Le immagini dei colpi del maltempo sull’Italia nord occidentale, dove le precipitazioni cadute ammontano a metà della media annuale, dove i fiumi hanno allagato paesi e città strappato le strade che scorrevano nel fondo valle lungo i corsi d’acqua, hanno rinverdito le cronache della lunga serie di disastri che si accompagna allo sviluppo del paese dal dopoguerra, man mano che il suolo viene mangiato da una cementificazione dissennata. Il cambiamento climatico aggrava la dimensione e la frequenza dei fenomeni atmosferici e dà il colpo di grazia agli equilibri idrogeologici del nostro paese. Il riscaldamento globale rende precario il rifornimento idrico alle campagne ed alle città.
Ci si rappresenta plasticamente uno dei caratteri fondanti del modello di sviluppo del nostro paese, vizio originale dello sviluppo del dopoguerra, incapace di fare i conti con i caratteri del territorio nazionale: l’equilibrio idrogeologico, la mappa sismica, le dinamiche atmosferiche che concentrano inquinanti e precipitazioni.
Il territorio nazionale è composto in gran parte dalle cosiddette ‘Aree Interne’, territori fragili, distanti dai centri principali di offerta dei servizi essenziali e troppo spesso abbandonati a loro stessi, che però coprono complessivamente il 60% dell’intera superficie del territorio nazionale, il 52% dei Comuni ed il 22% della popolazione, circa 13 milioni e mezzo di abitanti1. Queste aree hanno subito un drastico e costante spopolamento dovuto in primo luogo alla carenza di servizi, infrastrutture e posti di lavoro. Su queste aree i ‘disastri naturali’ hanno colpito duro ed hanno portato al fatto che – come ci ricorda il primo ministro Conte- “forse non ce ne siamo accorti, ma dal 2014 ad oggi abbiamo dichiarato lo stato di emergenza 154 volte, lo abbiamo prorogato per 84 volte”2.
Siamo di fronte ad uno dei caratteri fondanti la formazione sociale italiana, le fortissime disparità interne, che a partire dalla polarizzazione nord-sud, fin dai tempi in cui lo sviluppo economico era concentrato nel cosiddetto ‘triangolo industriale’, si sono poi trasformate nei decenni in una mappa a pelle di leopardo, pur mantenendo macro-differenze tra livello regionale ed aree urbane.
L’evoluzione sociale ed economica del nostro paese è contrassegnata da un succedersi di fasi diverse, dall’impetuoso sviluppo industriale ed urbano del dopo guerra, attraverso un decennio di straordinario conflitto sociale, di riforme e miglioramento delle condizioni di vita delle classi subordinate, seguito dalla restaurazione ed infine dalla stagnazione complessiva in cui stiamo vivendo, in un epoca caratterizzata invece dal succedersi di ondate di innovazione tecnologica che trasformano profondamente ogni formazione sociale.
L’innovazione tecnologica ha un carattere pervasivo, le tecnologie digitali trasformano ed informano le filiere produttive ed i legami sociali. Questa pervasività che provoca tanto omologazione culturale quanto diversificazione e polarizzazione di opinioni e di comportamenti, si è accompagnata nel nostro paese in una ulteriore accentuazione delle diseguaglianze, in particolare tra l’area metropolitana milanese ed altre aree collegate nelle filiere tecnologiche ed il resto del paese, che nel suo complesso appare come un’area di consumo di prodotti e servizi che hanno la loro origine altrove.
Parametri come la percentuale di popolazione attiva, di occupazione femminile, di occupazione giovanile -quest’ultima in termine di quantità e qualità- il livello di scolarizzazione o gli investimenti nella ricerca, per citare alcuni parametri che andiamo ad approfondire, non sono cambiati in modo significativo quando non sono peggiorati. La qualità dello sviluppo si manifesta in modo esemplare da un lato nel decremento demografico solo in parte contenuto dalla regolarizzazione della popolazione immigrata e dall’altro dall’emigrazione delle nuove generazioni. In particolare nella parte più qualificata.
Il livello complessivo della attività economica italiana non si era ancora risollevata dai colpi della crisi del 2008-2011 quando è stata colpito duramente dagli effetti della pandemia di cui si devono ancora misurare le dimensioni della incombente ‘seconda ondata’.
Nel seguito analizziamo alcuni caratteri particolarmente significativi della formazione sociale italiana, necessariamente in estrema sintesi, con riferimento ai dati forniti da documenti di istituzioni come l’ISTAT, la Banca d’Italia, CNR e Parlamento, dove si possono ritrovare grafici e tabelle citate che omettiamo per non appesantire il testo.
Lo stato della ricerca in Italia
Nel 2018 l’intensità di R&S è stata pari all’1,39 % del PIL. La spesa pubblica per R&S è in calo dal 2013, e nel 2018 ha raggiunto lo 0,5 % del PIL, il secondo livello più basso tra i paesi dell’UE-15. Sebbene la spesa per R&S delle imprese sia in aumento negli ultimi anni (nel 2018 ha raggiunto lo 0,86 % del PIL), il livello rimane nettamente al di sotto della media dell’UE (1,41 %). Di conseguenza, il numero di ricercatori ogni mille persone attive occupate dalle imprese è pari solo alla metà della media UE (2,3 % contro 4,3 % nel 2017). Dal 2017 gran parte della crescita della R&S è attribuibile all’attività di nuove imprese che investono in R&S, mentre è rimasta stabile la spesa delle imprese che presentavano già buoni risultati per quanto riguarda la R&S. I dati preliminari per il 2019 indicano un aumento della spesa privata per R&S.
(…)
Il Sud è in ritardo in termini di ricerca, sviluppo e innovazione. La spesa più elevata per la ricerca e lo sviluppo in percentuale del PIL si registra nell’Italia settentrionale. Le regioni che ottengono i migliori risultati (Piemonte, Emilia Romagna e la provincia autonoma di Trento) spendono in ricerca e sviluppo oltre il triplo rispetto alla regione con le prestazioni peggiori, la Calabria (0,52 % del PIL). Tra le regioni italiane si registrano ampie differenze anche in termini di occupazione nei settori ad alta tecnologia. Nel 2017 oltre la metà dei datori di lavoro nei settori ad alta tecnologia era ubicata nel Nord Italia, il 28,4 % nel Centro e solo il 15,2 % al Sud.
(…)
Oltre i due terzi della spesa in R&S risulta concentrata in cinque regioni. Nel 2017, la classifica delle
regioni che spendono di più in ricerca e sviluppo resta stabile rispetto all’anno precedente. Il 68,1% della spesa totale (68,0% nel 2016), pari a 16,2 miliardi di euro, è concentrato in cinque regioni (Lombardia, Lazio, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto). Con riferimento al settore delle imprese, tale quota supera il 75% (76,1% nel 2016).3.
Dalla “Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia” del CNR si ricava quanto segue rispetto ai finanziamenti europei alla ricerca.
L’analisi compiuta mostra (Tabella 1.1) che l’Italia continua ad essere un partecipante attivo nel primo triennio di Horizon 2020 (2014-2017), conseguendo l’8,1% dei finanziamenti, anche se ancora a notevole distanza dai maggiori paesi europei quali Germania (16,4%), Regno Unito (14,0%) e
Francia (10,5%). Da segnalare, inoltre, che la Spagna, con il 9.8%, ha conseguito maggiori finanziamenti dell’Italia. Prosegue quindi la nota situazione in cui il nostro paese contribuisce con il 12,5% al bilancio complessivo dei Programmi Quadro UE-28, ma riesce ad ottenere finanziamenti pari a solo l’8.7% (Tabella 1.3).”
È indubbia l’importanza dell’inserimento dei centri di ricerca nelle reti internazionali, a tal proposito si verifica un fenomeno che è tipico dell’evoluzione di tutti i sistemi rete ossia la nascita di hub che concretano su di sé un numero crescente di relazioni.
“In altre parole, le organizzazioni che già hanno posizioni di rilievo nelle collaborazioni internazionali tendono a mantenerle e a rafforzarle; le organizzazioni che non vantano tradizioni di partecipazione ai Programmi Quadro hanno vincoli in entrata molto onerosi. Pertanto, la debolezza dell’Italia passa anche attraverso la geografia della sua partecipazione: una concentrazione elevata in poche organizzazioni prevalentemente localizzate nel Nord, capaci di inserirsi e permanere al centro di reti di relazioni, ma molte organizzazioni che invece restano escluse.4
Commercio estero
Negli anni recenti l’Italia ha beneficiato in misura molto minore rispetto alle altre economie dell’area dell’euro della forte crescita nel commercio internazionale delle attività del terziario: nel 2018 il valore delle esportazioni di servizi era inferiore al 6 per cento del Pil, contro l’8,3 in Germania, il 9,3 in Francia e il 10,5 in Spagna.
La composizione delle esportazioni di servizi del nostro Paese, inoltre, è molto diversa rispetto a quelle di Francia e Germania, con una prevalenza – come in Spagna – dei servizi di viaggio e una scarsa rilevanza delle attività a maggior contenuto di conoscenza.
Produttività
Complessivamente, nel 2018, l’Italia ha registrato in media d’anno un lieve calo della produttività oraria del lavoro (-0,1 per cento). Tuttavia, il divario di crescita accumulato in un quindicennio nei confronti di quasi tutte le principali economie europee (Figura 1.9) è particolarmente ampio: secondo i dati Ocse, tra il 2000 e il 2016 la produttività oraria del lavoro è aumentata dello 0,4 per cento in Italia, di oltre il 15 per cento in Francia, Regno Unito e Spagna, del 18,3 per cento in Germania, del 25,6 per cento negli Stati Uniti, del 18 per cento in Giappone.
Valore aggiunto
Come indice dell’andamento complessivo dell’economia possiamo prendere l’andamento del ‘Valore aggiunto’ a prezzi correnti. Dati ricavabili con le elaborazioni costruito con l’applicazione I.stat disponibile sul sito istat.it con cui si possono selezionare i dati da estrarre dai Conti Nazionali im base a parametri scelti.
2009 | 2010 | 2011 | 2012 | 2013 | 2014 | 2015 | 2016 | 2017 | 2018 | 2019 |
1.425.156,9 | 1.449.430,4 | 1.480.874,8 | 1.458.006,7 | 1.451.514,3 | 1.462.744,6 | 1.488.049,0 | 1.522.753,8 | 1.557.795,8 | 1.589.263,1 | 1.603.736,0 |
Dal Rapporto Annuale 2020 dell’ISTAT5 ricaviamo quanto segue.
“La crisi del 2011-2013 ha determinato una profonda ristrutturazione del sistema produttivo italiano attraverso un ampio processo di selezione delle imprese; la successiva fase di ripresa ciclica, culminata nel 2017, non ha tuttavia consentito un pieno recupero delle caratteristiche precedenti, ed è stata seguita da un biennio nel quale l’economia italiana ha registrato una sostanziale stagnazione, crescendo nel complesso di circa l’1 per cento. Appare quindi interessante confrontare le principali peculiarità del sistema al culmine della fase espansiva con quelle prevalenti a cavallo delle due precedenti recessioni.
Cambiamenti strutturali del sistema produttivo tra il 2011 e il 2017
Durante gli anni della ripresa ciclica (2014-2017) il sistema delle imprese2 non aveva del tutto ricostituito la base produttiva persa durante la prolungata recessione del periodo 2011-2014 (Tavola 4.1). Nel 2017 le imprese attive in Italia erano ancora quasi 80mila in meno rispetto a quelle operanti nel 2011 (-1,7 per cento), gli addetti erano oltre 125mila in meno (-0,7 per cento) e il valore aggiunto complessivo era dell’1,9 per cento inferiore a quello di sette anni prima. (…)
Sul piano dimensionale emergono differenze altrettanto marcate, con una evidente divaricazione tra le piccole imprese (meno di 50 addetti), il cui peso si è ridotto, e quelle di medie e grandi dimensioni (Figura 4.1). Nel periodo considerato, il segmento di unità con meno di 10 addetti ha perso quasi il 2 per cento di imprese (circa 77mila unità), il 4,2 per cento di addetti (oltre 330mila individui) e oltre il 10 per cento del valore aggiunto, mentre le piccole imprese (10-49 addetti) hanno mostrato una sostanziale stabilità. Risalta, invece, come nel 2017 le medie e le grandi imprese avessero superato i livelli di base produttiva, occupazione e valore aggiunto dell’inizio della precedente recessione. (…)
Questi mutamenti possono avere conseguenze rilevanti qualora la selezione recida legami stabili tra le imprese. In un sistema produttivo frammentato come quello italiano, infatti, la capacità di generare crescita è correlata anche, in misura sostanziale, alla capacità delle imprese di attivare relazioni produttive con altre unità o istituzioni.”
Un paese ‘dis-integrato’
Quando si dice “In un sistema frammentato come quello italiano…” si concentra l’attenzione su un carattere fondante della formazione sociale italiana, la frammentazione, che approfondisce il tema delle diseguaglianze e rende conto della difficoltà di indurre in essa cambiamenti sistematici, trasformazioni profonde e cambi di passo. La descrizione del contesto è riferita alle opportunità delle imprese, ma descrive la incapacità di stabilire relazioni non solo con le imprese ma in generale con altri soggetti ‘istituzioni’ del paese. Non esistono vettori di integrazione siano essi il conflitto sociale, l’innovazione tecnologica, la capacità di intervento dello stato nella redistribuzione della ricchezza, nella garanzia delle condizioni di vita dei cittadini in termini di reddito e servizi essenziali dalla scuola alla sanità.
Riflettendo sulla assenza del conflitto sociale come motore di trasformazione dei rapporti il pensiero va inevitabilmente sul ruolo del sindacato ovvero sul non ruolo, sulla sua accettazione passiva degli effetti della ristrutturazione delle filiere produttive sul piano nazionale e globale, che hanno prodotto una frammentazione della composizione di classe. Nel campo delle organizzazioni sindacali e politiche -che potevano avere una qualche pretesa di rappresentare gli interessi dei lavoratori e delle classi subordinate in genere- non c’è stato alcun tentativo, se non in casi sporadici, di ricomporre il conflitto su nuove basi con uno sforzo soggettivo, come sempre in periodi di radicale trasformazione è stato necessario fare, ma di questo tanto già si è detto e molto di più si dovrà ragionare.
D’altro canto la qualità della ‘classe imprenditoriale’ è nel suo campo analoga per quanto riguarda la capacità e l’ambizione di produrre un disegno unitario e strategico di sviluppo del paese e delle proprie filiere economiche, in questo assecondata da una classe politica che negli ultimi 30 anni altro non ha fatto che deprezzare il valore del lavoro ed ha rinunciato in buona sostanza a guidare il paese.
A completamento di questo quadro l’accettazione supina dei vincoli regressivi imposti dai patti fondanti l’Unione Europea ha costretto il paese ha muoversi entro una sorta di ‘gabbia d’acciaio’ che ne ha ridotto drasticamente i gradi di libertà.
C’ è stato un momento in cui i caratteri dello sviluppo italiano è stato studiato come un modello che poteva essere seguito da altri paesi, ed è stato quello del capitalismo diffuso, dello sviluppo dei distretti produttivi, della messa al lavoro delle relazioni sociali dei territori della valorizzazione di quello che è stato definito il ‘Capitale Sociale’, su cui c’è abbondante letteratura. E’ stato il confluire delle energie sociali, dei processi di integrazione, di miglioramento delle condizioni di vita, prodotto da un lungo processo di emancipazione concentratosi in un decennio di conflitto sociale, con il recupero di specializzazioni territoriali, con la frammentazione e diffusione dei cicli produttivi delle grandi imprese. Con il contributo non irrilevante delle istituzioni amministrative e finanziarie locali.
Si è trattato di un processo che è poi andato incontro alla selezione ed alla concentrazione nella rete delle imprese, imposta dalla necessità di alti livelli di investimento e di innovazione tecnologica. In questo è mancato ‘intervento strategico dello stato e delle istituzioni finanziarie. In ogni caso non potevano essere qualche migliaio di medie imprese a guidare la trasformazione del paese nella dissoluzione del sistema delle grandi imprese, salvo poche eccezioni, e del ruolo trainante in alcuni settori dell’industria di stato.
La retorica delle start-up è tale -nonostante il fiorire di nuove imprese nella ‘città infinita’ in cui si è evolutala metropoli milanese ed in poche altre aree- proprio per la mancanza di un supporto da parte di una strategia nazionale dello stato e del sistema finanziario. La ‘crescita dal basso’ non è sufficiente per la mancanza di ua strategia complessiva e di centri di promozione adeguati, il livello degli investimenti nella ricerca lo stanno a testimoniare.
La necessità di assunzioni di massa nella sanità, nella scuola e nella pubblica amministrazione in generale -qualificata e specificata seguendo i bisogni di governo del territorio e di sviluppo sociale- è evidente, ma rimanda ad una ridefinizione, ad un ridisegno di tutti i servizi forniti, come ha dimostrato nel campo della sanità la diversa capacità di risposta alla pandemia Covid-9 dei sistemi sanitari regionali (la cui differenziazione è di per sé un assurdo). L’intervento è necessariamente quantitativo e qualitativo. La trasformazione digitale dei sevizi della P.A procede in ordine sparso e non è integrata in una pianificazione e ridefinizione complessiva dei servizi. La digitalizzazione non si realizza semplicemente implementando sui dispostivi informatici e sulle reti digitali lo stato di cose esistente e prevede uningresso di nuove professionalità che vanno formate.
In buona sostanza dalle sintetiche considerazioni fatte finora risulta la mancanza di un centro, di più centri coordinati tra loro a cui sia imputata la mobilitazione della società nel suo complesso verso una grande trasformazione del nostro Paese, suscitare energie sociali e governarle, quanto sarebbe richiesto dalle opportunità prospettate dall’arrivo dei fondi del Recovery Fund.
Facciamo riferimento al termine della mobilitazione di energie sociali anche perché nel frattempo si dovrebbero – il condizionale è d’obbligo- esprimere solidarietà estese e trasverali per reggere questa tremenda fase dovuta al blocco delle attività per la pandemia, a cui nella migliore della ipotesi succederà unfase di recupero molto parziale.
La realtà del paese dis-integrato non depone a favore dell’attivarsi di queste solidarietà e della cpacità di risollevarsi e di risollevarsi assieme, ma certo non ci daremo per vinti. Quanto poi chi sia il ‘noi’ di questa affermazione e tutto da capire e da coatruire.
- https://www.agenziacoesione.gov.it/strategia-nazionale-aree-interne/[↩]
- http://www.governo.it/it/articolo/emergenza-covid-19-comunicazioni-del-presidente-conte-parlamento-la-replica-al-senato/14995[↩]
- Ricerca, sviluppo e innovazione – Camera dei Deputati – 6 luglio 2020[↩]
- Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia – Analisi e dati di politica della scienza e della tecnologia – Seconda Edizione Ottobre 2019[↩]
- Rapporto Annuale 2020 La situazione del Paese – cap. 4.1.1 Cambiamenti strutturali del sistema produttivo tra il 2011 e il 2017[↩]