articoli, recensioni

Il mito del deficit

di Esteban
Rojo

È possibile rivoluzionare
i rapporti di produzione esistenti
e i rapporti di distribuzione
ad essi corrispondenti
mediante una trasformazione
dello strumento di circolazione?
(Karl Marx)

In otto densissimi capitoli, e per oltre 400 pagine, Stephanie Kelton intende fornirci la soluzione a quasi tutti i mali che affliggono le società contemporanee, compreso il vandalismo capitalistico sulla natura.
La soluzione consiste nell’indossare le lenti della moderna teoria monetaria (MMT), che è pari alla rivoluzione copernicana (p. 24), e con la quale ogni problema acquista nuova luce ai nostri occhi. Lasciamo riposare in pace il buon Niccolò e passiamo immediatamente ad illustrare quest’illusione.

Presupposti, vincoli e speranze

Fate attenzione – dice Kelton – ciò che vi dirò vale solo in un regime di cambi flessibili in cui la moneta deve essere assolutamente fiduciaria (corso forzoso/legale senza valore intrinseco). Occorre un’ultima condizione, affinché la sovranità monetaria si manifesti: la moneta deve essere accettata fiduciariamente anche negli scambi internazionali, o detto altrimenti, sia mezzo di pagamento internazionalmente riconosciuto. E subito il cileno, il nigeriano, il vietnamita, (e tanti altri miliardi di esseri umani sulla Terra) esclamano: e noi? Guai a voi, anime prave! Non isperate mai veder lo cielo… sembra rispondere Kelton!
Qualsiasi lettore potrà già comprendere che la MMT è un vestito cucito da un sarto sul corpo degli Stati Uniti. Nonostante la fatica del sarto, essa si rivela ad uno sguardo più approfondito una vera mistificazione. E la ragione, per la quale tale teoria non risulta implementata dai governi monetariamente sovrani, non risiede come crede Kelton, nel fatto che siamo imprigionati in vecchi schemi di pensiero, ma risiede in quei rapporti di produzione e scambio che l’autrice nemmeno sfiora, se non incidentalmente quando incontra l’unico problema della MMT: l’inflazione.

Adesso fate nuovamente attenzione – continua Kelton – dovete sapere che al mondo esistono solo due tipi di soggetti: coloro che emettono la moneta e coloro che la utilizzano. Per dirla diversamente, Kelton ci esorta ad abbandonare quell’abito mentale che vede lo Stato come una famiglia. Lo Stato emette la moneta e quindi non può mai rimanerne a secco, mentre la famiglia utilizza la moneta: nessuno si stampa i biglietti in garage, è vietato. Allora nell’economia esiste un solo soggetto che non ha vincoli alla propria spesa (lo Stato) mentre tutti gli altri (compresi gli Stati senza sovranità monetaria) devono prima guadagnarsi la moneta attraverso un lavoro o un prestito e soltanto dopo possono spenderla.
Fissati i presupposti affinché si abbia sovranità monetaria, e compreso che il mondo si divide tra emettitori ed utilizzatori di moneta, tutto il resto segue liscio come l’olio. E il deficit, il debito, la disoccupazione, l’inquinamento, le guerre e il welfare? Risolto, almeno per il paese vestito dal sarto. Infatti, ora che indossiamo le lenti della MMT, vediamo che lo Stato può spendere senza preventivamente incassare, quindi non ci sono limiti al pagamento delle pensioni, al rifacimento delle strade, alla cura dei malati, all’istruzione dei cittadini, al rifacimento dei margini dei fiumi, e così via. Ma la MMT riconosce che in effetti non è che si possa stampare moneta all’infinito, i limiti reali ci sono e dobbiamo tenerne conto. Non si possono comprare mele che non esistono, non si possono comprare veicoli ancora da costruire. Allora quando la spesa dello Stato (che non va incontro a limiti finanziari, perché crea la moneta che spende) incontra i limiti della realtà economica, allora, e solo in questo caso, si genera una pressione inflazionistica: troppa moneta per poche merci. Un corollario della MMT è che l’inflazione non può generarsi finché ci sono risorse non completamente utilizzate. Vedete la novità copernicana? Eppure, la signora Stagflazione ci ha già visitato, anni or sono, dicendo al signor Phillips che le cose non stanno così!

Adesso il lettore comprenderà anche perché esistono le tasse e l’indebitamento pubblico – continua Kelton – servono allo Stato per ritirare dal settore privato la moneta in eccesso che vi ha immesso erroneamente generando inflazione. Infatti, se lo Stato spende troppo, relativamente ai vincoli reali, si genera inflazione, allora ha la necessità di ridurre la capacità di spesa del settore degli utilizzatori di moneta: tasse e indebitamento sono due modi per ritirare la moneta immessa in eccesso.
Ma la spesa interna in consumi e investimenti, che sia finanziata dalla stampa di moneta dello Stato o procurata dal duro lavoro dei salariati, non si riversa anche su beni di provenienza estera? Ciò non comporta un problema di bilancia commerciale? Niente problemi – afferma Kelton – se importiamo di più di quanto esportiamo stiamo solo consumando merci straniere stampando la nostra moneta che gli altri accettano in pagamento. Il deficit della bilancia commerciale non trova limiti (tranne l’inflazione), così come il deficit del bilancio pubblico: lo Stato con sovranità monetaria può stampare tutta la moneta che vuole sia per fare scuole che per importare noci di cocco.
Ma come mai fino ad oggi una simile visione del sistema economico non era venuta in mente a nessuno? Perché, dice Kelton, fino ad oggi eravamo legati a dei vincoli: la moneta era merce o convertibile in merce (oro), i tassi dei cambi tra le valute erano fissi (Bretton Woods), e il pensiero ragionava anch’esso vincolato alla specificità storica del momento. Fu solo con la rivoluzione (l’unica che Kelton gradisce) di Nixon, nel 1971, che con il tempo e faticosamente ci si è liberati del vecchio abito mentale, così nel 1998 sono stati licenziati i vecchi sarti e si è assunto il nuovo (W.B. Mosler). Nonostante questa liberazione mentale e questa nuova visione, Kelton lamenta, portando molte prove e testimonianze nel suo libro, come ancora risulta difficile implementare questo toccasana, e come in nessun luogo esso sia all’opera. Più avanti si vedrà che ciò non corrisponde a realtà.
Siamo di fronte ad un atteggiamento non nuovo: quando la realtà non si adegua alla teoria, è la realtà che sbaglia; se solo i politici facessero ciò che è indicato nel “Mito del deficit”, tutto andrebbe per il meglio.

I secchi dall’esterno

Kelton descrive, aiutandosi con disegnini didatticamente molto utili, come i flussi finanziari si muovono da un settore (secchio pubblico) all’altro (secchio privato).

deficit pubblico -10 = surplus privato +10

Questa identità contabile è sempre vera, ma trattasi di una identità, non di una relazione di causa effetto, cioè non possiamo dire: il saldo finanziario del settore pubblico determina il saldo finanziario del settore privato o viceversa. Possiamo solo limitarci ad osservare cosa è avvenuto: a) direzione e b) ammontare dei flussi finanziari. Nell’esempio di cui sopra possiamo affermare che i flussi si sono mossi dal settore pubblico (che li perde, deficit) verso il settore privato (che li acquisisce, surplus) e che il loro ammontare è 10.
Quindi i deficit del settore pubblico sono i surplus di quello privato e viceversa. Per Kelton, il deficit pubblico è positivo per la collettività, il surplus pubblico (austerità) è negativo. Seguiamone il ragionamento.
Un deficit pubblico di 10 equivale ad un surplus privato di 10, ciò significa che lo Stato ha emesso moneta nell’economia (pagando la costruzione di un ponte: 100) più di quanta ne abbia ritirata sotto forma di tasse e indebitamento pubblico (90), quindi il settore privato si è arricchito di 10. Un surplus di bilancio pubblico (austerità) di 80, impoverisce il settore privato di 80, perché ha ritirato moneta dall’economia, in tasse e indebitamento, più di quanta ne abbia immessa assumendo e pagando, per esempio, degli insegnanti.
Quindi, conclude l’autrice, si vede come la questione non è finanziaria (mancano i soldi) ma puramente politica (volontà o meno di realizzare certi programmi). Kelton ci informa che la volontà politica è legata mani e piedi alle disuguaglianze di reddito e patrimoni, e che questi divari minano al cuore le democrazie: la concentrazione in poche mani di un enorme potere economico finanziario permette di indirizzare l’attività dei Governi in funzione dei “ricchi” e che il resto dei cittadini non ha quasi più potere nelle sedi democratiche.

Questa constatazione avrebbe dovuto farla esitare, perché mina tutta la sua costruzione. Perché, se quelle differenze di potere svuotano la democrazia di qualsiasi possibilità per le classi subalterne di indirizzare la politica economica verso i propri obiettivi, delle due l’una: o Kelton spera in un nuovo “dispotismo illuminato” o alle classi subalterne non rimane che la rivoluzione. Invece prosegue imperterrita.
Ecco allora che appare lo Stato super partes, che lavora per l’interesse generale, guidato dai nuovi sacerdoti della MMT, depurato dai conflitti interni e dai “poteri forti”, e che potrà con la sua sovranità monetaria, porre fine ai molti problemi dell’esistenza umana e del pianeta.
Questa prospettiva non può che piacere a tutti coloro che hanno nel proprio animo la voglia di cambiare in meglio questo mondo. Contrariamente ai socialisti utopistici di un tempo, essi hanno ora a disposizione una teoria “scientifica” che sostiene le loro tesi politiche. Purtroppo, la MMT, è un passo indietro rispetto a quei bravi ragazzi dell’Ottocento, e per comprendere ciò occorre guardare dentro i secchi.

All’interno dei secchi

Cosa accade all’interno dei secchi non si comprende dalla descrizione dei flussi finanziari. Se ci concentrassimo sulla realtà dei secchi potremmo alla fine interpretare l’identità contabile che il loro reale movimento genera. Ciò che accade all’interno del settore privato, Kelton lo descrive bene in centinaia di pagine: disoccupazione, malattie incurate, homeless, ecc., ma non ci dice il perché, si limita a dire che un deficit del settore pubblico è un surplus del settore privato e che questo deficit pubblico è un bene se corrisponde al “giusto deficit”.

Ciò a cui l’autrice guarda sono i flussi, ma lo stesso medesimo flusso può dire cose molto diverse. Un deficit di bilancio pubblico corrisponde ad un surplus del settore privato, ma nel settore privato questo surplus può andare a finire nelle tasche di una sola classe e al limite di una sola persona. Quindi il flusso dal settore pubblico (deficit) verso il settore privato (surplus) può aumentare le disuguaglianze. Ecco che allora questo deficit non deve essere rivolto ad acquistare F35 ma a costruire scuole! Si passa così dalla beatificazione del deficit in sé e per sé, alla declinazione del deficit: così va bene e così va male. Dedica tutto un capitolo ai “deficit che servono”, a quelli giusti! Ecco la rivoluzione copernicana, si ritorna alla lassalliana ripartizione giusta! Ovviamente le diverse classi sociali avranno una loro specifica idea di cosa sia giusto, non trovate? E lotteranno affinché si generi il loro rispettivo deficit giusto!
Un surplus di bilancio pubblico (austerità: entrate maggiori delle spese) si rappresenta in un flusso di risorse dal settore privato allo Stato, e l’autrice conclude che il settore privato si impoverisce. Ma il settore privato non è un tutto omogeneo esso si articola in classi con loro specifiche funzioni, quindi, non sappiamo “chi” s’impoverisce. Un surplus di bilancio pubblico può essere il risultato di una tassazione esclusiva dei profitti. Quindi ciò che nel settore privato viene “impoverito” è una classe sola, mentre l’altra può tranquillamente continuare a godere dei servizi di sempre.
La sostanza è che i saldi finanziari dei settori (pubblico, privato ed estero, quest’ultimo per semplicità trascurato) sono identità contabili le cui grandezze vediamo ex post. Essi registrano la vita economica reale e la lotta tra le classi, i cui riflessi leggiamo nei deficit/surplus settoriali, ma da quest’ultima lettura, non possiamo ricavare nulla, potendo il medesimo risultato essere il frutto di realtà completamente differenti.

Nella realtà contemporanea, si sta tentando di fare ciò che la MMT indica: il mondo è inondato di liquidità, ma il cavallo non beve! Il fatto è che i secchi pur misurando un flusso di risorse verso il settore privato (deficit pubblici enormemente accresciuti dal 2008) quest’ultimo continua a languire dal lato dei proletari e ad accumulare ricchezza finanziaria dal lato delle élite!
La storia mostra che quando le classi al potere avvertono un pericolo per la loro stabilità e guida sulla società, tramite il loro Governo, iniziano a spendere più di quanto incassano, generando cioè deficit pubblici. Per esempio, nei Trenta Gloriosi in Italia (1945-1979), finché il settore privato procedeva a gonfie vele il bilancio dello Stato era in sostanziale pareggio. A partire dal 1968-70 cominciarono a formarsi deficit pubblici, cosicché risorse finanziarie travasarono nel secchio del settore privato, ma non a favore di tutte le classi! Sono le classi subalterne che ne godono i benefici, mentre le classi possidenti sono costrette ad accettare, almeno transitoriamente, questo travaso a loro danno.
Quando il quadro economico e sociale cambia (1980-2006), non appena la classe possidente riprende il pieno controllo nella società, allora riprende il pieno controllo anche sul versante politico. Il suo Governo, non è costretto a mediare con coloro che hanno perso la forza per farsi valere, inizia (decennio Ottanta) a disarmare le classi subalterne delle armi che si erano conquistate, e poi (dagli anni Novanta) con il rientro dei deficit pubblici e la generazione di surplus di bilancio (austerità) le impoverisce. Ora il surplus pubblico sottrae risorse al settore privato, ma questa volta a rimetterci sono i lavoratori, che perdono quei flussi finanziari che si erano conquistati con le lotte. Nel frattempo, le classi dominanti accrescono i propri redditi e patrimoni, la polarizzazione sociale aumenta a dismisura, e le classi possidenti diventano più possidenti e le nullatenenti più nullatenenti.

La storia non si ferma, e quando la crisi erompe violenta e dilaga in ogni dove (dal 2007 ai giorni nostri), ecco allora che le classi dominanti, invertono la rotta, l’austerità viene sospesa, i deficit di bilancio possono gonfiarsi, i Governatori delle banche centrali strizzano l’occhio alla MMT, il settore privato, va in surplus, riceve potere di acquisto. Eppure, la povertà, la disoccupazione, i lavori precari, la chiusura di imprese, e tanti altri effetti della crisi capitalistica, non sembrano avvertire i benefici effetti di questo flusso di risorse dal pubblico al privato: perché? Perché – risponde Kelton – il deficit non è quello giusto!
Invece di guardare a come funziona il presente modo di produzione e a spiegarci il perché quei giusti deficit pubblici che si trasformano in insegnanti, in posti letto negli ospedali, ecc., che sono beni e servizi essenziali per una vita dignitosa delle classi subalterne, non vengono spontaneamente realizzati, ma richiedono invece lotte decennali, Kelton si limita a guardare dall’esterno i secchi e da questi trae la panacea universale (s’intende limitata allo Stato con sovranità monetaria).

Due cose occorre tenere a mente: che i flussi tra i secchi sono generati dal grado in cui si trova il conflitto di classe, e che i secchi forniscono nomi di grandezze (surplus/deficit) dietro i quali si nascondono le realtà più differenti che le hanno generate.
Ecco allora che da arma nelle mani delle classi oppresse, questa MMT, apre una via d’uscita alle classi possidenti, le quali, nascoste tra le pieghe dei “saldi settoriali” continuano a fare il bello e cattivo tempo. Gli oppressi vengono educati a confidare in uno stato super partes, che punta all’interesse generale e che ha nelle proprie mani il potere di realizzare il “regno della libertà”. Vengono educati, da questi nuovi “socialisti della cattedra”, a chiedere allo Stato. Con ciò si fa dimenticare e viene dimenticato, che la liberazione del proletario non può che essere opera del proletariato stesso e dell’organizzazione sociopolitica-economica che sarà in grado di darsi.


Stephanie Kelton, Il mito del deficit. La teoria monetaria moderna per un’economia al servizio del popolo, Fazi, 2020

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