Da qualche mese è nelle librerie Ultimi bagliori del Moderno. Lavoro, tecnica e movimento nel laboratorio di Potere Operaio di Franco Berardi Bifo (Ombre Corte, Verona 2023), un libro che era stato pubblicato nel 1998 con il titolo La nefasta utopia di Potere Operaio1 e che ora ha una nuova introduzione2. Si tratta di uno sforzo di analisi teorico-metodologica delle elaborazioni intellettuali, filosofiche e politiche militanti prodotte nel “laboratorio di Potere Operaio” (PO) e nel corso del dibattito sulla natura dei movimenti sociali a partire dalle lotte operaie e studentesche degli anni ’60 fino ai giorni nostri (passando dai No-Global di Seattle del 99′ e di Genova del 2001 ai movimenti dei precari e dei lavoratori cognitivi). La tesi sviluppata da Bifo è che “dall’elaborazione concettuale che si addensa intorno all’esperienza politica di Potere operaio deriva una traccia metodologica utile a comprendere oggi qualcosa della transizione paradigmatica che tende oltre l’esaurimento della società industriale, oltre l’esaurimento del lavoro salariato, verso l’apocalisse di nuovi orizzonti di possibilità” (17). Per questo il libro cerca di ricostruire la formazione del modello teorico esplicativo del divenire sociale, tecnologico e politico (la “griglia concettuale”) elaborato dal gruppo di intellettuali militanti che ha partecipato all’esperienza di PO3“L’alleanza strategica tra rifiuto del lavoro salariato e intelligenza tecnico-scientifica è il cuore del progetto di Potere operaio, che si concretizza come sabotaggio del comando capitalistico e della riduzione del tempo di lavoro” (9).
Nelle lotte operaie e studentesche del decennio seguito al ’68 si verificò una profonda trasformazione della dinamica sociale che portò ad una crisi dei meccanismi di accumulazione, ad una fuoriuscita della società dal modello industriale fordista/taylorista (incentrato sulla catena di montaggio e il cosiddetto “operaio massa”, per cui il lavoro operaio era ridotto a variabile tecnologicamente dipendente) e ad un progressivo svuotamento delle funzioni di controllo dello Stato nazionale moderno (nelle versioni keynesiana, socialdemocratica o socialista). È nel ’68 che emerge sulla scena il lavoro intellettuale tecnico-scientifico, legato al rifiuto del lavoro operaio salariato (che diviene insubordinazione aperta in alcuni momenti e in alcuni settori produttivi), come attore sociale consapevole del suo ruolo produttivo. Secondo Bifo, la critica filosofica e la ricerca sociale svolte da PO rappresentano un momento di consapevolezza di questo mutamento che era maturo nella composizione sociale del lavoro, nel sapere scientifico e tecnologico4. È il rifiuto del lavoro nelle fabbriche che spinge costantemente il capitalismo, attraverso l’introduzione del progresso tecnico, poi attraverso la globalizzazione, ad aggirare la “fortezza operaia”.
Nei testi prodotti (in libri, riviste, articoli, giornali, saggi di vario genere) dall’operaismo italiano ci sono molti strumenti (metodologici e analitici) utili per analizzare la successiva transizione postindustriale e anche lo stato delle cose presenti. “Se ricostruiamo l’ottica storica e filosofica della scuola cosiddetta operaista, e soprattutto se ricostruiamo il modello interpretativo del conflitto sociale che Potere operaio aveva elaborato, ci renderemo conto del fatto che il divenire sociale degli anni Ottanta (demolizione della classe operaia industriale, terziarizzazione e intellettualizzazione del lavoro) e anche il processo politico scatenatosi nell’89 (crollo dei regimi socialisti) non era affatto imprevisto per Potere operaio, anzi rappresentava la linea di tendenza implicita della sua lettura delle tensioni sociali e del conflitto di classe” (21).
Il metodo composizionista
Nell’analisi retrospettiva di Bifo troviamo la linea di demarcazione che le riviste operaiste degli anni ’60 tracciano segnando una nuova fase. Questo passaggio viene individuato nella fondazione dei Quaderni Rossi (1961-66), rivista propedeutica alla nascita di altri “gruppi – riviste” come Classe operaia (1964-67), Contropiano (1968-69), La Classe (1969) e Potere operaio (1969-73)5. Quello che Bifo attribuisce a questo filone di riviste (e al pensiero di cui si fanno portavoce) “consiste, prima di tutto, nell’ accentuazione del carattere direttamente politico della lotta operaia, nel rifiuto della separazione tra dimensione sindacale (contrattuale) e dimensione politica dell’organizzazione” (70). Tutte sono d’accordo su un punto metodologico fondamentale: la contraddizione essenziale dello sviluppo capitalistico risiede nella “insubordinazione endemica degli operai come classe” (74), per cui “solo la lotta incessante tra operai e capitale spiega i movimenti del capitale” (75).
Secondo Bifo, le riviste operaiste hanno lavorato su concetti come rifiuto del lavoro salariato e composizione di classe (intesa come “il divenire dell’autonomia di classe, la ricomposizione di segmenti eterogenei, frammenti di consapevolezza, di desiderio, di attesa, di ribellione, di ideologia, di illusione, di progetto”; 73), introdotto l’inchiesta operaia, la conricerca sociale6 e la ricerca-azione territoriale (per cui “conoscere la realtà sociale significava elaborare elementi di consapevolezza proliferanti all’interno della dinamica sociale stessa” [70]), e la concezione della lotta operaia autonoma (contro il capitale e contro lo Stato), per cui la classe operaia viene vista come in grado di rappresentare sé stessa sia a livello sindacale che politico. Un metodo – quello della conricerca e ricerca-azione territoriale – che, insieme ad Aldo Bonomi, ai colleghi del Consorzio Aaster e ad altri compagni di strada, ho cercato personalmente di praticare con passione ed entusiasmo nel mio lavoro di ricercatore sociale negli ultimi 30 anni7.
Bifo non gradisce l’uso del termine “operaismo”; lo usa con disappunto e solo laddove ha una connotazione prevalentemente convenzionale, considerandolo solo come un’etichetta “buona per i giornalisti, cioè cattiva” (27). A Bifo il termine operaismo non piace perché riduce la complessità della realtà sociale al mero dato di una centralità degli operai industriali nella dinamica sociale della tarda modernità. La centralità della classe operaia è stato un grande mito politico del ventesimo secolo, ma per Bifo il problema che ci dobbiamo porre è quello dell’autonomia dello spazio sociale dal dominio capitalistico, e quello delle differenti composizioni culturali, politiche, immaginarie, che il lavoro sociale elabora. Perciò preferisce usare l’espressione “composizionismo”, per definire questo movimento di pensiero teorico-filosofico.
Il concetto di classe sociale non ha una consistenza ontologica, ma deve essere visto come un concetto vettoriale. Per Bifo, la classe sociale è proiezione di immaginazioni e progetti, effetto di un’intenzione politica e di una sedimentazione di culture. Essere composizionisti significa vedere la dinamica sociale – che si incarna di volta in volta in una determinata composizione di classe – come un processo fluido (chimico-gassoso o, seguendo Felix Guattari, di soggettivazione) nel quale si mescolano flussi culturali, psichici e ideologici e non come terreno di scontro fra forze compatte, fra soggetti unitari portatori di volontà univoche (fra classi sociali). Si capiscono meglio i movimenti a partire dalle oscillazioni dell’immaginario sociale piuttosto che dalla “lotta di classe” di leniniana memoria.
Secondo Bifo, parlando di “composizionismo” invece che di “operaismo”, si tiene conto della composizione sociale e della ricomposizione di classe e del “cervello sociale”: ossia di come la società condizionata dallo sviluppo del capitale si stratifichi in base alla propria evoluzione, e di come – tramite i processi di protesta e di lotta sociale – venga a scomporsi e ricomporsi creando nuovi attori sociali. Cosicché, in definitiva, il nuovo quadro sociale deriva dal precedente tramite la propria ricomposizione.
Il metodo analitico consiste “nel porre il punto di osservazione nel crinale più sdrucciolevole, nella tendenza, in ciò che costituisce la forma estrema dell’universo sociale” (28). Nel concetto di composizione “è implicita una critica del soggettivismo politico e al tempo stesso una critica del sociologismo empirico; ed è possibile intravedere gli elementi di una concezione del processo sociale inteso come divenire eterogeneo nel quale intervengono segmenti tecnologici, sedimentazioni culturali, intenzioni politiche e rappresentazioni ideologiche, concatenazioni macchiniche e comunicazionali, insomma, tutto ciò che sfugge alle riduzioni della politica e della sociologia” (27). Un approccio eclettico che nel tempo ha potuto intrecciare anche impostazioni molto distanti come il post-strutturalismo francese (Foucault, Deleuze, Guattari, Baudrillard) e la cibercultura inglese e americana (i movimenti cyberpunk e hacker).
Per quanto riguarda il “cervello sociale”, lo si può avvicinare al “general intellect” di cui Marx parla nei Grundrisse, in particolare nella sezione chiamata Frammento sulle macchine, che Panzieri riporta al centro dell’attenzione degli studi marxisti. Con il “cervello sociale”, il composizionismo oltrepassa il concetto gramsciano di “intellettuale organico” e, nei suoi sviluppi successivi andrà a sostituire gradualmente il “general intellect” con la “sfera sociale cognitaria”. Lo studio del “cognitariato” e del “lavoro autonomo di seconda generazione”, sarà centrale per la riflessione successiva di Bifo (sviluppata nella terza parte del libro e ripresa nella nuova introduzione del 2023).
A differenza dell’operaismo che è più avanguardista, nella lettura di Bifo il composizionismo torna di prepotenza a legarsi al lavoro di Marx, lasciando a margine la figura di Lenin, proprio in quanto concettualmente interno alla classe operaia. Nella sua interpretazione Bifo pone come punto di partenza quanto successo nel 1962 a Torino con la rivolta di Piazza Statuto, dove, nel contesto delle lotte operaie per il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici, la classe operaia si organizza e lotta senza le direttive di un’organizzazione esterna ad essa. In quell’occasione, infatti, non c’è la costituzione di un soggetto politico o strategico esterno, né il partito, né il sindacato, né i gruppi extraparlamentari.
La corrente composizionista si pone in una posizione del tutto critica rispetto al soggettivismo politico che – per il tramite della svolta leninista dei gruppi extraparlamentari – si rifà a Mario Tronti e a Toni Negri (si pensi ad esempio a PO e ad Autonomia Operaia) 8.
Nella lettura di Bifo, il composizionismo diventa una corrente di rottura all’interno del marxismo umanista rispetto non solo alla versione francofortese (e quindi neo-hegeliana, con esponenti come Horkheimer, Adorno e Marcuse), ma anche a quella esistenzialista di stampo sartriano9. La differenza è condensata nella posizione sull’alienazione. Tradizionalmente, nell’umanesimo, l’alienazione viene considerata come l’allontanamento dell’umano dall’umano. Quest’allontanamento porta alla perdita graduale dell’essenza umana nell’esistenza storica, e questo tratto – per Bifo – accomuna l’impostazione sartriana e quella francofortese. Per i sartriani l’alienazione è un tratto costitutivo della condizione umana, quindi non eliminabile, il che porta l’uomo a dover convivere con essa. Per la Scuola di Francoforte, invece, l’alienazione è un processo storicamente superabile, quindi circoscrivibile a una fase che l’uomo deve affrontare nel suo percorso storico.
La novità del composizionismo, e quindi di Bifo, sta nel fatto che l’alienazione nella visione sia sartriana che francofortese, viene superata con l’introduzione di un concetto differente, ossia quello dell’“estraneità” (rispetto al modo di produzione capitalistico e alle sue regole). La differenza concettuale sta nel fatto che, nel pensiero composizionista, l’essere umano nasce nella relazione storica tra le classi, e nasce per la sua capacità di estraniarsi (non di alienarsi). Bifo individua nell’estraneità operaia un’intenzione attiva, la predisposizione endemica alla rivolta. Il composizionismo vede un processo di trasformazione, da parte dell’uomo, che parte dall’alienazione perché diventi estraneità, per poi continuare dall’estraneità in rifiuto del lavoro salariato (“estraneità attiva”). Il rifiuto non è il punto d’arrivo di questo processo, bensì la nuova base di partenza, è l’unico modo che gli operai hanno per non soffrire della loro alienazione, la quale è causata dalla condizione disumana in cui si trovano, che dipende dalle condizioni in cui il capitale li mette, facendogli perdere la loro umanità storica. Di conseguenza, il rifiuto consente alla classe operaia di rendersi indipendente dal capitale trasformandosi in una comunità ed estraniandosi (fondando “una comunità non più dipendente dal capitale”). L’estraneità consente di mantenere la propria essenza umana; e questo può avvenire solo tramite la ribellione, la quale porta (nell’ottica composizionista) a una nuova società e a una nuova umanità, in forma più evoluta e alta. “Possiamo dire che lo sviluppo di questa tendenza porta il sistema globale della produzione virtualmente al di fuori dell’orbita paradigmatica del moderno sistema capitalistico” (57)10).
Questo è un punto molto importante nella riflessione di Bifo, che sarà alla base del passaggio dal “rifiuto del lavoro” alla “liberazione dal lavoro”; difatti il concetto di estraneità viene più volte ripreso e sviscerato. Rileggendo l’operaismo in chiave composizionista, Bifo trova la radice dell’estraneità nel pensiero di Tronti che non usa il termine “estraneità”, ma dà all’alienazione una funzione non più passiva, bensì rivoluzionaria, rovesciandone il significato11.
Due sono gli aspetti fondamentali del composizionismo: la consapevolezza della propria forza, data dalla compattezza della collettività operaia, e la programmazione del rifiuto del lavoro salariato, in maniera programmatica e diffusa. Con il composizionismo avviene uno scarto che autorizza a non parlare più di “perdita dell’essenza umana”, poiché l’estraneità è il fattore che consente alla classe operaia di non identificarsi con l’interesse del capitale. Il rifiuto e la ribellione permettono a Bifo di spiegare la definizione che Tronti dà della classe operaia, ossia di “rude razza pagana”, ponendola estremamente lontana dalle “prospettive teologico-umanistiche che l’idealismo marcusiano proietta sulla realtà della composizione sociale proletaria, sulla condizione lavorativa, ma anche sul processo di socializzazione e di lotta che gli operai mettono in moto, sul territorio metropolitano” (43).
Da questo punto di vista, il concentrarsi della lotta operaia sugli aspetti salariali non significa affatto che questa lotta sia da considerarsi integrata e subalterna. Se il salario “viene inteso come strumento politico di attacco e di redistribuzione radicale della ricchezza sociale, se il salario viene considerato come un livello del conflitto tra operai e capitale (il livello del conflitto sul valore di scambio della forza-lavoro) da coordinare con l’altro livello del conflitto (quello che si sviluppa sul piano del valore d’uso della forza-lavoro) allora, in questo caso, il salario è lo strumento principale di una lotta in cui dimensione economica e dimensione politica sono collegate offensivamente in una prospettiva di autonomia degli operai dallo sviluppo capitalistico e dal dominio” (45). Il consumo operaio va considerato come “una forma di appropriazione destinata ad aprire un fronte di scontro politico radicale” (45), con un rilancio continuo della posta. L’effetto di questa dinamica è “la riorganizzazione tecnologica, l’aumento della composizione organica di capitale, la riduzione del tempo di lavoro necessario, dunque la creazione delle condizioni dell’unica rivoluzione interessante: la rivoluzione per l’abolizione del lavoro salariato” (86).
Inoltre, il composizionismo cambia la prospettiva di osservazione, che non è più quella marxiana (o dello strutturalismo althusseriano) del capitale e nemmeno quella trontiana della classe operaia, ma diventa il punto di vista del lavoro, quindi della particolare angolazione del lavoro. Il rifiuto del lavoro può portare alla “sovversione determinata” che gli uomini esercitano nei confronti della “struttura [del sistema capitalistico] determinata dal processo lavorativo” (55). Il composizionismo dunque vede essenziale e fondamentale la composizione sociale “come dinamica della sottrazione del tempo [di vita] rispetto alla prestazione salariata”. Per comprendere insieme composizione sociale e processi di rottura rivoluzionaria con il capitalismo, occorre “porsi nella prospettiva del divenire tecnico, sociale, organizzativo, relazionale, del lavoro organizzato”. Una prospettiva (antilavorista) che può essere vista solo se si assume come punto di osservazione quello del rifiuto del lavoro, per esprimere il disaccordo verso la subalternità del tempo di vita rispetto a quello lavorativo soggetto alla regola del salario e ai tempi e ritmi della catena di montaggio12. Bifo nota come le lotte operaie degli anni ’60 e ’70 sulla questione della riduzione dell’orario di lavoro, rappresentano “lo sforzo di recuperare temporalità autonome e congeniali al desiderio singolare o collettivo, sottraendo il ritmo dell’esistenza quotidiana alla temporalità disciplinata che il capitale tenta di imporre” (65) attraverso la costrizione lavorativa e il ricatto del salario.
Se, per Bifo le riviste operaiste costituiscono la nascita teorica del composizionismo, la rivolta di Piazza Statuto del luglio 1962, a Torino, ne sancisce quella storica. In stretta relazione con la nascita del composizionismo c’è quella dell’autonomia operaia. A Piazza Statuto esplode la prima manifestazione violenta e insubordinata di una classe operaia che si dimostra in quel momento estremamente differente da quella del decennio precedente. È la nascita dell’autonomia perché è indipendente dalle rappresentanze operaie tradizionali e si manifesta proprio nella città più industrializzata d’Italia. Ma l’evento è basilare perché denota un “interesse operaio allo sviluppo [del capitale], ma anche estraneità rispetto alle forme politiche che lo sviluppo si dà”. Da Piazza Statuto, con la nascita del composizionismo e, con esso, dell’autonomia operaia (che ne è una diretta conseguenza) viene segnato l’inizio di una nuova fase nella realtà operaia in Italia.
Per comprendere a fondo la novità apportata da Bifo con la lettura in chiave composizionista delle lotte operaie, bisogna tornare alla scolastica marxista e si deve partire dalla contraddizione prevista tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione. La contraddizione è il disavanzo che si crea tra le condizioni operaie e lo sviluppo (tecnologico, economico, ecc.) che il capitale acquista grazie alla classe operaia. Il capitale migliora per via della classe operaia (aumenta la produttività del lavoro vivo), ma quest’ultima non beneficia di questo miglioramento che ha fortemente contribuito a creare; da qui nasce la contraddizione. Questa contraddizione porta in sé (ontologicamente) la possibilità e la capacità di superare e rovesciare il modello di produzione capitalistico. Questo scenario è del tutto interno alla scolastica marxista, Bifo parte dalla contraddizione ma nota come il concetto di “forze produttive” risulti essere superato. La classe operaia viene identificata come pura forza produttiva e viene dunque ridotta a oggetto, una variabile dipendente e passiva nella storia del capitale, ma Bifo nel suo approcciarsi alla classe operaia applica la “rivoluzione copernicana” introdotta da Tronti13, ossia la pone al centro dello sviluppo capitalistico come motore negativo del capitale e, allo stesso tempo, ne espande le caratteristiche dicendo che “il concetto di ‘forze produttive’ cancella lo spessore di cultura, di esistenza, di desiderio, di repressione, che sta dentro la composizione di classe operaia” (72).
Nell’analisi di Bifo la classe operaia diventa un soggetto molto più articolato, dotata di una “socialità autonoma” e di cui non bisogna tralasciare la tradizione e la cultura. Inoltre la classe operaia è una classe desiderante, i cui desideri e le cui aspettative vengono delusi dal capitalismo che non mantiene le promesse fatte instaurando il mito della società dei consumi e del benessere e, inoltre il capitalismo, tramite l’organizzazione statale risponde alle contestazioni in maniera violenta e repressiva. Di conseguenza la classe operaia continua il suo percorso di allontanamento divenendo “portatrice di un’intenzionalità autonoma, non necessariamente individuabile in forma politica, né in forma sindacale od economica” (72). Questa autonomia porta la classe operaia a non avere più bisogno di una figura volontaristica “esterna”, come possono essere le dimensioni sindacali, partitiche o avanguardiste14.
La reazione del capitale: il passaggio dal fordismo al post-fordismo e la sconfitta del movimento e della classe
Nelle lotte operaie degli anni ’60 e ’70 l’utopia composizionista del rifiuto del lavoro e della tendenziale abolizione del lavoro salariato apparve come una prospettiva possibile. “Quel progetto era realistico se si considerano le potenze del sapere e della società, ma il suo pieno sviluppo, richiedeva l’emancipazione dell’attività produttiva dal paradigma della crescita, e l’instaurazione di un modello egualitario e frugale in aperto conflitto col modello capitalista e col paradigma dell’espansione infinita, profondamente radicato nella cultura moderna” (9-10). La riduzione del lavoro al minimo indispensabile e la liberazione delle energie della società dal vincolo del salario avrebbe richiesto la rottura del dominio del capitale, ma “per ragioni culturali e politiche la soggettività sociale non è riuscita a portare a compimento quella possibilità, questo è un fatto” (10).
Le lotte operaie degli anni ’60 e ’70 hanno determinato una crisi dell’accumulazione e della funzione di controllo dello Stato capitalistico, ma il capitale non si è limitato ad una reazione difensiva e repressiva. Ha messo in moto un intenso lavorio di trasformazione dell’intero sistema di produzione intorno alla funzione tecnologica che ha ridefinito il rapporto tra lavoro e capitale, che ha modificato profondamente la composizione organica del capitale, che ha aumentato a dismisura la produttività del lavoro vivo e ha flessibilizzato al massimo la relazione tra lavoro vivo e lavoro morto. Il capitalismo ha dimostrato di non essere un sistema fondato sulla conservazione, ma sulla rivoluzione permanente. Nella crisi del sistema industriale fordista, determinata dalle lotte operaie, il capitale e la politica hanno preparato la controrivoluzione (de)regolativa neoliberista delle politiche pubbliche (il libertarismo di destra), basata sul primato del profitto e dell’individualismo metodologico egocentrico (“la società non esiste, esistono solo gli individui” diceva la signora Thatcher, gli individui-massa), sulla libertà dei mercati e sulla regola della competizione generalizzata (la guerra di tutti contro tutti)15, e la rivoluzione informatica e dell’automazione dei processi produttivi che si dispiegheranno pienamente a partire dai primi anni ’80 e consentiranno al capitale di globalizzarsi alla ricerca di lavoro a buon mercato. Dopo la sconfitta della classe operaia e del movimento, il capitale mette in moto un gigantesco processo di destrutturazione dell’autonomia della composizione di classe basato sull’espulsione in massa di forza-lavoro, che è proseguito fino alla fine degli anni ‘9016. Il capitale “rimane assolutamente implicato nel processo di ricomposizione del lavoro sociale che, in quegli anni, passa attraverso la sussunzione dell’intelligenza all’interno del processo lavorativo immediato, passa attraverso la formalizzazione e matematizzazione estrema del lavoro esecutivo, e quindi la sua algoritmizzazione e automazione, e sostituzione tecnologico-informatica” (145).
Nella seconda metà degli anni ’70, mentre il movimento imbocca la strada del leninismo e della controffensiva militare (con la lotta armata) per poi subire la repressione da parte dello Stato (con la persecuzione giudiziaria dell’inchiesta del 7 aprile 1979 basata sul “teorema Calogero” che criminalizza l’intera area dell’autonomia), derive che porteranno alla sua cocente sconfitta, Bifo sottolinea che: “solo mantenendo la sua evoluzione politica strettamente organica alle trasformazioni interne della composizione tecnica e culturale del lavoro sociale complessivo, il movimento avrebbe potuto creare le condizioni politiche per attraversare la lunga epoca di trasformazione post-industriale” (146) e darsi forme stabili di contropotere organizzato.
Rompendo questa organicità (a parte il tentativo compiuto dal movimento politico, sociale, culturale, esistenziale del 1977; si veda: Bianchi S. e Caminiti L., Settantasette. La rivoluzione che viene, DeriveApprodi, Roma 2004), “il movimento si consegnò ad una deriva soggettivista che lo trasformò in un residuo. Residuo del conflitto operai-capitale in via di esaurimento, residuo delle forme rivoluzionaristiche novecentesche, residuo di una concezione dialettica incapace di cogliere la complessità che si andava disegnando oltre l’orizzonte della crisi” (146).
A partire dagli anni ’80, Bifo ha riflettuto molto sullo sviluppo dell’intelligenza coordinata e della tecnologia digitale come moltiplicatore della potenza dell’uomo associato e al tempo stesso come motore di prospettive future inquietanti (la tecnologia può funzionare come elemento di controllo o come elemento di liberazione dal lavoro). L’informatica, premessa e fondamento dell’intero rivolgimento produttivo in corso, rappresenta il punto di arrivo e il compimento della matematizzazione del mondo. L’informatica porta a compimento la storia del rapporto tra intelligenza e lavoro, con l’uomo che ha sviluppato l’intelligenza tecnica per ridurre il lavoro (il tempo e lo sforzo necessari per produrre gli oggetti necessari alla sopravvivenza). Ma ora l’altra faccia della potenza produttiva delle tecnologie digitali (per arrivare fino all’odierna intelligenza artificiale) è il lavoro povero precarizzato (con alcuni che lavorano anche quindici ore al giorno facendo doppi o tripli lavori per arrivare a fine mese) e la disoccupazione di massa nei Paesi occidentali e l’espansione di gigantesche periferie proletarie miserabili e sottoposte a sfruttamento inumano nei Paesi del sud del mondo.
Alla creazione di una società cablata ha corrisposto finora l’emergenza di virulenti fanatismi di ogni genere. Uno scisma si è diffuso nell’umanità planetaria: “retrofascismo della maggioranza residuale, e virtualizzazione di una minoranza cablata che decide sul piano finanziario, economico, politico” (24). Il retrofascismo (l’integralismo identitario e religioso, il nazionalismo, il populismo, il suprematismo e razzismo17) è la reazione al vuoto che si scatena nella fase del capitalismo virtuale. L’informatizzazione è la condizione tecnica dello scioglimento del tempo di vita dalla forma del lavoro salariato, ma questa condizione non si compie, anzi mette in moto processi di involuzione, di paura, di crisi economica, di dipendenza, di insicurezza e di miseria. “Il fatto è che la materialità dello sviluppo tecnologico digitale si svolge entro un contesto paradigmatico che è quello ereditato dalla storia del capitalismo industriale, e il modello paradigmatico informa le strutture stesse della tecnologia, modella le interfacce tecno-sociali, e permea le condizioni culturali, cognitive e psichiche entro le quali l’innovazione si determina” (25). Perciò, in stretta consonanza con la teoria critica della Scuola di Francoforte, il tardo-capitalismo si contraddistingue per un evidente totalitarismo morbido (la “postdemocrazia” e la “democrazia illiberale”) e una colonizzazione delle coscienze attraverso una artificiosa produzione di nuovi bisogni e consumi (in un’apoteosi continuata del feticismo delle merci a basso o nullo valore d’uso).
Informatizzazione, globalizzazione, finanziarizzazione e mediatizzazione. L’informazione può spostarsi in ogni punto del globo, e il processo produttivo può così flessibilizzarsi all’infinito. La fluidità della circolazione del valore nel sistema rete del capitale virtualizzato richiede, però, come condizione essenziale, una separazione dei piani: il circuito virtuale (finanziario, mediatico, produttivo) produce effetti nella materialità del pianeta, delle popolazioni, delle culture, ma non deve assolutamente esserne a sua volta influenzato. “La compartimentazione di questo universo sigillato che è il pianeta globalizzato comporta la residualizzazione della società vivente. La connessione dell’intelligenza comporta, come complemento indispensabile, la decerebralizzazione della maggioranza residualizzata dell’umanità. In questa maggioranza residuale decerebrata si diffondono effettivamente comportamenti demenziali. Riterritorializzazioni aggressive reagiscono disperatamente alla deriva vertiginosa e caotica della deterritorializzazione, all’incombere spaventoso di immaginarie catastrofi” (26). Comportamenti demenziali perché “l’intelligenza è stata interamente succhiata e sussunta dalla macchina astratta dell’infoproduzione” (220).
Nella nuova introduzione al libro, Bifo rimane convinto che grazie all’intensificazione della produttività, all’espansione del sapere tecnico e alla sua applicazione ci sia sempre la possibilità di una riduzione del lavoro al minimo indispensabile e di una liberazione delle energie della società dal vincolo del salario, che si trasformi in processo organizzato consapevole di fuoriuscita dal regime dello sfruttamento. “L’alternativa all’attualizzarsi di quella possibilità è il mondo in cui viviamo: caos della catastrofe climatica, del collasso nervoso e della guerra, oppure totalitarismo dell’automa cognitivo. O forse tutti e due, l’automa e il caos, in un abbraccio mortifero” (10).
Negli anni ’90, sono emerse due prospettive divergenti ma contestuali: “la trasformazione tecno-sociale promossa dall’avvento dell’elettronica di rete, e l’involuzione culturale che prendeva forme identitarie, razziste e fasciste. L’innovazione tecnica legata all’utopismo visionario della Silicon Valley, da un lato. Il ritorno del nazionalismo e della guerra in Yugoslavia dall’altro” (11).
In quegli anni, Bifo, come tanti altri intellettuali ed analisti, ha continuato a ritenere che la battaglia per una transizione paradigmatica fosse ancora aperta. Che la potenza della scienza e della tecnica stessero materializzando in una figura sociale che incarnava l’intelligenza tecnico-scientifica e sfruttava competenze comunicative e creatività: il “cognitariato” (knowledge worker) o “proletariato cognitivo” che “portava in sé, modificata, la forza produttiva della classe operaia” e che avrebbe potuto realizzare la propria autonomia e quindi avviare la grande sostituzione dell’uomo nelle funzioni alienate del lavoro con macchine intelligenti.
Da questo punto di vista, le conclusioni di Bifo riguardo alla paradossale rivoluzione “anarco-capitalista” della Net Economy sono amare. “Oggi, nel terzo millennio del Ventunesimo secolo pare evidente che l’ingegnere, o piuttosto l’intero ciclo del lavoro cognitivo, è stato incapace di autonomia dal comando del capitale. La possibilità di liberazione del tempo dalla schiavitù capitalistica non si è determinata perché la potenza soggettiva è mancata per ragioni storiche, politiche, culturali. Queste ragioni si possono sintetizzare in pochi punti: precarizzazione del lavoro, privatizzazione integrale della vita, cattura dei corpi e del linguaggio da parte della macchina connettiva digitale. E naturalmente subalternità culturale e tradimento politico della sinistra, strumento della corruzione neoliberale” (12). Il lavoratore cognitivo non è diventato il nuovo soggetto sociale che lotta per la liberazione dal lavoro salariato e lo sviluppo liberatorio della cooperazione sociale18, ma il nuovo lavoratore salariato su cui si basa il “capitalismo della sorveglianza” descritto da Shoshana Zuboff. “Il moderno si è concluso senza liberare la potenza produttiva dell’intelletto generale dalla forma distruttiva dell’astrazione capitalistica” (13), questa la conclusione amara di Bifo.
La composizione tecnica del capitale è cambiata in senso semio-cognitivo, e i lavoratori cognitivi hanno avuto la funzione trainante nell’accumulazione di capitale. Il “proletariato cognitivo” globalizzato non ha saputo esprimere l’organizzazione autonoma per liberare la potenza produttiva dal dominio astratto del capitale. Neoliberismo, privatizzazione della sfera pubblica, precarizzazione del lavoro sono seguiti alla sconfitta operaia e hanno trasformato la sconfitta in una condizione permanente. Come nota Gigi Roggero (Per la critica della libertà, DeriveApprodi, Roma 2023:41) “anziché essere riappropriato dal lavoro vivo e soggettivarsi, il general intellect si è oggettivato in ‘un sistema automatico di macchine messo in moto da un automa’ [citazione dal Frammento sulle macchine di Marx], espropriando capacità e possibilità di sovversione”.
Le conseguenze politiche di questa sconfitta sono forse ancora più amare. Nei Paesi occidentali (e non solo), la classe operaia di fabbrica è stato il ceto sociale che maggiormente ha contribuito alla vittoria di partiti apertamente razzisti e nazionalisti nell’ultimo decennio. D’altra parte, la produzione di merci fisiche non è affatto scomparsa e per effetto della globalizzazione del mercato del lavoro la classe operaia di fabbrica si è allargata enormemente (è stata creata una sorta di catena di montaggio algoritmica planetaria), cambiando il panorama economico e sociale di vaste regioni del mondo, ma – nota Bifo – al tempo stesso “ha perduto autonomia culturale e capacità di auto-organizzazione, e al tempo stesso ha perduto la coscienza di avere una funzione universale” (14). L’internazionalismo proletario era basato sulla coscienza che gli sfruttati hanno dovunque lo stesso interesse: più salario e meno lavoro. “Ora la fine dell’internazionalismo proletario è una tragedia che rischiamo di pagare con l’estinzione della specie”. “Il nazismo di ritorno in tutto il pianeta è prima di tutto nazional-operaismo della razza bianca”.
La classe operaia è sprofondata nelle conseguenze dalla sconfitta: “solitudine, competizione tra lavoratori precari, umiliazione culturale, rabbia impotente, e per finire desiderio di vendetta che si esercita contro i più deboli dato che i padroni si sono fatti invisibili e inattaccabili. Le condizioni salariali sono peggiorate, e la solitudine politica si è trasformata in rancore e aggressività contro un nemico fittizio ma visibile, i migranti, gli stranieri” (14).
Il fronte del lavoro è sempre meno un fronte, sempre più un mosaico di frammenti che non riescono a ricomporsi in soggetto politico. “Si sono poste così le condizioni per un ritorno massiccio dello schiavismo e per la guerra civile globale, senza limiti di spazio e tempo, senza universalismo e senza speranza” (15). Grazie ad un capitalismo rimasto apparentemente senza antagonisti sociali il mondo è sempre più attanagliato in una policrisi di carattere ambientale, bellico, economico, politico e sociale che mette a rischio l’esistenza umana sul pianeta.
Cosa fare quando apparentemente non c’è più niente da fare? A questa domanda Bifo ha provato a rispondere in un altro libro – Disertate (Timeo, Palermo 2023) – offrendo quella che lui considera la sola risposta possibile ormai: disertare. Scappare. Nascondersi. Perché quando si fugge non ci si limita a fuggire, ma si mette in moto una dinamica compositiva e di formazione di una soggettività autonoma antagonista e militante, perché si trovano complici, affinità, si creano legami, nuove idee e, perché no?, nuove armi con le quali difendersi collettivamente da un mondo sempre più diseguale e inumano.
Alessandro Scassellati
- Il titolo era mutuato da un articolo scritto da Giorgio Bocca agli inizi del 1979 su La Repubblica che imputava alle concezioni operaiste di essere state la matrice ideologica degli anni di piombo.[↩]
- Franco Berardi Bifo (1949), attivista culturale e filosofo (allievo di Luciano Anceschi), cresce in una famiglia della piccola borghesia bolognese di sinistra (il padre è maestro elementare, iscritto al sindacato e al PCI) e inizia il suo percorso politico-culturale iscrivendosi alla FGCI a quattordici anni (e viene cooptato come segretario cittadino degli studenti medi della federazione comunista bolognese), da cui viene espulso nel 1967 con l’accusa di frazionismo “perché avevo distribuito un volantino che finiva con le parole ‘osare pensare, osare parlare, osare agire, osare fare la rivoluzione’, che era uno degli slogan della rivoluzione culturale [cinese]” (si veda qui e qui). Nel ’66 ha cominciato a lavorare con la redazione emiliana di Classe Operaia, cioè con Potere Operaio (PO) che si stava formando in Veneto ed Emilia, facendo interventi nelle fabbriche del territorio. Nell’autunno del 1969 si sposta a Milano, dove fa intervento alla Autobianchi di Desio e all’Alfa Romeo di Arese. Partecipa al movimento studentesco bolognese come militante del Collettivo di Filosofia di Bologna (ne diviene il portavoce insieme a Stefano Bonaga) e, al tempo stesso, partecipa alle riunioni nazionali e locali di PO. Sempre nel 1969, aderisce a La Classe, il giornale fortemente voluto da Oreste Scalzone, che vuole raccogliere in pieno l’eredità lasciata da Tronti con Classe operaia. All’interno di PO Bifo è sempre stato fautore di un’impostazione di tipo spontaneista, da agitatore anarcosindacalista, interessato soprattutto al tema del rifiuto del lavoro salariato e convinto della necessità di una separazione organizzativa (“la spontaneità dei movimenti operai contiene il massimo di radicalità e anche di generalità”; 73). Il movimento si dà le proprie forme di organizzazione e il gruppo o la struttura politica PO non deve essere un’organizzazione, ma un nucleo di elaborazione teorica, cioè il luogo nel quale un certo numero di persone provenienti dalle esperienze più differenti elabora ipotesi, teorie, che poi avrebbero trovato la verifica politica nel movimento. Secondo Bifo, PO non si doveva sovrapporre in qualche modo al movimento. Fu proprio sul problema dell’organizzazione che il suo rapporto con PO entrò in crisi, nel momento in cui prevalse la linea leninista (la bolscevizzazione, con il tentativo di PO di trasformarsi in partito di quadri e di costituirsi come un nucleo di soggettività esterno rispetto al movimento con l’ambizione di dirigerlo sul piano politico), fortemente voluta dalla componente romana e da Toni Negri, che Bifo giudica “un errore politico” che non consentì di difendere “il patrimonio di autonomia accumulato, e renderlo produttivo, culturalmente e socialmente” (68). Dopo il convegno di Firenze del gennaio 1970 il rapporto con PO si raffredda, cresce la distanza, e al congresso dell’EUR del luglio 1971 Bifo esce dall’organizzazione. Nel frattempo, aveva pubblicato il libro Contro il lavoro (1970) che si riferiva soprattutto alla discussione interna a PO ed aveva un carattere esplicitamente antileninista, contrario alla svolta leninista prima e armata poi. Pur mantenendo rapporti amichevoli con alcuni dei leader di PO (Toni Negri, Oreste Scalzone e Nanni Balestrini, nella cui casa di Roma passa un periodo di latitanza nel 1971), si iscrive a Lotta Continua (che continuava a proporre una concezione spontaneista e movimentista dell’organizzazione) e all’inizio del 1972 viene arrestato, subito dopo la morte di Feltrinelli, nell’ambito delle indagini. Rimane in carcere per sei mesi e nell’estate del ’72, per alcuni mesi si sposta a Francoforte dove fa lavoro politico con gli operai italiani e tedeschi della Opel di Russelsheim. Pubblica l’opuscolo Classe operaia multinazionale in cui tenta di riproporre un percorso di autorganizzazione non leninista a livello internazionale, partendo dai circuiti spontanei di movimento degli operai immigrati. Nel 1973, insieme alla sua compagna, si trasferisce a Torino dove segue tutta la fase finale della lotta contrattuale alla Fiat e poi l’occupazione di Mirafiori. Seppure il suo rapporto con PO non avesse più il carattere organizzativo, i suoi amici erano tutti militanti di PO per cui viveva e faceva lavoro politico con loro. Convinto che la questione del rapporto tra avanguardia e movimento non dovesse essere una funzione di direzione politica, ma quella di un elemento di circolazione culturale e di informazione, inizia un percorso che, passando per la rivista A/traverso (dal maggio 1975, che riprende i temi dello spontaneismo operaista pre-convegno di Firenze; si veda: Chiurchiù L., La rivoluzione è finita abbiamo vinto. Storia della rivista “A/traverso”, DeriveApprodi, Roma, 2017), lo porterà a dare vita alla bolognese Radio Alice (esplosa tra il ’76 e il ’77), vista come uno strumento teso ad alimentare un processo di autorganizzazione del movimento giovanile e di classe del marzo 1977. A quel punto autorganizzazione sociale significava non solo guardare alla fabbrica, ma anche al lavoro mentalizzato (il lavoro tecnico-scientifico), alla vita quotidiana, alla forma dei rapporti urbani, al rapporto tra classe o tra proletariato giovanile e l’ambiente urbano. Bifo venne percepito come il teorico degli “indiani metropolitani” del ’77, l’ala creativa (“desiderante”) del movimento dell’autonomia fuori dalla tradizione leninista, l’alternativa all’ala armata e violenta del movimento (dalle formazioni terroristiche come le Brigate rosse o Prima Linea fino all’Autonomia operaia organizzata) che trascinò il movimento “verso posizioni di radicalismo anticonformista che, in nome di un anacronistico leninismo, hanno determinato la distruzione dell’eredità sociale e culturale che i movimenti avevano accumulato” e che invece avrebbe consentito di “dar vita a una società autonoma dentro e contro la società capitalistica” (68), di immaginare una forma compiuta “di esodo culturale organizzato” (28). Il tentativo di fondare un movimento di collettivizzazione della vita quotidiana, di proliferazione di esperienze micro-politiche di autorganizzazione, equivaleva al tentativo di cercare di realizzare uno sbocco libertario del post-fordismo (una sorta di “post-fordismo dal basso”), ma andò incontro al fallimento quando si ebbe la clamorosa vittoria del capitale sul lavoro. Colpito da un mandato per “istigazione di odio di classe per mezzo radio” (a seguito della torsione repressiva imposta dal ministro degli Interni Francesco Cossiga), riparò a Parigi, dove ebbe modo di frequentare Felix Guattari e Michel Foucault. Tornato in Italia, collabora con molte riviste tra cui DeriveApprodi, alfabeta2 ed anche il giornale di Rifondazione Comunista “Liberazione”. Autore di numerosi saggi sulle trasformazioni del lavoro e sui processi comunicativi, tradotti in più lingue. Tra questi ricordiamo: Mutazione e cyberpunk. Immaginario e tecnologia negli scenari di fine millennio (1994); Neuromagma. Lavoro cognitivo e infoproduzione (Castelvecchi, Roma 1995/2013); Il sapiente, il mercante, il guerriero. Dal rifiuto del lavoro all’emergere del cognitariato (DeriveApprodi, Roma 2004); Dopo il futuro. Dal futurismo al cyberpunk. L’esaurimento della modernità (DeriveApprodi, Roma 2013); La nonna di Schäuble. Come il colonialismo finanziario ha distrutto il progetto europeo (Ombre Corte, Verona 2015); L’anima al lavoro. Alienazione, estraneità, autonomia (DeriveApprodi, Roma 2016); Quarant`anni contro il lavoro (DeriveApprodi, Roma 2017); Futurabilità (Nero Editions 2018); Fenomenologia della fine (Nero Editions 2020) E: la congiunzione (Nero Editions 2021; Il terzo inconscio (nottetempo, Milano 2022).[↩]
- Per la ricostruzione storica della vicenda di Potere Operaio si vedano: Balestrini N. e Moroni P., L’orda d’oro 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, a cura di Bianchi S., Feltrinelli, Milano 2005 (1988); Grandi A., La generazione degli anni perduti. Storia di Potere operaio, Einaudi, Torino 2003; Grandi A., Insurrezione armata, Bur, Milano 2005; Scavino M., Potere operaio, La storia. La teoria. Vol. 1, DeriveApprodi, Roma 2018.[↩]
- Il pensiero di parte operaista aveva visto fin dal principio gli studenti come settore della forza-lavoro complessiva: “forza-lavoro in formazione, espropriata del suo proprio sapere tanto quanto gli operai di fabbrica sono espropriati del prodotto del loro lavoro”(46). Quella fra operai e studenti non fu una “alleanza” tattica fra diversi soggetti sociali, bensì la presa di coscienza di un lavoro cognitivo che, da un lato, rifiutava il proprio assoggettamento in fabbrica, dall’altro aspirava a conquistare una nuova qualità della vita affermando la propria autonomia dal capitalismo e dalla guerra. Si deve a Toni Negri la formulazione della teoria del passaggio dall’operaio massa all’operaio sociale, alla cui base c’era una concezione della storia della classe operaia “come una successione di figure egemoni”, che si susseguono dopo ogni ristrutturazione produttiva indotta dalle lotte operaie: dall’operaio professionale (di mestiere) all’operaio massa, fino all’operaio sociale. Negri ritenne che il ciclo di lotte operaie degli anni ‘60 aveva sancito l’incompatibilità del soggetto operaio massa con le istanze dell’organizzazione produttiva fordista. Questo aveva comportato il passaggio dallo Stato-piano keynesiano del welfare state allo Stato-crisi che si afferma attraverso le politiche dell’austerità e un processo di ristrutturazione produttiva, che aveva disgregato la figura dell’operaio massa attraverso il decentramento produttivo. Con il capitalismo post-fordista, secondo Negri si realizzò un’estensione della cooperazione produttiva a tutta la società, facendo emergere la fabbrica diffusa e l’operaio sociale, una figura che esprime la sua soggettività antagonistica al di fuori della fabbrica, nella società, e in cui rientravano tutti quei soggetti sociali (studenti, donne, proletariato urbano, emarginati, lavoratori precari dei servizi) che non potevano essere ricondotti al profilo dell’operaio massa, ma che tuttavia vivevano sulla propria pelle le contraddizioni e i disagi della ristrutturazione post-fordista del capitalismo. Negli anni ’90, Negri riaggiornò la teoria dell’operaio sociale attraverso il confronto con Deleuze e Spinoza, elaborando la categoria di “moltitudine”, per cui il lavoro vivo (divenuto lavoro immateriale, sempre più intellettuale, astratto e biopolitico, con la vita trasformata ora interamente in lavoro) non ha i tratti del popolo, dell’unità coesa, ma rifugge l’unità politica, non stringe patti, non trasferisce diritti, recalcitra all’obbedienza, non converge in unità sintetica, ma condivide il general intellect. La moltitudine è pensata come comunità non sostanziale e non rappresentabile di coloro che non si sentono a casa propria.[↩]
- “Riviste-gruppi” animate da intellettuali come Mario Tronti, Raniero Panzieri, Romano Alquati, Toni Negri, Alberto Asor Rosa, Massimo Cacciari, Franco Piperno, Paolo Virno, Sergio Bologna, Christian Marazzi, Luciano Ferrari Bravo, Rita Di Leo, Lapo Berti e altri che si sono occupati soprattutto delle dinamiche economiche, politiche, sociali e culturali messe in moto dall’ondata di lotte operaie che sconvolse l’Italia e il mondo occidentale a partire dagli anni ‘60. Si vedano: Mezzadra S., “Operaismo”, in Esposito R. e Galli C. (a cura di), Enciclopedia del pensiero politico. Autori, concetti, dottrine, Laterza, Bari 2000:497-498; Tronti M., Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma, 2009; Trotta G. e Milana F., L’operaismo degli anni Sessanta. Da “Quaderni rossi” a classe operaia, DeriveApprodi, Roma 2008; Bologna S. e Daghini G., Maggio ’68 in Francia, DeriveApprodi, Roma, 2008; Gobbi R., Com’eri bella classe operaia. Storie, fatti e misfatti dell’operaismo italiano, DeriveApprodi, Roma, 2023 [↩]
- La conricerca è una pratica d’intervento qualitativo che, ponendo il ricercatore militante sullo stesso piano del soggetto indagato, annulla la figura separata dell'”avanguardia“, tanto cara alla logica della sinistra tradizionale, e consente di riformulare orizzontalmente e circolarmente il rapporto teoria-prassi-organizzazione. La conricerca è un rapporto sociale e politico non formalizzabile in metodo che permette di leggere, anche nei periodi di passività, i segnali della conflittualità a venire, l’organizzazione informale e le ambivalenze costitutive che si collocano nello scarto tra composizione tecnica (articolazione oggettiva della forza-lavoro) e composizione politica della classe. La conricerca produce quindi effetti nello stesso momento in cui viene costruita collettivamente, poiché è uno spazio ove la soggettività dei con-ricercatori e dei ricercati si può esprimere. Si tratta quindi di un’attività che permette di costruire nuove possibilità, nuove piste di lavoro. Si veda: Palano D., Il bandolo della matassa. Forza lavoro, composizione di classe e capitale sociale: note sul metodo dell’inchiesta, Intermarx, gennaio 2000.[↩]
- Bifo cita come un esempio di questo metodo il saggio di Romano Alquati, Forza lavoro e composizione di classe all’Olivetti I/II (Quaderni Rossi, n. 2, 1962:63-98; n. 3, 1963:121-185), che costituisce il primo lavoro sistematico di lettura dei processi tecnologici della produzione in relazione alle trasformazioni interne alla composizione operaia. Di Alquati si vedano anche Capitale e classe operaia alla Fiat: un punto medio del ciclo internazionale (1967) e Sulla Fiat e altri scritti (Feltrinelli, Milano 1975). Alquati è stato un instancabile ricercatore militante, attivista politico e intellettuale, analista della soggettività, dei processi di soggettivazione e della composizione di classe. Si vedano: Alquati R., Camminando per realizzare un sogno comune, Velleità alternative, Torino, 1994 e Per una storia di classe operaia (Intervista a cura di Giuseppe Trotta), in Bailamme, n. 24/2, 1999:173-205.[↩]
- Secondo Bifo, all’interno di PO la separazione tra una componente leninista e una componente spontaneista, che definisce “composizionista”, era per lui già chiara nel ‘70-’71 e divenne definitiva alla fine del 1975. Bifo ha lavorato per un periodo alla redazione della rivista Rosso, ma ruppe nel dicembre. L’occasione della rottura è stata un corteo femminista nel dicembre del ’75 a Roma nel quale si introdussero il servizio d’ordine dell’Autonomia Operaia di Centocelle e il servizio d’ordine di Lotta Continua che pretesero di entrare nel corteo femminista. Ci fu un piccolo scambio di insulti e anche qualche schiaffone. Bifo era in redazione a Rosso e chiuse il giornale scrivendo in prima pagina “Attacco squadrista contro un corteo femminista di militanti dell’Autonomia”. La cosa provocò uno scontro violentissimo con Daniele Pifano, Miliucci e anche con Negri. Dopo di che Bifo considerò concluso il suo rapporto con Rosso, abbandonò la redazione, e considerò concluso il suo rapporto con l’Autonomia organizzata milanese, padovana e romana. Sulla rivista Rosso si veda: De Lorenzis T., Guizzardi V. e Mita M., Avete pagato caro. Non avete pagato tutto. La rivista Rosso (1973-1979), DeriveApprodi, Roma, 2007.[↩]
- Il lavoro di Jean Paul Sartre era stato importante, per tutti gli anni ’50, perché aveva messo sotto accusa il dogmatismo della scolastica marxista, aveva contrapposto alla rigidità deterministica del materialismo dialettico la prospettiva umanistica della libertà e dell’esistenza. Sartre aveva anche posto l’accento sull’emergente consapevolezza del lavoro intellettuale, anche se non in una prospettiva produttiva e sociale.[↩]
- Bifo ammette, però, che il passaggio paradigmatico ha tempi diversi rispetto ai tempi delle potenzialità tecnologiche e produttive del general intellect, per cui il modello capitalistico funziona come “gabbia paradigmatica” che imprigiona l’attività e l’intelligenza nelle forme del salario, della disciplina, della dipendenza. “Il passaggio paradigmatico si impiglia nei tempi lenti della cultura, delle abitudini sociali, delle identità costituite, delle relazioni di potere, e della regola economica dominante. Il capitalismo come sistema culturale ed epistemico, oltre che economico e sociale, semiotizza le potenzialità macchiniche del sistema postindustriale secondo linee paradigmatiche riduttive. L’eredità dell’epoca moderna, con tutta la sua ferraglia industriale, ma anche con tutta la ferraglia delle sue abitudini mentali, dei suoi immaginari di competizione e di aggressività, pesa come un ostacolo insormontabile, impedendo il dispiegarsi di una prospettiva di redistribuzione e di progressiva estensione del lavoro salariato” (57). Per spiegare questa impasse, Bifo richiama il concetto di “doppio legame” introdotto da Gregory Bateson e da Paul Watzlawick.[↩]
- Allo stesso tempo, Bifo rileva come Tronti, pur centrando in pieno il nuovo umore della classe operaia e l’evoluzione dell’alienazione in qualcosa di diverso, tenti di veicolarle per condurre la lotta di classe da una posizione esterna, avanguardista, leninista (“rifiuto attivo e collettivo, rifiuto politico di massa, organizzato, pianificato” in prassi rivoluzionaria). Quindi lo spontaneismo della classe operaia viene trovato utile solo se guidato da un partito o da un’organizzazione volontaristica con abilità strategiche e tattiche.[↩]
- D’altra parte, nota Bifo, che nell’epoca digitale il lavoro di trasformazione fisica della materia è diventato così astratto (privo di ogni relazione con il carattere concreto dell’attività) da divenire inutile: le macchine possono virtualmente sostituirlo per intero. Ma contemporaneamente inizia il processo di sussunzione del lavoro mentale nel processo produttivo, e dunque il processo di riduzione del lavoro mentale medesimo ad astrazione di attività.[↩]
- Tronti ha introdotto una “rivoluzione copernicana” che ha cambiato la prospettiva tra il capitale e la classe operaia, ossia non è più il capitale a spiegare tutto ciò che è dietro di lui, ma la classe operaia a spiegare il capitale. Se per le tradizionali organizzazioni comuniste la lotta di classe nasce come risposta al capitalismo, per Tronti (e per tutta la corrente operaista che ne deriva) l’interpretazione è completamente differente: “Abbiamo visto anche noi prima lo sviluppo capitalistico, poi le lotte operaie. È un errore. Occorre rovesciare il problema, cambiare il segno, ripartire dal principio: e il principio è la lotta di classe operaia. A livello di capitale socialmente sviluppato lo sviluppo capitalistico è subordinato alle lotte operaie, viene dopo di esse e a esse deve far corrispondere il meccanismo politico della propria produzione” Tronti, M., Operai e capitale (Einaudi, Torino 1966:89; DeriveApprodi, Roma 2013). Nella concezione di Tronti, lo sviluppo delle “forze produttive” era visto come reazione e conseguente alle lotte operaie, invertendo il rapporto tra capitale e classe operaia così come era sempre stato concepito dalla tradizione marxista.[↩]
- Intervenendo al convegno di Firenze di PO nel 1970 come rappresentante della sezione bolognese di PO, Bifo si era espresso già in toni composizionisti: “che la strategia è tutta nella classe, questo è l’assunto da cui la ricerca è partita ed è ripartita e deve ritornare per poter ulteriormente andare avanti. Strategia sono i grandi movimenti che dentro le masse avvengono, il trasformarsi del proletariato in classe operaia, l’emergere oggettivo di centri di direzione politica di coagulo della lotta dentro il tessuto generale della classe. La strategia è il modo in cui il lavoro vivo si compone e organizza la classe operaia, rifiuta sé stesso come forza-lavoro, costringe il capitale a subire il dispotismo della sua organizzazione. Strategia è questo processo che si svolge e si realizza”. Il concetto fondamentale è quello per cui, mentre nell’opzione leninista c’è una guida esterna della classe secondo una linea politica stabilita dal gruppo in questione, nell’opzione composizionista i militanti si mettono al servizio della classe da una prospettiva interna e con una linea politica condivisa con la classe operaia.[↩]
- Il neoliberismo ha fatto rivivere l’etica conservatrice del lavoro, che dice ai lavoratori che devono ai loro datori di lavoro un incessante duro lavoro e un’obbedienza incondizionata in cambio di salari (sempre più bassi; si veda il mio articolo qui). Dice ai datori di lavoro che hanno il diritto esclusivo di governare i propri dipendenti e di organizzare il lavoro per il massimo profitto. E dice allo Stato di rafforzare l’autorità di questi datori di lavoro attraverso leggi che trattino il lavoro come nient’altro che una merce. Per rafforzare la mercificazione del lavoro, l’etica conservatrice del lavoro impone allo Stato di ridurre al minimo l’accesso dei lavoratori alla sussistenza da fonti diverse dal lavoro salariato, compresi i beni forniti dal pubblico, l’assicurazione sociale e le prestazioni sociali. I neoliberisti definiscono la loro posizione in termini di preferenza “libertaria” per ordinamenti di mercato “volontari” rispetto all’azione statale, lasciando presumibilmente gli individui liberi di perseguire la propria concezione del bene. A prima vista, differiscono leggermente a questo riguardo dai sostenitori originali dell’etica del lavoro conservatrice, come Joseph Priestley e Jeremy Bentham, che sottolineavano la necessità di imporre un’unica visione del bene – l’etica del lavoro – ai lavoratori pigri e imprudenti. Ma queste opinioni sono solo due facce della stessa medaglia. I sostenitori dell’etica conservatrice del lavoro come Edmund Burke e Thomas Malthus sostenevano alla fine del XVIII secolo, come fanno oggi i neoliberisti, che il lavoro è una merce propriamente soggetta alle leggi del mercato. I conservatori hanno reso esplicito ciò che i neoliberali oggi lasciano implicito: i mercati del lavoro sono i canali attraverso i quali la maggior parte dei lavoratori cade sotto il governo dei loro datori di lavoro, che impongono loro la disciplina dell’etica del lavoro. Il neoliberismo quindi non si caratterizza in termini di libertà individuale all’interno del mercato. Invece, può essere visto come un governo fatto da e per gli interessi del capitale: dalle imprese e dai ricchi detentori di capitali e proprietà. La dottrina neoliberista del capitalismo azionario – l’affermazione secondo cui l’unico scopo dell’impresa è massimizzare i profitti (Milton Friedman) – è semplicemente un’altra implementazione del governo da e per gli interessi del capitale. Durante la rivoluzione industriale, i proprietari terrieri e i capitalisti usarono il loro potere per accaparrarsi la ricchezza a spese degli altri attraverso pratiche come recinzioni, monopoli, affitti a prezzo fisso, colonie private concesse dallo Stato e usura. Oggi, le politiche neoliberiste autorizzano numerose pratiche commerciali di sfruttamento simili, tra cui la monopolizzazione, i prestiti predatori, la distruzione dei sindacati, la retrocessione dei dipendenti a lavoratori temporanei (gig workers) e vari schemi di private equity che minano l’assistenza sanitaria, l’assistenza veterinaria, le vendite al dettaglio, le testate giornalistiche, gli alloggi in affitto e numerosi altri settori sfruttando allo stesso modo lavoratori e consumatori.[↩]
- In un altro testo, Bifo riflette sui caratteri di questa transizione: “I lavoratori chiedevano libertà dalla prigione del lavoro a vita della fabbrica industriale, e la deregulation rispose attraverso la flessibilizzazione del lavoro e la frattalizzazione del lavoro. Il movimento di autonomia negli anni 70 mise in moto un processo pericoloso, ma indispensabile. Un processo che si sviluppò dal rifiuto sociale del dominio capitalista alla vendetta capitalista che prese forma di deregulation, libertà dell’impresa da ogni controllo statale, distruzione delle protezioni sociali, riduzione ed esternalizzazione della produzione, taglio della spesa sociale, detassazione, e, finalmente, flessibilizzazione. Il movimento di autonomia mise in moto effettivamente la destabilizzazione del contesto sociale uscito da un secolo di pressioni sindacali e di regolazione statale. Commettemmo noi forse un terribile errore? Dovremmo pentirci delle azioni di dissenso e di sabotaggio, di autonomia, di rifiuto del lavoro che sembrano aver provocato la deregulation capitalista? Assolutamente no. Il movimento di autonomia effettivamente anticipò la tendenza, ma il fenomeno della deregulation era iscritto nelle linee di sviluppo del capitalismo postindustriale, ed era naturalmente implicito nella ristrutturazione tecnologica della globalizzazione produttiva. C’è una stretta relazione tra rifiuto del lavoro, informatizzazione delle fabbriche, riduzione degli organici ed esternalizzazione delle commesse, e flessibilizzazione del ciclo complessivo del lavoro. Ma questa relazione è molto più complessa di quel che può essere una catena di cause e di effetti. Il processo di deregulation era iscritto nello sviluppo delle nuove tecnologie che permettevano alle corporation capitaliste di lanciare il processo di globalizzazione”.[↩]
- A questo proposito si veda il mio libro: Suprematismo bianco. Alle radici di economia, cultura e ideologia della società occidentale, DeriveApprodi, Roma 2023.[↩]
- Anche se ancora oggi qualcosa resta dell’autonomia del lavoro cognitivo: restano le reti di cooperazione che hanno consentito di mettere in piedi i circuiti del mediattivismo e restano i modelli di un’economia sostenibile – o se si vuole di un’economia del dono – che si intravedono attraverso le pratiche produttive della comunità del software open source o attraverso le pratiche di scambio gratuito di idee, saperi e conoscenze rese possibili dalle reti di file sharing.[↩]