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Il primo insetto autorizzato come alimento nell’UE è la tarma della farina

di Alessandro
Scassellati

La Commissione Europea ha deciso di autorizzare la commercializzazione come alimento delle larve gialle essiccate del tenebrione mugnaio, meglio note come tarme della farina. E’ la prima autorizzazione dell’UE a un insetto come alimento, che arriva a seguito della valutazione scientifica da parte dell’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA).

Per il momento, ad approvare la proposta della Commissione è stato il Comitato permanente per le piante, gli animali, gli alimenti e i mangimi, che è formato da rappresentanti di tutti e 27 i Paesi membri dell’Unione Europea ed è presieduto da un rappresentante della Commissione. La decisione formale della Commissione europea sarà adottata nelle prossime settimane e fa parte della strategia “Farm to Fork”. Il piano d’azione Ue 2020-30 per i sistemi alimentari sostenibili identifica gli insetti come una fonte di proteine a basso impatto ambientale che possono sostenere la transizione “verde” della produzione alimentare Ue. Al momento, sono undici le domande per insetti come nuove alimenti all’esame dell’Efsa.

Il “nuovo alimento” (secondo la definizione UE) potrà essere immesso in commercio come insetto essiccato intero, come uno snack, o come farina, ingrediente per numerosi prodotti alimentari. L’autorizzazione stabilisce requisiti di etichettatura specifici per quanto riguarda l’allergenicità, visto che l’EFSA ha indicato che il consumo dell’insetto può portare a reazioni ai soggetti con allergie preesistenti a crostacei e acari della polvere.

E’ soprattutto la FAO che da tempo suggerisce di avviare allevamenti su larga scala di insetti – già parte integrante della dieta di più di due miliardi di persone, soprattutto in Asia – perché sono nutrienti, molto proteici, sono ricchi di sostanze antiossidanti, si riproducono velocemente e si adattano a qualsiasi habitat.

Attualmente, gli insetti sono le principali vittime dell’agricoltura industriale chimica, del cambiamento climatico e dell’inquinamento atmosferico. I pesticidi sono un fattore nella riduzione delle popolazioni di molti insetti e degli uccelli che se ne cibano. In molte aree del pianeta la drastica riduzione o addirittura la scomparsa degli insetti ha avuto effetti devastanti per uccelli, rettili, pesci e altri animali della fauna selvatica che di essi si nutrono. Dove gli insetti impollinatori non sono più disponibili, ad esempio, gli effetti a cascata sugli ecosistemi sono rapidamente diventati catastrofici. Una volta che queste popolazioni selvatiche sono state sradicate o gravemente esaurite, abbiamo pochi modi per cercare di riportarle indietro, e non possiamo sostituire i “servizi ecosistemici” – l’impollinazione delle piante di cui abbiamo bisogno per il cibo – che forniscono.

E’ bene ricordare che la specie homo sapiens rappresenta solo lo 0,01% di tutti gli esseri viventi, ma ha causato la perdita dell’83% di tutti i mammiferi selvatici e della metà delle piante. La perdita di aree selvagge è la causa principale dell’attuale estinzione di massa della fauna selvatica. L’espansione combinata delle aree urbane (in crescita di più del 100% dal 1992), dove ormai vive il 56% della popolazione del pianeta, e dei terreni destinati all’agricoltura e zootecnia intensiva, sta mettendo a rischio l’esistenza del 62% delle specie animali già inserite nella lista dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN). Secondo il Living Planet Report 2020 del WWF e della Zoological Society di Londra, le popolazioni globali di mammiferi, uccelli, pesci, anfibi e rettili sono crollate in media del 68% tra il 1970 e il 2016. I ricercatori dell’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services dell’ONU parlano addirittura di un’imminente “sesta estinzione di massa” per un milione su otto di specie, soprattutto insetti, “la colla in natura”. Ciò significa che esiste un grande disequilibrio a livello di sistema, tanto che il panel internazionale sui cambiamenti climatici (IPCC) stima che in ciascuna delle tre decadi da qui al 2050 la produzione agricola calerà del 2%, mentre la domanda di cibo crescerà del 14% (con circa 10 miliardi di persone), mentre la produzione di frutta, verdura e legumi è già diminuita del 22% negli ultimi due decenni.

Le monocolture e i cibi la cui produzione è basata sugli allevamenti intensivi fanno sì che l’agricoltura sia un elemento dannoso per l’ambiente perché, oltre a produrre il 24% delle emissioni di gas serra, è il più grande sfruttatore di acqua dolce del pianeta. Inoltre, tra il 1990 e il 2020 la produzione di carne è stata responsabile per l’80% della deforestazione, soprattutto in Sud America. Tra il 2010 e il 2017 si sono persi ogni anno quasi un milione di ettari di foresta, soprattutto nel Mato Grosso e nell’Amazzonia (il 19% della foresta è già scomparso), un’area di oltre 70 milioni di chilometri quadrati — la più ricca diversità biologica di ecosistemi nel pianeta — che custodisce il 20% della disponibilità mondiale di acqua dolce non congelata, il 34% delle riserve mondiali di foreste.

Con l’aumento della popolazione mondiale, le risorse si faranno sempre più scarse e diventa sempre più urgente ripensare i modelli di produzione e di consumo. La controversa “dieta per la salute planetaria” pubblicata su Lancet (gennaio 2019) – un progetto triennale compilato da 37 scienziati di 16 Paesi – ha suggerito che il consumo globale di carne rossa deve ridursi della metà. Le modifiche raccomandate sarebbero particolarmente severe in Europa e negli Stati Uniti: gli europei dovrebbero mangiare il 77% in meno di carne rossa e 15 volte più noci e semi per soddisfare le linee guida, mentre gli americani dovrebbero ridurre la carne rossa dell’84%.

Nel breve periodo, un modo ovvio per nutrire miliardi di persone è mangiare più piante coltivate – comprese le alghe, a cominciare dalla spirulina, ricche di vitamine, antiossidanti, acidi grassi omega-3 e proteine – e meno carne animale. Una dieta a base vegetale ridurrebbe il consumo di terra del 75% e dimezzerebbe i gas serra e altri inquinanti causati dalla produzione alimentare animale. In buona parte ciò è dovuto all’estrema inefficienza dell’alimentazione del bestiame con i cereali: gran parte del loro valore nutritivo si perde nella conversione dalle proteine vegetali alle proteine animali. Il 93% della soia che consumiamo è incorporato nella carne, nei latticini, nelle uova e nei pesci, e gran parte del suo valore nutritiva è persa nella conversione. Quando la mangiamo direttamente, è necessaria una quantità molto minore per fornire la stessa quantità di proteine.

Un’altra alternativa alla carne animale è, appunto, il consumo di proteine derivanti dagli insetti. Per allevare insetti serve poca terra e si emette una frazione dei gas serra climalteranti generati da bovini, suini e altri animali allevati in modo intensivo. Produrre un kg di grilli o di cavallette richiede meno di un quinto del mangime che i bovini mangiano per produrre la stessa quantità di proteine attraverso la carne (e meno della metà rispetto ai suini).

Un ettaro di terreno produce ogni anno una tonnellata di proteine dalla soia, normalmente usate per sfamare gli animali. La stessa superficie di terreno può produrre 150 tonnellate di proteine dagli insetti che possono essere consumate anche dagli animali (soprattutto dai pesci di allevamento). Il marchio Purina della Nestlé ha lanciato una linea di alimenti per animali domestici a base di insetti.

Gli insetti richiedono molta meno acqua e non hanno bisogno né di antibiotici né di ormoni della crescita. Con il loro ridotto impatto ambientale, inoltre, gli insetti costituiscono una sorta di “super-cibo”, ossia una fonte alimentare ricca di proteine, vitamine B1, B2 e B3, Omega 3 e 6, tutti gli amminoacidi essenziali, oltre a essere un’importante fonte di minerali, come il ferro.

Circa 1.900 specie di insetti si trovano nelle diete tradizionali, con alcuni dei più grandi mercati come Thailandia, Giappone, Cina, Australia e Perù, ma ora si utilizzano (trasformati in farine) come componenti di un crescente numero di alimenti in Europa e nelle Americhe, oltre che in prodotti di nicchia (barrette energetiche e granole) e nei menù dei ristoranti di tendenza.

 

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