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Il prezzo della sposa. Quando il corpo femminile è terreno di battaglia

di E. Coniglio,
M. Sankanu

In Gambia si teme un pericoloso passo indietro con il disegno di legge per  depenalizzare le mutilazioni genitali femminili. 

“FGM is not a religious obligation” si legge sui cartelli che si levano in aria a Banjul. Un gruppo di attivisti e cittadini contro le FGM manifesta per le strade mentre l’Assemblea nazionale del Gambia discute un disegno di legge che preoccupa anche gli osservatori internazionali. Si tratta di una legge contro il Women’s (Amendment) Act, con il quale le mutilazioni genitali femminili sono state rese illegali in Gambia nel 2015 – proprio mentre il paese veniva dichiarato una Repubblica islamica dall’allora presidente, Yahya Jammeh. Un reato che dalla sua entrata in vigore prevede pene pecuniarie di 50,000 dalasi (si stima che per un lavoro ben remunerato lo stipendio sia di 3500 dalasi mensili) e fino a 3 anni di carcere.
Il 18 marzo, Almameh Gibba, parlamentare per Foñi Kansala, ha presentato il disegno di legge in seconda lettura al Parlamento sostenendo che la circoncisione femminile “è una pratica che affonda profondamente le proprie radici in tradizioni etniche, nella cultura e nelle credenze religiose della maggioranza della popolazione gambiana”. La legge – secondo il parlamentare – avrebbe il ruolo di salvaguardare norme e valori culturali e l’attuale divieto di circoncisione femminile sarebbe una diretta violazione dei diritti i di praticare la propria cultura  e religione garantita dalla costituzione del 1997. 

“La circoncisione femminile è una pratica sostenuta dai valori e dalle tradizioni dell’Islam” ha dichiarato. E a suo avviso nessuna legge può restringere delle pratiche religiose, che siano internazionali o di altro tipo. Al contrario, attraverso le Agenzie dell’Onu, “l’eredità e la cultura storica dovrebbero invece essere preservate”. Almameh Gibba, con queste parole, chiarisce la propria posizione politica e culturale. È chiaramente portatore del pensiero di una parte della popolazione che vede la pratica definita in maniera generica “circoncisione femminile” come un diritto religioso.

Mentre le ‘mutilazioni genitali’ – così definite già durante il III Congresso del Comitato Africano del 1973 – si riferiscono a tutte quelle pratiche tradizionali in cui si ha l’asportazione o l’alterazione di una parte dell’apparato genitale esterno della donna – sono di diverso grado e se ne contano 4 tipi.
Utilizzare il termine più neutro “circoncisione” appare dunque improprio perché assimilando l’idea a quella di circoncisione maschile – dove si recide solo la pelle che circonda il glande senza alcuna mutilazione dell’organo sessuale – si nascondono gli effetti invece distruttivi e irreversibili che si operano con le “circoncisioni femminili”. L’escissione, infibulazione o circoncisione faraonica, la forma  più grave e pericolosa per la salute psicofisica delle donne.
Il dibattito politico intorno a questo tema è estremamente delicato,  e la Commissione africana per i diritti dell’uomo e dei popoli (ACHPR), unitamente al Comitato africano di esperti sui diritti e il benessere del bambino (ACERWC) ha già espresso profonda preoccupazione, definendo la discussione in atto un “dibattito parlamentare regressivo”.

Lo scenario infatti concerne gravi violazioni dei diritti umani ed è al contempo sistema di funzionamento sociale. Secondo uno studio realizzato in Italia, ‘Antropologia delle mutilazioni genitali femminili’ infatti, questa pratica, che è soprattutto di usanza africana – con delle differenze e specificità che variano in Egitto e in tutta l’Africa subsahariana – “costituisce l’espressione simbolica di un complesso sistema economico e sociale di strategie matrimoniali diffuso in maniera capillare (…). E si tratta di un meccanismo di dominio fondato sul prezzo della sposa (brideprice), cioè sul compenso che la famiglia del futuro marito versa alla famiglia della futura moglie in cambio di una donna illibata, il che vuol dire circoncisa – escissa, o infibulata”.

La condanna della pratica e il dibattito pubblico

Dopo la caduta del regime e l’avvento di Adama Barrow nel 2017, il dibattito è montato alle cronache nell’agosto dello scorso anno, quando tre donne sono state condannate ad una multa di 15.000 dalasi o ad un anno di prigione in contumacia per aver praticato delle mutilazioni a delle bambine. In seguito alla sentenza, il famoso religioso islamico gambiano, l’Imam Fatty, ha guidato una delegazione della Islamic Enlightenment Society per pagare il saldo di 35.000 dalasi. E gli attivisti pro-FGM, spinti da questa corrente, cantavano all’esterno dell’Assemblea Nazionale il 18 marzo in sostegno del disegno di legge di depenalizzazione, menzionato per la prima volta dal membro dell’Assemblea nazionale Sulayman Saho (del partito centrista Baddibu), che ha suggerito che il disegno di legge fosse abrogato. Secondo loro, le attiviste contro le FGM sono sostenute dall’Occidente nel “vendere” la loro religione e un acceso dibattito tra le parti pone quindi al centro della questione se la pratica sia religiosa o una pratica culturale volta a “controllare le donne”. Ad oggi, le Nazioni Unite stimano che più di tre quarti delle donne gambiane di età compresa tra i 15 e i 49 anni hanno subito MGF o circoncisione femminile. Pratiche che comportano molte complicazioni per le donne che le subiscono. Durante i rapporti sessuali, il ciclo mestruale o la semplice minzione. Così come nel parto, cagionando anche la morte in alcuni casi.

La voce degli attivisti

La proposta di abrogare la legge anti-FGM in Gambia ha effetti negativi significativi sulle donne gambiane. La mutilazione genitale femminile è una pratica dannosa che comporta gravi rischi per la salute e viola i diritti umani delle donne e delle ragazze. L’abrogazione della legge esporrebbe le donne e le ragazze a un rischio maggiore di subire mutilazioni, con conseguenti danni fisici e psicologici, oltre a perpetuare la disuguaglianza e l’iniquità di genere.
Come sopravvissuta alle FGM e attivista anti-FGM, il solo pensiero della possibilità di abrogare questa legge mi rende ansiosa – sostiene Musu Bakoto Sawo, coordinatrice nazionale di Think Young Women. “La presenza della legge anti-FGM è stata una salvaguardia fondamentale contro la pratica, proteggendo le ragazze, inclusa mia figlia, dagli orrori delle FGM. Il timore di essere perseguiti ai sensi di questa legge ha dissuaso i familiari stretti e stretti dal sottoporre le loro figlie a FGM. Al contrario, l’abrogazione di questa legge offrirebbe l’opportunità a coloro che in precedenza si astenevano dal commettere tali atti di farlo impunemente. Questa prospettiva è profondamente preoccupante, poiché espone innumerevoli ragazze al danno contro il quale abbiamo lottato così duramente per prevenire. Inoltre, l’abrogazione della legge anti-FGM in Gambia,  rappresenta non solo una regressione di decenni di lavoro e risorse impegnate dal movimento anti-FGM, ma anche un fallimento da parte del governo nel dovere di proteggere i suoi cittadini. Il governo ha l’obbligo non solo di rispettare, promuovere e realizzare i diritti umani, ma anche di proteggere gli individui all’interno della sua giurisdizione dai danni causati da terzi. La legge anti-FGM costituisce una misura protettiva cruciale per le donne e le ragazze, proteggendole dai danni associati alle FGM. Pertanto, l’abrogazione della legge costituirebbe un fallimento di tale dovere, poiché rimuoverebbe uno strato vitale di protezione ed esporrebbe le donne e le ragazze ai pericoli delle FGM, minando i loro diritti umani fondamentali e il loro benessere. È quindi essenziale che il governo dia priorità alla protezione e all’emancipazione delle donne mantenendo e applicando le leggi contro le FGM”.

Il disegno di legge, sostenuto dal membro dell’Assemblea nazionale per il partito Foni Kansala, Almameh Gibba, è sopravvissuto alla seconda lettura del 18 marzo, con disappunto degli attivisti anti-FGM. È stato ora deferito al Comitato Affari dell’Assemblea Nazionale per un ulteriore esame.

Elena Coniglio e M. Sankanu

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