illuminato sindaco di centro sinistra che provvederà. Peccato che lo sia sentito parlare di progetti per il futuro, di investimenti, di, immondizia, di strade e di cinghiali, ma poco di questi inutili ultimi. L’azione dell’Esercito, resa più agevole dall’alibi del rispetto delle misure anti covid sembra però essere solo un assaggio. Nonostante gli incontri delle ultime settimane cresce il timore che dopo aver colpito chi dorme per strada il prossimo passo sia quello della ripresa degli sgomberi delle abitazioni considerate “illegalmente occupate”. Un piano già da tempo predisposto dal prefetto, il solerte Matteo Piantedosi che incontra il favore dei proprietari – spesso privati che hanno abbandonato da anni e senza curarsene i palazzi da sgomberare – e che la nuova efficienza capitolina potrà provare a gestire. Migliaia le persone che rischiano di restare per strada in mancanza di una soluzione abitativa – si cercherà probabilmente di provvedere ai più vulnerabili, donne e bambini, separandoli dai padri, ma, con la primavera si potrebbe registrare un nuovo salto di tensione. Molto dipenderà dalla curva pandemica che tanto influisce sulle scelte politiche operate ma – e tornano i richiami del passato – si è sgomberato un circolo “culturale” vicino a Casa Pound, per mostrare il pugno duro anche con la destra, ma si resta immobili rispetto alla sede nazionale dei “fascisti del terzo millennio” costata milioni di euro alla collettività. Chiaro che si dovrebbero incontrare meno ostacoli e minore opposizione nel cacciare i palazzi in cui convivono autoctoni privi di reddito e rifugiati provenienti dai tre quarti del pianeta. Realtà organizzate, anche a sinistra che hanno preferito, in campagna elettorale, mantenere il silenzio quando non sostenere esplicitamente il centro sinistra con la promessa di un trattamento di riguardo per le difficoltà abitative di cui si sono fatte portatrici. C’è da sperare che abbiano ben riposto le loro speranze. Che alle parole pronunciate dal neo sindaco negli incontri pubblici seguano fatti concreti ma nelle occupazioni si avverte quella tensione pesante che precede gli interventi prefettizi.
E per fare un parallelo da Roma spostiamoci a Napoli dove, due settimane fa, è stata realizzata, anche lì su decisione di un sindaco di centro sinistra una “operazione anti degrado” alla Galleria Umberto, sgomberando tutti i clochard e recuperando grande quantità di rifiuti.
“L’emergenza clochard è stata finora gestita in maniera errata permettendo che si creassero dei veri e propri accampamenti che hanno portato degrado e condizioni di vita poco consone a delle persone”, hanno spiegato i rappresentanti, di cenro sinistra, delle istituzioni partenopee, in primis l’assessore alla Sicurezza, De Jesu un tempo questore della città r il consigliere regionale Francesco Emilio Borrelli. Per carità nessuna violenza, almeno secondo quanto riportato dalle agenzie. I senza fissa dimora (evitiamo di reiterare il romantico termine clochard che allude ad una scelta di vita), hanno avuto l’opportunità di tenere con se coperte e cappotti, di ricevere medicine e cibo confezionato. Sono state date loro persino buste d’acqua. Quanta bontà. Un’operazione avvenuta in nome del decoro o piuttosto del denaro? Numerosi i commercianti con i negozi in galleria che hanno applaudito la stretta del nuovo sindaco Manfredi che ha trovato il tempo per dire “c’è bisogno di assistenza ma anche di decisione”. Sono intervenuti in soccorso gli enti caritatevoli mentre le autorità comunali, dopo lo sgombero, sono scomparse. Col risultato che in piena emergenza freddo e a fronte di una popolazione di senza fissa dimora stimata intorno alle 4000/5000 persone (manca un censimento), si è trovato alloggio per meno di 400 persone. Gli altri e le altre stanno già ricostruendosi giacigli di fortuna.
Operazioni simili sono avvenute, quasi in contemporanea – come si diceva – in diverse città italiane tanto da far pensare ad ordini dall’alto e gli interventi attuati non permettono di capire se il Comune che se ne è fatto carico abbia una amministrazione di centro destra o di centro sinistra.
In conclusione, per quella che sembra essere una vera e propria nuova ondata repressiva è utile segnalare alcuni elementi di contenuto. Il primo è che nel paese di Draghi, ma accade già da molti anni ha diritto ad esistere solo l’opposizione compatibile, tutto il resto è da spazzare. Al punto – e questo segna un ritorno alle politiche securitarie che sono all’origine della nascita del Pd – secondo cui dei “poveri” e di chi contesta non si deve parlare. La stessa definizione “degrado” con cui si giustificano ordinanze ed azioni repressive dovrebbe far indignare almeno chi ha gli strumenti culturali per reagire. Può essere elemento di degrado un edificio lasciato cadere in pezzi, un quartiere con le strade rotte e senza mezzi di trasporto, una via senza illuminazione. Definire “elementi di degrado” le persone in difficoltà attiene più ad una concezione fascista del mondo. E dirlo mentre il Paese, a causa delle scelte economiche e politiche portate avanti, spinge sempre più persone in basso, è aberrante. Ma per una cultura di destra che ormai fa parte dell’imprinting di forze politiche che si dichiarano progressiste come dei mezzi di informazione a cui fanno riferimento, questo è normale. La povertà, l’assenza di reddito, di casa, di prospettive, sono colpe da pagare con sgomberi e mazzate.
E quella che si continua a combattere è una guerra contro i poveri, contro gli scarti dell’umanità, contro chi non consuma abbastanza, contro chi dissente radicalmente dal ciclo produci consuma crepa. Questo con buona pace di chi continua ancora ad accettare, anche a sinistra, una ideologia dominante per cui resta permanente il rischio di una “guerra fra poveri”, Una chiave consolatoria che costringe chi ci crede o a reagire in perenne difesa, come se il problema fosse quello dell’evitare la barbarie fra ultimi e penultimi e permette a chi vuole farne uso di distribuire ogni tanto briciole di carità atte unicamente ad allontanare qualsiasi spettro di scontro sociale. I ragazzi e le ragazze che hanno preso le botte ma che in piazza intendono tornarci perché il mondo che gli stiamo lasciando fa loro schifo, hanno un terreno davanti tanto enorme quanto irto di rischi e pericoloso. Che se li riprendano loro i luoghi della critica e che ne realizzino di nuovi e meno stantii. Sarebbe il segnale di uscita da una pandemia non solo nazionale, che dura da almeno quaranta anni.
Stefano Galieni