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Il Paese che dovrebbe e non fa

di Marcello
Pesarini

Comincio ad essere stanco, per me e per gli altri, del nostro paese. È abitudine degli italiani essere esterofili, sostenere che l’erba del vicino è sempre più verde, tranne poi arroccarsi sulla bellezza dei luoghi, sulla bontà dei cibi e dell’aria e, come contraltare delle bellezze femminili, a glorificare “L’asta che dovrebbe sostenere la nostra bandiera”, citazione molto tragica da La pelle di Curzio Malaparte.
Così eravamo, così siamo, anche dopo la lezione impartitaci da Gino e Elena Cecchettin, padre e sorella di Giulia, vittima di femminicidio da parte dell’ex-fidanzato Filippo Turetta.
Chi scrive non riuscì a partecipare alle manifestazioni che seguirono agitando le chiavi né gridando slogan. È da un po’ di tempo che l’orizzonte della rivolta lo vedo da dietro una parete di vetro, trasparente ma invalicabile. Sono seguiti a quel 18 novembre numerosissimi femminicidi, prevedibili, annunciati, sottovalutati.
Qui non si grida “Al lupo, al lupo!” anche se i lupi non ci sono. Qui si mettono in dubbio l’efficacia di come le parole intelligenti ed umili, coraggiose e portatrici di dolore dei familiari di Giulia sono state fatte circolare da chi ci credeva, ma anche da chi non ci credeva, ed è riuscito a farle diventare un ritornello, sempre quello. Non è possibile per me che parole di accusa, di redenzione, di autocoscienza (ricordate il 68 e il 77, le parole delle donne per le donne?) invece di diventare campagne educative, stanziamenti per la presa in carico delle situazioni di disparità a partire dalle più accentuate, divengano sorelle dei decreti di Caivano e di campagne a favore della castrazione chimica, o forse in modo irridente, tema di pseudo-dibattiti.

Allarghiamoci al disagio sempre femminile ma anche maschile, delle nuove generazioni.

È doveroso leggerli assieme. Le correnti di pensiero sviluppatesi negli anni ’60 e ’70, in parallelo con la rimessa in discussione dei mezzi di produzione, della distribuzione delle ricchezze, con il nuovo desiderio di democrazia, di partecipazione, avevano portato anche alla chiusura dei manicomi con Basaglia nel 1978 e era stata messa in forte discussione la tendenza a medicalizzare i disagi. Mi sento di affermare sulla scorta di quelle lontane esperienze che, proprio riguardo ai giovani, già così fragili prima della pandemia, l’approccio medico non deve essere riduttivo e portare a discolpare l’organizzazione della società.
Il rischio del Progetto “Educare alle relazioni” per la scuola del Ministro dell’Istruzione e del Merito (!!??) Giuseppe Valditara, sarebbe così di affidare il lavoro solo alle equipe di psicologi, con conseguente settorializzazione degli interventi che avalli approcci solo curativi e non politici, cioè rivolti alla collettività nel suo complesso.
È del mese di settembre la decisione dell’Ordine degli psicologi della modifica dell’articolo 24, che riguarda il consenso informato sanitario nei confronti delle persone adulte capaci e l’art. 31, che riguarda i minori. In questi passi avvertiamo il rischio della corsa verso la medicalizzazione “specializzata”, staccata dal resto della società e sollevandola dai suoi compiti.
Come le battaglie di lunga durata delle femministe rischiano ogni volta di rimbalzare contro il muro dell’omertà e mancata presa di coscienza maschile ma anche governativa, amministrativa, così queste “specializzazioni” che si allontanano dall’organizzazione della società costituiscono un pericolo.
Il disagio giovanile è la triste realtà che ha preso molti nomi, tutti punti esclamativi che permettevano forse di classificare gli aspetti numerici ma non di inserirli nella società circostante.

Parlo di baby-gang, di bullismo, di social bullismo, di degrado alla Caivano (punta dell’iceberg di abbandono scolastico), poi di sessismo a scuola, all’università, fino allo straniamento da Covid e la difficilissima riemersione. Quando poi i giovani si organizzano per assumersi in maniera continuativa l’emergenza ambientale e smascherano lo scandalo affitti e quello di A&B, mettono in atto elementi di critica al male esistente, dando vita ad embrioni di lotta di classe, allora interviene (interveniva pure prima) la polizia, si creano nuovi reati di danneggiamento scolastico, come gli stessi si creano in carcere addirittura contro chi rifiuta il cibo per protestare.

Vorrei nominare quanto successo ad Ancona il 17 febbraio ma senza eccessiva enfasi, perché ci sono episodi che hanno l’onore della cronaca ed altri no, ma tutti sono importanti.
Nella mattinata di sabato, allo scoccare dell’intervallo, uno studente di 14 anni cade dalla finestra. Si salva dopo un volo di 10 metri grazie all’erba umida che attutisce il colpo. In TV preside e professori si affrettano ad assicurare che il suo rendimento scolastico è buono. Prima c’è il dubbio, poi si chiarisce che è stato lui a buttarsi. Una psicologa si reca alla scuola a prendere il figlio a fine orario e, trovandosi in mezzo a tale situazione, tenta di far respirare i compagni di classe del ragazzo, facendo fuoruscire paura, sgomento, stupore, non comprimendolo dannosamente.
Ci riesce, e nel frattempo appare un 2 a seguito di un’interrogazione in matematica. La psicologa viene intervistata e mette in luce l’insicurezza di una generazione, a tratti troppo protetta, a tratti troppo stressata da ansie di prestazione. Ansie, qui riprende la parola chi scrive, che riflettono il mondo dei genitori e dei professori, stretti da una burocrazia che forse deriva anche da tentativi di tutelare diritti e differenze, ma che spesso disumanizza e rende sterile tutto ciò che c’è attorno.

Nei giorni seguenti abbiamo assistito a goffi tentativi di smentite da parte dell’istituto, che sosteneva che il voto non era stato registrato. Il quotidiano Corriere Adriatico di lunedì 19, che aveva raccolto la prima intervista, ha respinto duramente questa mossa. Ad oggi 24 febbraio si è parlato di istigazione al suicidio da parte dell’insegnante, di psicologi che debbono affiancare l’insegnamento ed intersecarsi coi genitori(era nei programmi ministeriali), di ispettori ministeriali in arrivo.

La rivista Pressenza, International Press Agency, Redazione Marche, ricorda che ogni giorno un ragazzo o una ragazza tenta il suicidio. Intervengono il Comitato Genitori Democratici, purtroppo ad oggi manca la FLC CGIL, come molta parte della società civile.

Siamo qui per segnalare lo stacco fra la vita di tutti i giorni e la sua rappresentazione nella stampa, nei media, nei social e di conseguenza l’inazione. Per ora si è parlato di provvedimenti, non so quanto siano stati rassicurati gli studenti che lo chiedono nella rivista, che ne hanno mostrato necessità tante volte. Di certo se da tutte le parti si è detto che la generazione in corso sia sotto una  pressione inusitata, sarebbe rischiosissimo non far seguire agli allarmi delle azioni, continuative e misurarne gli effetti a scadenze precise.
Nulla a che vedere con la sollecitudine della Polizia che ieri 23 febbraio a Pisa ha caricato duramente i giovani studenti che manifestavano a favore della Palestina, e nei giorni precedenti si è macchiata degli stessi comportamenti.

L’Italia resta più che mai il Paese che dovrebbe e non fa, che enumera i suoi mali, istruisce nuove categorie, nuovi reati che al momento, invece di rassicurare o invertire una tendenza di non comunicazione, ha solo aumentato gli episodi di malessere come i suicidi e il numero di minorenni reclusi in istituti penali minorili da 341 ad oltre 500.
Questa la realtà, che dovrebbe mettere in moto genitori, insegnanti, politici e sindacati perché i cittadini di domani sono già troppo inquinati per potersi depurare da soli.

Marcello Pesarini

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