Il Partito Democratico si trova ad un passaggio particolarmente difficile della propria storia. Non si tratta solo della sconfitta elettorale del 25 settembre che, per altro, ha confermato il basso livello di consenso raggiunto con la leadership di Renzi nelle elezioni precedenti, ma la perdita della capacità di organizzare e dirigere una coalizione competitiva col centro-destra.
Questo partito è nato con una lettura ben precisa del contesto internazionale e nazionale. Sul piano globale si tiravano all’estremo le analisi della svolta occhettiana dell’ex PCI facendole confluire con quelle di settori dell’antico mondo democristiano. Si dava per finito non solo il conflitto di classe ma anche le classi in quanto tali come strumento analitico indispensabile per cogliere le differenze di interessi e di visioni nella società e come potenziali agenti del cambiamento. Restavano i “cittadini” titolari di diritti soprattutto nella sfera privata, molto meno in quella economica, e soprattutto si dava ormai per scontato che il futuro appartenesse alla globalizzazione capitalista nella sua fase neoliberista, così come si era andata affermando con il crollo del blocco sovietico.
La globalizzazione non poteva essere contestata, ma solo diretta e gestita in termini di “governance” e il PD, come in generale le forze di centro-sinistra a livello mondiale, si proponevano come coloro che meglio e con più efficienza l’avrebbero potuta gestire. I suoi benefici si sarebbero poi distribuiti su settori sempre più ampi di società, anche se ovviamente qualcuno sarebbe arrivato prima di qualcun altro.
L’altro asse della formazione del PD riguardava la struttura del sistema politico italiano che, per essere anch’esso più efficiente, si doveva adeguare alla realtà statunitense e al suo bipartitismo, interpretato come la competizione tra due formazioni piglia-tutto. Una blandamente progressista, l’altra blandamente conservatrice che si legittimavano a vicenda essendo entrambe espressione di un unico paradigma socio-economico. L’idea dell’alternanza e dello “sblocco” del sistema politico, che era già fortemente presente nello scioglimento del PCI, andava ulteriormente forzata superando la presenza di coalizioni eterogenee ed eliminando le posizioni di sinistra radicale, mentre tutte le altre avrebbero potuto convivere all’interno dell’unico partito del centro-sinistra.
Restava l’elemento europeista costretto però nelle forche caudine del liberismo dei trattati e del vincolo atlantista incarnato dalla Nato. Una struttura europea che, al di là della retorica, doveva svilupparsi ma restando subalterna sia dal versante dei poteri economici e finanziari, sia da quello della leadership statunitense.
Nella concreta gestione di questa visione complessiva si è avuta qualche limitata oscillazione tra politiche di tipo più socialdemocratico (con uno sforzo di mediazione sociale con le organizzazioni intermedie, compresi i sindacati) e altre più aggressive. In ogni caso il PD si vedeva come il dominus incontrastato e incontrastabile del campo del centro-sinistra, in questo riproponendo un’idea di centralità di impronta democristiana. Questa non si applicava più all’intero sistema, ma solo ad uno dei suoi campi.
Nessuno dei pilastri sui quali il PD doveva poggiare ha funzionato come previsto. La globalizzazione è entrata in crisi perché i “perdenti” si sono rivelati essere in maggior numero dei “vincenti”. Questo prima ancora che le recenti vicende (Covid, Ucraina, nuova guerra fredda) aprissero un ripensamento complessivo dei suoi postulati.
La formazione di un sistema bipartitico non è avvenuta e questo ha dato un indubbio vantaggio competitivo al centro-destra che oltre tutto si è andato spostando verso le posizioni estreme. Ma la forzatura verso il partito unico del centro-sinistra ha ottenuto l’effettivo contrario a quello auspicato: prima ha favorito la rottura del sistema bipolare (con la nascita dei 5 stelle) e poi di ne ha determinato una crescente frammentazione.
Per quanto riguarda il terzo pilastro, l’Unione Europea, oggi è in una sorta di limbo. Se si sono ridotti coloro che ne vorrebbero uscire, dopo la Brexit, non è nemmeno chiaro dove vogliano andare coloro che ne aumenterebbero ruolo e poteri rispetto agli Stati nazionali. Anche se circola l’idea, in una parte dell’establishment, che l’Europa oggi si possa rafforzare puntando non più sull’idea kantiana di una pace universale, quanto su quella schmittiana della presenza del nemico. L’Europa, aiutata a nascere dalla tragedia della guerra, ora sembra poter uscire dalla palude solo grazie ad una guerra identitaria e di “civiltà”.
Il PD, nato per essere “tutto”, ha poi dovuto ripiegare sul “campo largo” zingarettiano, tornando a costruire una coalizione simile, anche se più ristretta, dell’Ulivo di cui costituiva il superamento. Con una sola condizione, di esserne il dominus indiscutibile, in grado di definirne i confini. Infatti appena i 5 stelle hanno provato, pur timidamente, ad uscire dall’ortodossia draghiana, sono stati bruscamente accompagnati alla porta. Solo che, anziché proseguire un percorso di disintegrazione, come sperato da tanti, sono riusciti a trovare uno spazio di rappresentanza sociale che il PD aveva da tempo abbandonato.
I problemi che deve affrontare il Partito Democratico sono quindi molteplici e strutturali. Non basterà qualche accorgimento retorico, soprattutto quando risultano chiaramente strumentali ed opportunisti. Letta ha spiegato ai suoi che il PD in campagna elettorale non aveva “parlato” abbastanza di pace e questo aveva lasciato spazio ai 5 stelle. Ma la sua reazione istintiva dopo la vicenda dei missili caduti in territorio polacco ha confermato che la “pace” è una preoccupazione che viene molto dopo il bisogno di dimostrare l’allineamento più piatto al bellicismo atlantista.
Ora nel Partito si è avviata la campagna che dovrà portare alla scelta del nuovo leader. Le cronache indicano come principali competitori l’attuale Presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, e quella che fino a poco tempo era la sua vice, Elly Schlein.
Bonaccini è assurto ad un ruolo nazionale quando venne chiamato da Renzi nella sua segreteria. Poi non lo seguì nella scissione che in una realtà come l’Emilia-Romagna gli avrebbe stroncato la carriera politica. Benché abbia dimostrato una certa flessibilità nell’adattarsi nel tempo alle diverse leadership del partito (prima PDS poi PD), la sua visione di governo resta vicina a quella dell’attuale leader di Italia Viva e al suo polo centrista. Il suo “modello emiliano” è attento soprattutto agli interessi dell’impresa, con un grande amore per strade, autostrade, rigassificatori e tutto quando rimanda ad un modello di sviluppo piuttosto obsoleto e una strisciante privatizzazione dei servizi pubblici praticata nei fatti pur proclamando di fare il contrario. Un “modello” che certamente beneficia di elementi positivi accumulati nel dopoguerra ma il cui blocco sociale di riferimento si è progressivamente spostato dalla classe operaia e dai ceti popolari alla grande e media borghesia. A volte affine a quelli delle vicine regioni leghiste (e questo spiega la convergenza sull’autonomia differenziata). Può darsi che Bonaccini pensi che la coalizione elettorale che lo sostiene in Emilia-Romagna (e che pure mostra da tempo segni di sfilacciamento), nella quale si trovano settori popolari trascinati dal passato con i ceti medi e medio-alti acquisiti più recentemente, possa essere riproducibile a livello nazionale. Ma l’attuale presidente di Regione rischia di trovarsi nella situazione che ha sempre contrassegnato i tentativi dei leader bavaresi di diventare guide nazionale dei partiti democristiani tedeschi: fortissimi a casa loro, non sono mai riusciti a sfondare fuori dai confini.
Elly Schlein è salita alla ribalta nazionale con le proteste per la mancata elezione di Prodi a Presidente della Repubblica. È uscita dal PD durante la gestione renziana seguendo le tracce di Civati, ma poi si è via via autonomizzata, gestendo nei vari passaggi con una certa abilità il principale capitale politico di cui dispone: sé stessa. Abbandonato Civati al suo destino si è sempre ben guardata dal legarsi ad un progetto politico collettivo. L’aggregazione dell’Emilia-Romagna “coraggiosa” è rimasta un progetto gelatinoso ed esclusivamente istituzionale e comunque abbandonata rapidamente al suo destino. È sempre abilmente sfuggita ai tentativi di Fratoianni di agganciarla ad un progetto politico comune, vedendo un possibile partito come una gabbia da cui rifuggire per lasciare aperte strade più fruttifere. Sicuramente propone un discorso più spostato a sinistra di Bonaccini. Ma mentre quello del Presidente sembra più concreto nell’individuare referenti sociali precisi, quello della sua ex vice sembra molto più gassoso e scarsamente tradotto in verificabili battaglie politiche.
Un partito che oggi si basa soprattutto su una ragnatela di notabili locali (in qualche regione del sud vere e proprie baronie autonome) sembra destinato più facilmente a riconoscersi nel “concretismo” centrista bonacciniano, ma i giochi e gli equilibri dei vari gruppi e correnti che sembrano collocarsi a prescindere da qualsiasi contenuto ideologico e programmatico (il “doroteismo” non muore mai) potrebbero portare ad esiti diversi e imprevisti.
Resta il problema di fondo. La crisi del PD è un problema o un’opportunità per la costruzione di un’alternativa alle destre al governo e al liberismo e all’atlantismo come paradigmi incontestabili? Sicuramente la seconda che ho detto, ma non si può dare per scontato, com’è ovvio, che l’attuale riassetto del campo delle forze che non stanno nel centro-destra, abbia di per sé esiti positivi. Dipenderà evidentemente da movimenti di sensibilità e nuove o vecchie linee di frattura e conflitti che si determineranno nella società, come dalla contestuale capacità di formulare un’ipotesi strategica in grado di rappresentarli.
articoli
Il renziano e la prodiana
di Franco
Ferrari